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I predatori del tempo perduto (e delle madeleine del Mulino Bianco)

I predatori del tempo perduto (e delle madeleine del Mulino Bianco)

Fin da bambino sono sempre stato ossessionato dal tempo.

Ricordo che durante il secondo anno d’asilo già rimpiangevo il primo: “Ah, quella bimbetta con le trecce che mi piaceva tanto, in che sezione sarà finita?” (quando hai quattro anni, tra il primo e il secondo piano di un edificio passa un universo intero).

A sei anni vivevo di ricordi come un vecchio sdentato; che poi, per via della faccenda dei denti da latte, probabilmente sdentato lo ero davvero. Alle medie mi struggevo sui ricordi delle elementari, al liceo su quelli delle medie, per non parlare degli anni all’università, durante i quali si limonava poco e ci si annoiava molto, ma che oggi mi appaiono luminosi manco fossero l’âge d'or di Midnight in Paris.

Ho sempre cercato di mandare a memoria le cose, di annotare le analogie tra passato e presente. Addirittura, durante una vacanza al mare trascorsa anni fa con i miei all’hotel Tiffany's di Milano Marittima (ho appena controllato su TripAdvisor: esiste ancora), mi aveva preso una specie di tic: contavo compulsivamente gli scalini che portavano dalla hall alla stanza, rammaricandomi del fatto che ogni scalino percorso era uno scalino perso, irripetibile.

Mi sento male.

Poi c’era la faccenda dei grandi eventi sportivi. Non ho mai seguito molto lo sport in sé, ma venivo irrimediabilmente coinvolto dalla ciclicità di Olimpiadi, Europei e Mondiali di calcio. Durante i Giochi di Barcellona ‘92, ad esempio, ripensavo con nostalgia a Seoul ‘88, scandito dalla saga delle Paperolimpiadi con tutta quella bellissima storia d’amore tra Kim-Don-Ling e Chen-Dai-Lem, giovani atleti rispettivamente in gara per la Corea del Sud e quella del Nord (storia piuttosto attuale, tra l’altro). Stessa cosa per i Mondiali di USA ‘94: grandiosi i commenti della Gialappa’s, strepitosi gli Elio e le storie tese con Nessuno allo stadio, ma insomma, dai, vuoi mettere con le notti magiche di Italia ‘90?

Sempre in virtù della mia ossessione per il tempo (anzi, per lo scorrere del tempo), durante i miei trascorsi da ragazzino in BMX, il mio film preferito era nettamente Ritorno al futuro. Non I Goonies, non La storia fantastica né quella infinita, e certamente non Guerre Stellari. Nossignore. Era Ritorno al futuro, e non per via di Nike, skateboard, Walkman o provincia americana varia, ma proprio perché era un film che rifletteva sul tempo - in maniera incredibilmente raffinata, tra l’altro - ed era ambientato in una sorta di versione anni Ottanta degli anni Cinquanta. Che, a ripensarci, la cosa aveva - e ha - tutto un suo senso: la prima volta che ho visto il film di Zemeckis in televisione - ricordo che era l’ultima sera dell’anno, boh, 1987? 1988? - ero appena un ragazzino e mi ero gustato soprattutto le differenze tra passato e presente. Poi, con gli anni, riguardandolo infinite volte, al punto di imparare a memoria quasi tutte le battute, e con l’aumento della mia massa critica, ho iniziato a fare sempre più caso alle analogie tra l’America anni Cinquanta che usciva dallo sforzo bellico carica di ottimismo e vigore, con tanta voglia di fare, di cantare e di ballare, e quella di Reagan (“l’attore!”), che pure usciva dalla contestazione e da una crisi economica, e aveva di nuovo voglia di fare e pure di ballare, pur con quel pizzico di malizia luccicante in più.

Will Byers, puppami la fava.

Questa cosa delle “storie sul tempo” ha finito col perseguitarmi per tutta la vita, da Blue Jeans a Lost, da Peggy Sue si è sposata (magnifico nel suo mix di nostalgia, locura ed esoterismo) a Un'altra giovinezza, entrambi di Coppola, passando per Donnie Darko.

Ora, probabilmente un bravo psicoterapeuta direbbe che la mia fissazione per il tempo potrebbe essere figlia di un inconscio desiderio di staticità, derivato a sua volta dalla paura di crepare, tanto per buttarla sul pesante (“Ancora questa parola... pesante. Ma perché è tutto così pesante, per voi del futuro?”). E in prospettiva avrebbe perfettamente senso: in fondo, una bella fetta della nostra cultura popolare è figlia del confronto con lo stato delle cose; è uno strumento di elaborazione dell’inevitabile. E cosa c’è di più inevitabile della morte e del passare degli anni? In ragione di questo, in un discreto numero di racconti d’avventura, i “buoni”, in genere, accettano la natura effimera delle cose e imparano a conviverci, mentre i cattivi inseguono l’immortalità rinunciando alla loro umanità: da Voldemort a Darth Sidious, da Roy Batty a Orochimaru (OK, la cultura orientale meriterebbe tutto un discorso a parte, ma l’attacco di Naruto, a dispetto dell’estetica, ha parecchi punti in comune con i romanzi della Rowling). La morale della fiaba è che morire è “giusto”: siamo una specie che sopravvive in gruppo, che si evolve di generazione in generazione, e l’arte che produciamo finisce col riflettere o elaborare i nostri limiti e le nostre possibilità.

Eppure.

Eppure la morte ci fa paura e l’idea di un “eterno presente” può essere confortante e accogliente, come sembra avere afferrato molto bene il marketing. In questo senso, sempre la mia fissazione per il tempo e per Ritorno al futuro mi ha portato a osservare la ciclicità di un certo tipo di cultura popolare e ad elaborare di conseguenza la rozza teoria detta (da me) del “ciclo dei trent’anni”, il cui profondo fondamento scientifico si basa principalmente sui viaggi nel tempo di Doc e Marty, che coprono quasi sempre intervalli di trent’anni (fatta eccezione per la Parte III, che è più interessata a praticare un discorso meta-cinematografico, che a riflettere sul tempo). Nel primo film si viaggia dal 1985 al 1955, mentre nel secondo si va dal 1985 a un 2015 che “rievoca” la seconda metà degli anni Ottanta (banalmente, perché il film è stato prodotto nel 1989).

Zemeckis, regista fissato col tempo e con il libero arbitrio senz’altro più di me, aveva afferrato perfettamente il senso dei cicli trentennali, così come lo aveva afferrato anche Stephen King attraverso il romanzo It. Trent’anni, per un individuo, definiscono il passaggio dalla prima adolescenza alla piena maturità; dai farò ai sarà.

Questo vale sia in termini umani, artistici, ma anche di mercato. Nel giro di trent’anni, nel migliore dei casi, un ragazzo può terminare gli studi, trovarsi un lavoro e mettere dei soldi da parte, e magari questi soldini ha voglia di spenderli in qualcosa che trova familiare e accogliente, in qualche “madeleine del Mulino Bianco” che gli ricordi quanto erano belle l’infanzia e l’adolescenza (fun fact: per anni ho pensato che madeleine e plumcake fossero la stessa cosa e associavo entrambi alla brioscina sfoggiata da Egon Spengler in Ghostbusters; c’è voluto Zombieland per aprirmi gli occhi su tutta la faccenda dei Twinkie).

Questo spiega le operazioni-nostalgia furbette che stanno invadendo il mercato da qualche anno a questa parte; i remake o i reboot, verso i quali continuo ad avere un atteggiamento indeciso: da un lato, da fruitore, se funzionano, tanto meglio. Diversamente, se fanno schifo, non hanno comunque il potere di corrompere retroattivamente il materiale di partenza (e in ogni caso non stiamo parlando di sacre scritture). Eppure non posso nemmeno ignorare che un eccessivo ripescaggio di brand storici “sicuri” rischi di levare risorse a progetti nuovi di zecca (e non necessariamente più validi, eh). In tutto questo, di tanto in tanto, salta fuori pure qualche prodotto sensato e interessante che adopera il passato come punto di partenza per riflettere sul presente, eventualmente per criticarlo, o comunque per dire qualcosa di nuovo (Gone Home, per fare un esempio, lo metto nella categoria dei “buoni”).

Comunque, tornando al ciclo di cui sopra: a partire dagli anni Ottanta, è possibile riscontrare analogie cicliche tra i decenni a distanza di venti o trent’anni. Analogie stilistiche, culturali, ma anche ideologiche, politiche e sociali. I segnali di questo fenomeno sono evidenziati dai media ed emergono dalle pieghe del cinema, della televisione, della musica, della moda e dei videogiochi. Per certi versi, la cultura postmoderna nasce proprio da questo fenomeno, che la diffusione di internet ha spinto al massimo e che ha finito per livellare i riferimenti culturali di generazioni piuttosto distanti tra loro.

Così, mentre passavo dall’adolescenza alla giovinezza, passavo anche dagli anni Ottanta in odore di Cinquanta ai Novanta in odore di Sessanta. E se alle medie il massimo della figaggine erano le Ferrari di Out Run e di Magnum, P.I., arrivato al liceo dovevo fare i conti con la controcultura e i centri sociali, mentre l’arrivo del nuovo millennio salutava il ritorno dei pantaloni a zampa e degli anni Settanta, celebrati da serie come That '70s Show e da film come Tempesta di ghiaccio, Boogie Nights, I Tenenbaum, Il giardino delle vergini suicide o dal remake in chiave cinematografica di Starsky & Hutch. Sia chiaro che questo discorso che faccio è da prendere con le pinze, non vuole essere dogmatico né assoluto: nel corso degli ultimi trent’anni è emersa anche un sacco di roba nuova, originale, senza contare che esistono contesti – come quello del design industriale o dell’arte contemporanea – che seguono dinamiche differenti, forse perché collimano meno con la cultura nerd, che ormai la fa da padrone.

Poi, BAM, è successo qualcosa che nemmeno Zemeckis aveva previsto: il “ciclo” ha iniziato piano piano ad accelerare, le rimediazioni dei decenni a farsi sempre più veloci fino a mescolarsi e a convivere senza soluzione di continuità. Fino a due o tre anni fa, tutto sembrava puntare a un ritorno dell’estetica anni Novanta: in televisione rispuntavano X-Files e Beverly Hills 90210, mentre dalle nostre parti Accorsi aveva quella bella idea di 1992.

Lynch annunciava la terza stagione di Twin Peaks, The Fullbright Company lanciava Gone Home e Ron Gilbert mostrava al mondo le primi immagini di Thimbleweed Park. Poi è arrivato il fenomeno Stranger Things e siamo di nuovo rimbalzati tutti sugli Ottanta. Ultimamente ho la sensazione di sguazzare in un calderone di cultura pop sospeso tra la Oasis di Ernest Cline e l’universo LEGO: un eterno presente dove ragazzini con la metà dei miei anni si appoggiano a riferimenti culturali praticamente identici ai miei e covano hype per il ritorno di cose che non hanno visto o vissuto, se non in differita. E con questo non voglio dire che la mia generazione (sono nato sul finire degli anni Settanta), pur essendo una fra le poche ad aver cavalcato sia la cultura analogica che quella digitale, sia speciale o altro; né che aver visto la prima messa in onda di Twin Peaks rappresenti una medaglia al merito: significa solo che sono invecchiato.

Eppure, ultimamente ho la sensazione che determinati aspetti della cultura occidentale non riescano a uscire da un cul-de-sac iniziato a ridosso dell’ultimo dopoguerra. Anzi, credo che la Seconda Guerra Mondiale c’entri qualcosa con tutta questa faccenda: forse è stata l’ultimo grosso botto storico che ha rimescolato le carte della politica e della società, azzerando conseguentemente la cultura popolare. Una specie di spartiacque, insomma (fermo restando che non sono uno storico e le mie valgono come chiacchiere da bar). Un’altra grossa botta, probabilmente, è arrivata dalla cultura digitale. Internet, da un lato, è una cassaforte di informazioni incredibile, dall’altro un tritacarne che favorisce la generazione, la distribuzione e la consumazione di contenuti a una velocità pazzesca. Forse, una certa cultura del citazionismo è ferma agli anni Settanta, Ottanta e Novanta semplicemente perché una volta si finiva per guardare/leggere/ascoltare giocoforza sempre le stesse cose: vuoi per la struttura dei palinsesti televisivi, vuoi perché c’era modo di accedere a un numero limitato di libri, videogiochi, fumetti, CD o film, che hanno finito per diventare “mostri sacri” (per la mia generazione conto i vari Ghostbusters, Indiana Jones, Blade Runner, i Goonies e, appunto, Ritorno al futuro, mentre mio padre, ad esempio, sta in fissa con la roba di Godard, piuttosto che con Il Padrino o Il cacciatore).

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Oggi che i contenuti si sono moltiplicati, e spesso sono pure di qualità, è difficile passarci sopra più di due o tre volte persino per un ragazzino che ha più tempo libero di un adulto. E non dico che fosse meglio prima, anzi, mi limito solo a prendere atto dello stato delle cose. Forse, per uscire dal loop, serve una nuova deflagrazione, un nuovo “azzeramento”, nel qual caso spero che sia una rivoluzione pacifica, a dispetto dell’ascesa del populismo, del terrorismo, del razzismo e della xenofobia, ché con questo pezzo credo di avere esaurito il mio bonus di sociologia spiccia per i prossimi trent’anni almeno.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo

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