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Backlog #3: Wheels of Aurelia - Traffico intenso, code a tratti, code attratte dal sole

Backlog #3: Wheels of Aurelia - Traffico intenso, code a tratti, code attratte dal sole

Backlog è la rubrica in cui chiacchieriamo fuori tempo massimo di giochi che abbiamo recuperato nella nostra lotta infinita contro il cumulo di arretrati. Sono quei giochi troppo recenti per poter essere ammessi nell'ospizio, ma già troppo vecchi perché possa ancora interessare a qualcuno una recensione classica.

In Wheels of Aurelia mi ci sono imbattuto per la prima volta la scorsa estate, qualche giorno prima di partire per il mare. Una mattina, cazzeggiando su internet, ho incrociato su Facebook il Greenlight Trailer dell’ultima fatica dei Santa Ragione, con la sua grafica deliziosa e una musichina così orecchiabile che ho finito per infilarla in valigia e canticchiarla lungo la Cisa, piede all’acceleratore, mentre per la testa mi ronzavano robe tipo Micro Machines, Glimmerati, “racing narrativo” e “indie italiano”.

Insomma, l’uscita di Wheels of Aurelia era data per settembre e l’intenzione di provarlo al lancio c’era tutta, anche per via del contesto fascinoso: un road trip lungo l’Italia di fine '70, divisa tra gli ultimi scampoli della dolce vita e la controcultura, la stessa controcultura che la morte di Moro stava spingendo giù per la scarpata, rotolandola tra gli anni di piombo, gli scontri a muso duro, le BR e i gruppi di estrema destra, i fumetti di Pazienza, il punk bolognese, Ecce Bombo, Impastato, l’eroina. Insomma, tutto l’insieme scombinato di cose che hanno caratterizzato il belpaese in quegli anni lì, e che mi sono arrivate all’orecchio di seconda, terza o quarta mano durante gli anni del liceo, in qualche maniera.

In ritardo, questa volta non per ragioni anagrafiche, sono arrivato pure all’appuntamento con Wheels of Aurelia: dopo aver bruciato il day one su Steam prima (20 settembre), e quello su console poi (5 ottobre), ho messo le mani sul gioco dei Santa Ragione solo la scorsa settimana, grazie a un codice gentilmente fornito da Mixed Bag. Quindi, in una fredda serata invernale, ho lanciato il gioco, scelto la macchina tra quelle proposte (una 2CV), nervi tesi alla partenza e bum! In un attimo è di nuovo estate e sto sfrecciando lungo una via Aurelia isometrica di fine '70, disegnata con un low-poly caldo e colorato di metà ‘90; la radio manda brani e notizie d’annata e mi tornano in mente le gite sudaticce che facevo da bambino a bordo di macchine ferrose e bollenti, con i finestrini abbassati anche in autostrada e quel WoooWoooWooo che solo a ripensarci mi mette una paura boia.

Gite al mare di inizio ‘80 a bordo degli stessi veicoli che rombano per le strade di Wheels of Aurelia, con ogni probabilità; e senz’altro alla radio passavano ancora le ultime notizie di piombo, prima che l’italia abbracciasse del tutto le estati di Pertini, di Sapore di Mare e delle sale giochi. Sempre in questo mood nostalgico, l’attacco del gioco mi ha pure ricordato Out Run, con la sua struttura a bivi, solo che al posto della bionda californiana, questa volta, ho di fianco una castana italiana, Olga, ma soprattutto io non sono più il Ferris Bueller con la Testarossa sotto al culo, ma Lella: una ragazza con la zazzera corta e la giacca di pelle che sembra uscita da un film della nouvelle vague. Una ribelle in fuga dalla Roma bene e dai Parioli, intenzionata a raggiungere la Francia per chiudere una certa faccenda.

Sul piano narrativo, lo avrete intuito, l’innesco di Wheels of Aurelia è quello di un road movie al femminile à la Thelma & Louise (laddove Olga è una Thelma e Lella una Louise), con una spruzzatina di Easy Rider nei pressi del carnevale di Viareggio. Dopo appena qualche chilometro, il gioco sterza verso Il Sorpasso (citato attraverso qualche dialogo e il celeberrimo clacson) e La dolce vita, con cui condivide gli spazi e la medesima struttura a tappe, incrociando di quando in quando il Bellocchio de I pugni in tasca e Sbatti il mostro in prima pagina, soprattutto per la vena manierista nel rappresentare la controcultura. C’è pure qualche momento poliziottesco che non guasta.

Come tutti i road movie, nonostante l’aggancio alla storia Italiana, il gioco paga pegno soprattutto a quel concetto di esplorazione e frontiera che parte dal western, passa per hobo e beatnik, fino a raggiungere la letteratura di fantascienza. Così, nonostante i riferimenti e l’ambientazione di casa nostra, Wheels of Aurelia finisce con l’abbracciare uno spazio americano; solo, in scala doppiamente ridotta, per via delle differenze di orizzonti tra Stati Uniti e Europa, e tra i chilometri reali e quelli videoludici, che sono sempre un po’ riassunti.

Paro paro.

Paro paro.

Seghe mentali a parte, ho trovato il concept imbastito dai Santa Ragione piuttosto interessante. In sostanza, dietro la definizione di racing game narrativo si nasconde un gameplay del tipo “guido mentre chiacchiero e mi confido, ascoltando musica alla radio”, che pur non essendo inedito in termini assoluti, non mi pare abbia mai dato forma a un gioco tutto intero, e alla fine ci sta: guidando in modalità crociera, si entra in uno stato mentale semiautomatico, che favorisce la chiacchiera e l’intimità. La macchina è uno spazio doppio, fermo e in movimento assieme; è uno spazio chiuso proiettato in uno spazio aperto, e ben si sposa con la natura dei videogame. Così, gli aspetti chiacchiera/guida, dentro/fuori servono il gameplay del gioco piuttosto bene: lungo l’Aurelia poligonale, i personaggi affrontano bivi sia spaziali (stradali) che dialogici, fino a raggiungere in circa un quarto d’ora uno dei sedici possibili finali a disposizione. A far girare la sorte contribuiscono fattori espliciti come la scelta del percorso, qualche garella o alcune battute cruciali, e altri meno scoperti, come l’andamento della vettura, lo stile di guida, la mancanza di attenzione e persino il silenzio.

La parte racing (se così si può dire) è forse quella che i Santa Ragione hanno saputo gestire meglio in termini di efficienza, nonché quella più radicale. Il modello di guida è semplicissimo, scattante, avvincente, eppure completamente indolore: incidenti e danni al veicolo sono banditi dal gioco, così come la morte; tutti i cliché di linguaggio sono ribaltati - come a carnevale, appunto - e le uniche conseguenze della nostra condotta riguardano solo l’accesso a questo o a quel finale; si può lanciare l’auto in testacoda quanto si vuole (ed è divertente come far girare uno yo-yo), ma anche appoggiare il pad e lasciare andare tutto per i fatti suoi, in accordo al manifesto programmatico “rejecta” redatto dal game director Pietro Righi Riva.

Tutta questa morbidezza permette al giocatore di dedicarsi serenamente ai dialoghi, gestiti a loro volta da un sistema “a scorrimento” che fa pendant con la sostanza racing del gioco, e serviti attraverso un’interfaccia – passatemi il termine - impressionista, che sovrappone costantemente strada, chiacchiere e volti dei personaggi. Questo taglio facilitato lascia anche intendere che Wheels of Aurelia sia stato pensato per far accomodare gli utenti occasionali, magari interessati alla matrice sociale o politica del gioco, ma digiuni di pratica videoludica.

Eppure, quelli che dovrebbero essere i punti forti di Wheels of Aurelia, quelli su cui gli autori sembrerebbero aver puntato la somma maggiore, costituiscono purtroppo il suo ventre molle. Mi riferisco, ahimè, ai dialoghi e agli intrecci narrativi.

Il gioco, pur funzionando sul piano estetico e di design, perde colpi proprio sui contenuti, la cui scarsa riuscita pregiudica l’equilibrio dell’esperienza.

I dialoghi, in particolare, a cui è affidato il grosso della costruzione dei personaggi, mi sono parsi un po’ in posa e sottomessi a cliché per risultare davvero efficaci e credibili, e finiscono con lo stonare in un’opera che cerca con tutte le forze di emanciparsi dai canoni della scrittura commerciale. È pur vero che la missione in questi casi non è mai facile e che l’equilibrio dialogico è forse una delle cose più rognose da gestire quando si progettano videogiochi, soprattutto quelli narrativi, al punto che gli esiti sono spesso polarizzati tra soluzioni troppo didattiche e didascaliche e altre eccessivamente fumose. Davvero non saprei dire se certe problematiche siano legate alla disposizione d’animo degli scrittori o alla natura interattiva del mezzo, ma resta il fatto che indovinare il punto di equilibrio per i dialoghi o per le parti scritte nella struttura dei videogiochi è sempre una mezza scommessa.

Scommessa che qui, peccato, non è andata per il meglio: sempre per effetto dei dialoghi, gli eventi storici che intrecciano il percorso dei personaggi sono tracciati a punta grossa, se non adoperati in modo pretestuoso anche e soprattutto nei finali. La politica e la Storia entrano e escono dalle trame senza troppo respiro, mentre avrebbero funzionato meglio se infilate tra le pieghe, spingendo il giocatore a qualche sforzo interpretativo in più. Nel complesso, ho trovato funzionare meglio i dialoghi più intimistici o universali (mi riferisco in particolare alle chiacchierate con il prete o con il vecchio partigiano, tra le meglio scritte del gioco), ma capisco la voglia di dare una particolare impronta al contesto. Va detto che forse è il primo approccio ad essere particolarmente scoraggiante: giocando e rigiocando i segmenti per scoprire tutti i finali, si accede a dialoghi più interessanti di quelli iniziali, anche se nel complesso la gestione delle svolte non è mai eccezionale. Si ha l’impressione che le storie siano un po’ troppo casuali e qualche volta il rapporto tra progressione e scelte sfugge a una decodifica “in-progress”, ma si manifesta solo postumo, a cose fatte. Tra l’altro, su scelte diverse mi è capitato di scoprire delle incongruenze tra i comportamenti dei personaggi, come se gli autori avessero preso delle scorciatoie per far quadrare tutto.

Questi problemi vanno a inquinare soprattutto la caratterizzazione dei personaggi e finiscono per lasciare dei vuoti; i tratti di partenza della protagonista Lella, ad esempio, non vanno d’accordo con tutti i finali, ma solo con alcuni. Scegliere una caratterizzazione così marcata per poi spenderla in soluzioni al limite del casuale leva sostanza al personaggio. Tra l’altro, alcuni finali, ma anche parecchi incontri o bivi narrativi, mi sono parsi sostanzialmente dei deux ex machina. È anche vero che Olga, ad esempio, non è scritta male: così divisa tra impegno e disimpegno, tra civetteria e buonsenso di borgata, mi ha ricordato un po’ la Sandrelli di C’eravamo tanto amati, tanto per restare in tema.

L’auto della polizia sembra uscita da un patto Soros. "Hai il mezzo più veloce del gioco, ma con la sirena accesa che rompe i coglioni e rovina le musichine".

L’auto della polizia sembra uscita da un patto Soros. "Hai il mezzo più veloce del gioco, ma con la sirena accesa che rompe i coglioni e rovina le musichine".

Comunque, lo ribadisco, sia livello di concept che stilisticamente, il gioco ha molto da dire, la confezione è eccellente, le musiche - sempre diegetiche - sono davvero orecchiabili, e pur essendo quasi tutti brani originali, sono perfettamente aderenti all’epoca rappresentata. Insomma, Wheels of Aurelia è più della somma delle sue parti: girare in auto per l’italia incasinata degli anni Settanta con l’autoradio accesa è un bel modo di metterla giù. Con dialoghi e intrecci migliori, tutto sarebbe filato liscio, mentre così, il grosso dell’atmosfera (che pure c’è, lo ribadisco) viene sostenuto quasi completamente dagli elementi di contesto.

Oddio, ripensandoci, ho anche la sensazione di aver fruito di Aurelia nel modo “sbagliato”, sciroppandomi quasi tutti i finali in un paio di serate fitte, mentre forse avrei fatto meglio a spezzare i tempi e a lasciar respirare di più il gioco. Ma è anche vero che ognuno gioca poi come gli viene.

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