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Racconti dall'ospizio #77: Quel dolce vizio che non smette di tormentarci

Racconti dall'ospizio #77: Quel dolce vizio che non smette di tormentarci

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Umberto Robina: Look at him, all dressed up like that. What is this, ladies night? You some kind of tough guy, you dress like a woman? You got on panties like a woman too, huh?

Tommy Vercetti: What you got against women? You prefer men, big boy?

Umberto Robina: I like women! I like all women! I love my mother, chico!

Tommy Vercetti: Alright, alright, I’ll take your word for it. Relax.

Umberto Robina: Can you drive, amigo?

Tommy Vercetti: Yeah… like a woman.

Piove. Chi sta al Nord ha un’idea alquanto pittoresca della mia Sicilia bella: tipo che stiamo in pieno Equatore, perciò maniche corte ed infradito tutto l’anno à la Tom Selleck, gente che balla oppure spara, oppure spara ballando, il tutto ovviamente con quell’accento che non esiste di sottofondo, sulla scorta di tanti, troppi sceneggiati della TV nostrana (prodotti a Roma ed interpretati da romani). Invece no, vabbè che le piogge equatoriali sono rinomate, ma fa pure freddo; quanto basta comunque per impedirmi quel pomeriggio di tirare fuori dal garage il mio Zip Piaggio.

È l’otto novembre, di un anno in cui ancora non mi passa nemmeno per la testa di controllare il calendario per scoprire che è San Goffredo vescovo d’Amiens. Nel 2002, quel giorno lì rappresenta l’uscita di Grand Theft Auto: Vice City in Italia. Oggi sembra strano dirlo, ma v’assicuro che all’epoca GTA non era ancora davvero GTA ma lo sarebbe diventato proprio qualche mese dopo, quando anche i più oltranzisti, che s’erano fatti sfuggire GTA III dodici mesi prima circa, dovettero arrendersi all’evidenza del fenomeno di portata storica, per poi rimediare in toto con l’avvento di San Andreas, sdoganamento ufficiale di un fenomeno di costume tra i più significativi di inizio millennio. Intermezzo musicale.

Non ero solito leggere riviste, con Internet stavo ancora prendendoci la mano e comunque non rientrava tra le mie priorità come oggi. Ricordo questo sito italiano, molto primi anni '00 perciò fine anni ’90, che in esclusiva (per me) aveva caricato le prime immagini di Vice City. Non capivo: che sono tutti ‘sti colori? E poi… come sono vestiti? Me ingenuo, che avevo quindici anni ed ero per certe cose ben più distratto di adesso; dovetti arrivare a leggere le righe che accompagnavano quelle immagini per scoprire qualcosa che mi avrebbe tormentato per i mesi a venire: il nuovo GTA sarebbe stato ambientato negli anni Ottanta. Urge intermezzo musicale, prima di quanto preventivato.

Dicevamo. Ero un ragazzino dai gusti semplici, decisamente grounded, come dicono gli anglofoni, anche se all’epoca non avevo idea di cosa volesse dire (al Quinto Ginnasio, ultimo in cui era prevista la lingua straniera nel mio corso, la professoressa d’Inglese non mi lasciò la materia, testuale, «Perché non ti voglio rivedere il prossimo anno», bontà sua): mi attiravano le cose non comuni, purché non fossero troppo estrose, prediligendo ciò che mi offriva un qualche legame, un filo con la realtà, che per me non si traduceva, banalmente, nella quotidianità, bensì in ciò che mi era familiare, dunque tutto ciò che avevo immagazzinato dalla televisione, lato cinema per lo più. Ché anche se guardavo Ciao Darwin, non me la sentirei di dire che apprezzassi più di tanto il trash e il degrado di fondo.

Per intenderci, ero quello che, durante le rare mattine a casa o dalla nonna poiché malato, o d’estate nelle prime mattinate, cambiava sistematicamente canale, allorché trasmettevano roba tipo Magnum P.I., in attesa di Hazzard, A-Team o Supercar, con qualche sortita nel dorato mondo del problem solving targato MacGyver - ora non riesco a guardarne uno di questi, in compenso sono diventato un fan di Magnum ed Higgins. Rammento pure una certa apatia per Miami Vice, che, rispetto alle serie TV sopracitate, per noi bimbi era meno illustre, oltre che, a posteriori, probabilmente troppo immersa nel proprio decennio, rispetto al quale, non per niente, ha in parte dettato i tempi.

Figurati, perciò, quanto mi esaltasse l’idea di un Grand Theft Auto scaraventato in quel decennio oscuro, lo stesso in cui il sottoscritto c’è stato solo di passaggio e di cui ho per lo più un ricordo: me che innaffio mio padre con la pompa mentre avrei dovuto lavare il camper, con lui che non riesce nemmeno a sgridarmi, se non altro perché impedito dagli schizzi che gli entrano nella trachea. E la Tour Eiffel vista da sotto, sì (a Parigi ci andammo col camper). Grand Theft Auto, quella cosa che mi ha mostrato “altro” invece della generale piattezza di un mondo fatto di cose buone ed educate, magari sane, ma limitate in quanto foriere di una sola parte, non di rado nemmeno la più eccitante. Grand Theft Auto, il II, per l’esattezza, che Maurilio mi regalò per il mio compleanno nel sempre più sfuggente 1999, rigorosamente masterizzato, presentandomelo come segue: «Calcola che in quello prima c’era una missione in cui dovevi ammazzare tua nonna». Fosse vero o meno, contava poco. Io, che ci avevo giocato un pomeriggio solo l’anno precedente, durante i Mondiali di Francia, ricordo che mi fece molto sorridere una riga di dialogo che iniziava con la banale esclamazione «Figlio di un cane!». Intermezzo musicale.

Tornai a casa, misi il CD nella PlayStation e… checcazzo è quella cosa?! Inquadratura a volo d’uccello, grafica obsoleta persino per l’epoca e in generale non si capiva una banana. Era l’open world, bellezza! Solo, declinato secondo i criteri ed i parametri dell’epoca. Mi affrettai a chiamare Maurilio, e con una delicatezza che oggi non mi sorprende ma nemmeno mi gratifica, sbottai:

Me: Ma che è ‘sta cosa?

Maurilio: Non ti piace?

Me: Completamente.

Maurilio: Dagli tempo, fidati.

Me: Se lo dici tu. Grafica pessima, non ho nemmeno capito cosa devo fare.

Maurilio: Tranquillo, se non ti piace me lo restituisci e te ne do un altro.

Caro Maurilio, sapessi quanto bene hai fatto a suo tempo! Se solo avessi cercato di avere ragione rispondendomi a tono, come mi sarei meritato, non ho idea di che strade avrei preso, dove sarei finito. Ma poiché al caso non ci ho mai creduto, so che in quell’episodio ti limitasti a corrispondere alla tua parte, ma fu una grande performance. Per questo un giorno mi piacerebbe moltissimo ringraziarti, se solo sapessi che fine hai fatto (e che fine ha fatto la tua bellissima madre, la stessa che mi preparava le crepes alla Nutella quelle poche volte che sono venuto a casa tua. E io ci volevo tornare sì per Carmageddon versione non censurata ma soprattutto per le crepes alla Nutella di tua madre, che era bellissima). Dovunque tu sia, ti ho sempre voluto bene, Maurilio. E te ne voglio ancora.

Dovetti seguire il felice consiglio, lasciandomi sostanzialmente andare. Si dice che per gli adolescenti sia più facile, lasciarsi andare, intendo, ma a mia memoria non è mica tanto vero. Certo, si è meno sfatti, corrotti nei gusti e nelle idee, qualunque cosa tutto ciò sia, ma questo atteggiamento così uterino lo si paga con la mancanza di qualsivoglia disciplina: se il pesce non ti piace, lo lasci e ti prendi un plumcake, salvo che la mamma non t’insegni diversamente, per dire. GTA II compì il miracolo, costringendo un ragazzino dai capelli spettinati, tendenzialmente incazzoso, a stare col culo sul divano finché quello strano oggetto, che di tutta prima non si prestava affatto, divenisse più familiare, qualcosa o qualcuno con cui darsi del tu e, se del caso, a cui raccontare persino i tuoi segreti. Intermezzo musicale.

Quello che sto per riportare è un miracolo e, come tale, va recepito attraverso gli occhi della fede, ché diversamente non si capisce nulla. So solo che il luogo in cui era possibile salvare la partita si chiamava Jesus Saves e ogni volta, dopo una missione, trovarlo era un bordello. All’epoca non era Gesù colui che mi salvò, non ancora per lo meno, o forse lo era attraverso un disco e tutto ciò che ci stava dentro ma non si vedeva. Fu allora perciò, ad illuminazione consumata, che decisi di diventare un evangelizzatore, rispondere ad una chiamata del tutto inventata, che sapevo essere tale. Dovevo però dirlo a tutti, gridare al mondo che esisteva questa cosa che si chiama Grand Theft Auto e che, se hai pazienza, ti salva la vita.

Però è vero, come potevo tenere per me una notizia così bella? Già questo dimostra l’immediato cambiamento: divenni altruista. È tipico infatti di chi è venuto a contatto con qualcosa che è fonte di gioia e letizia volerla condividere, perché appunto in quel momento si è talmente su di giri da trovare sacrosanto che pure il prossimo ne goda, o quantomeno sperimenti, poi sai mai. Apostolo di Rockstar Games, giravo per le case degli amichetti come il più convinto dei Testimoni di Geova, offrendo, anziché soluzioni per la vita eterna, codici come Navarone o Livelong, rispettivamente per le armi infinite e per la vita infinita, come li descrivevo all’epoca. Una palliativo, certo, ma di quelli buoni, che non ti salvava dalla dannazione, forse, ma per lo meno ti risparmiava una di quelle cose che ti ci mandano, ossia le bestemmie.

Non avevo opuscoli, mai mi sono serviti: chi aveva la ventura di trovarsi nella stessa stanza del sottoscritto doveva limitarsi ad ammirare un pannello che quasi sempre misurava quindici pollici e ascoltare me mentre lo istruivo sulla grandezza di un gioco che rappresentava il sacro Graal videoludico, cercando di capire, tra una trovata e l’altra, il cosiddetto sistema del Rispetto, felice introduzione di quel capitolo che, in tale dinamica, aveva fondato la sua ragion d’essere. Il resto un’altra volta, perché dopo due anni venne Grand Theft Auto III, primo capitolo su PlayStation 2 nonché il primo GTA a tre dimensioni, un uragano di proporzioni tali che da solo meriterebbe un approfondimento a parte. Appuntamento magari a quando Outcast proporrà una cover story sul millennium bug. Ora intermezzo musicale.

Conto di avere almeno per sommi capi dato ragione di questo amore che, come tutti gli amori degni di questo nome, fu tanto intenso quanto irrazionale. Unito all’impostazione maturata in quel periodo, perciò, spero altresì di aver trasmesso la contrarietà sorta a seguito di quelle cartoline da Vice City, con tramonti mozzafiato che però ancora non mi parlavano. Perché è vero, esistono posti, esperienze, sensazioni che vanno vissuti di persona, inutile farseli descrivere; e nessuno fino a quel momento poté spiegarmi come mai gli anni Ottanta, così esasperati e sopra le righe, portassero in dote qualcosa di così speciale. Specialità che quel gioco lì filtrava attraverso intuizioni visive meravigliose, come l’effetto blur da tanti tanto odiato (basta saperlo usare), albe e tramonti che ti trascinavano, il rigonfiamento della camicia di Tommy allorché sfrecciava su un inedito mezzo a due ruote, et cetera.

Quel pomeriggio però pioveva. E allora fui costretto all’amara scelta di farmi accompagnare, io, che pure col diluvio, di solito, mi mettevo in strada, pur di non dovere dare conto a nessuno o chiedere favori. Pino, mio padre, il cui atteggiamento ambiguo rispetto a questo mio interesse mi ha sempre affascinato e fatto incazzare al contempo, si fece carico di questa gita in centro, a recuperare l’ambito catalizzatore di ricordi e stupore dei mesi successivi. Perciò ci recammo presso l’esercizio, in Via Canfora, traversa di quell’altra via che per i videogiocatori di Catania non era una delle tante, ossia via Renato Imbriani, dove il vegliardo proprietario di Mac System non perdeva occasione per caricarti a male parole per via dei tuoi acquisti, come se il favore te lo stesse facendo lui: nel suo mondo ideale, tutti giocavano a Tomb Raider e quello soltanto. A un certo punto mi convinsi che il motivo era che quello fosse stato l’unico gioco a cui avesse mai giocato, nemmeno per intero.

Arrivo, chiedo la mia copia, lo scatolone lì sul tavolo all’entrata. Incasso finanche i complimenti dell’esercente, «Oh, sei il primissimo, eh»: paraculo lui, non sapendo che il primo era uno dei miei migliori amici, che qualche ora dopo mi fece sapere di essere passato quando ancora la saracinesca era abbassata. Non solo: quando nel tardo pomeriggio Alessio mi comunicò di essere appunto stato il primo in tutta Catania, mi chiese pure se avessi ritirato la targa. «Quale targa?!», sbottai. «Vuoi vedere che la cosa che m’ha nascosto davanti agli occhi ‘sto stronzo era proprio la mia targa!?»: il tizio, infatti, l’aveva tirata fuori con me davanti, salvo poi riporla senza alcun motivo apparente. E io non fui abbastanza pronto. Ad ogni modo, chiamo immediatamente e di tutta risposta mi viene detto che non c’è problema, l’indomani l’avrei trovata senz’altro; il tono, la pacatezza e finanche la successione delle parole tradivano una certa preparazione, come se in fondo sapessero che a un certo punto avrei chiamato. Dalle mie parti, questo processo psicologico viene indicato con la dicitura «Avere il carbone bagnato». Intermezzo musicale.

Il giorno dopo mi sveglio di soprassalto: nessun incubo… avevo solo qualcosa d’importante da fare ed io sapevo cosa. Mai stato così lesto nell’alzarmi dal letto, lavarmi, vestirmi e lasciarmi correre dal garage alla strada sfrecciando sul mio cinquantino 4-tempi. Arrivo al negozio sparato come un missile: chiuso. Anzi no: «Torniamo subito». Se questa cosa avesse richiesto di perdere una giornata di scuola, ebbene… al diavolo Sansone con tutti i Filistei, non avrei esitato un secondo. Non fu così. Dieci minuti dopo, due adulti straniti con in mano un caffè, portamento tipico del siciliano che a quell’ora trova immorale iniziare la giornata di lavoro, quantunque usi e costumi lo impongano, si avvicinano all’ingresso del negozio, braccati da questo sbarbatello che ha saltato la prima ora per recuperare un pezzo di metallo. «Voi avete qualcosa che mi appartiene. Vi ho chiamato ieri sera intorno alle sette». Il tizio sorride, non fa una grinza, però non mi fa nemmeno entrare; prende la targa e mi congeda. Ma sì, intermezzo musicale.

Per lungo tempo ho creduto che Vice City m’avesse dotato di tutto ciò di cui avevo bisogno per leggere gli anni Ottanta, quantunque profano del periodo. Mi sbagliavo. Avevo visto Scarface e OK, si trattava chiaramente di un’ispirazione. Daniele, però, continuava a ripetermi che Miami Vice aveva inciso se possibile pure di più, ma io ancora mi trascinavo le mie ritrosie infantili, perciò mi feci bastare Toni Montana. Finché Universal non decise d’intraprendere l’iniziativa della release italiana dei cofanetti in DVD della serie di Michael Mann ed Anthony Yerkovich. Ma soprattutto pare che fossero in offerta da qualche parte, perciò mi dissi: «OK, proviamo».

Erano passati anni, di mezzo altri tre GTA (San Andreas, Liberty City Stories e Vice City Stories... sul secondo scrissi peraltro la mia prima e unica guida alle missioni per una rivista distribuita in tutto il suolo italico). Ma Vice City, inutile negarlo, ancora risuonava, solo o accompagnato da quella colonna sonora per il cui acquisto in edizione fancy e pacchettizzata spesi più di una paghetta, dovendo rinunciare a qualche altro gioco. Dopo aver visto la puntata pilota, Il colombiano (Brother’s Keeper), e aver collegato In the Air Tonight all’omonima missione in Vice City Stories (non la più bella in assoluto, intendiamoci, ma una di quelle che ricordo con maggiore piacere nella storia di Grand Theft Auto), qualcosa scattò. Un clic. Come ho già scritto sopra, non credo nelle coincidenze, ergo il discorso andava approfondito.

E feci bene. Malgrado il mio radicale disappunto verso la quarta e soprattutto la quinta stagione, con un finale che grida vendetta al cospetto di non so quale divinità minore, o più semplicemente all’innato senso di giustizia che alberga in ciascuno di noi, Michael Mann divenne uno fra i cineasti che a tutt’oggi più apprezzo, alcuni dei suoi film ciclicamente rivisti e per studio e per godimento, tra cui Collateral, uno fra i migliori film del decennio 2000-2010 (troppo facile innamorarsi dell’action perfetto, Heat). In Miami Vice ritrovai i colori, i luoghi, ma soprattutto quel romanticismo di cui era profondamente intriso pure Vice City, non importa fino a che punto smorzato dal sublime delirio post-moderno dei fratelli Houser, che certe atmosfere e leitmotiv, evidentemente, li hanno proprio introiettati.

Non solo perciò simpatici easter egg, ma proprio un’intera concezione che permeava il gioco tutto, che volendo si pone come un’ode ad un decennio mediante il pezzo audiovisivo più rappresentativo, pop e a suo volta celebrativo degli anni di riferimento. Crockett’s Theme, le cui immagini di accompagnamento tratte dalla serie TV osserviamo oggi quasi con accondiscendenza, era non a caso uno fra i pezzi con cui ad un certo punto toccava confrontarsi, magari al tramonto, a bordo della tua zarra Infernus bianca, camminando a passo d’uomo con a lato Washington Beach e l’oceano. Nessun intermezzo, questa ve l’andate a cercare. Scherzo. Intermezzo e bel visino di Don Johnson.

Così nacque questa strana cosa per gli anni Ottanta: non è una passione ma nemmeno un hobby, né un’infatuazione, un interessamento o addirittura un’ossessione. Anche a costo di sembrare sdolcinato, di usare un gergo oramai troppo internettiano-filosofeggiante, persino, gli anni Ottanta sono un luogo dello spirito; una stanza in cui trascorrere del tempo quando il tempo ci tradisce, quando non ti riconosci nella tua, di epoca, senza sentirti chissà quanto originale, dato che nessuno si sente mai del tutto integrato nel periodo in cui vive. Il che, entro una certa qual misura, è sano. Lì dove non conta più la realtà, intesa come aderenza storica scrupolosa, ma nemmeno la fantasia. Un posto in cui andare non per restarci; giusto una visita di tanto in tanto, come oasi rigenerante che non è fine a sé stessa, bensì serve proprio in funzione del ritorno allo scenario che ci è toccato.

Gli anni Ottanta hanno provato a sperimentare un mondo impossibile, che a sua volta raccoglieva un’eredità pesante, quella degli anni Sessanta e soprattutto dei Settanta. Se la prese di dietro, quel decennio, dato che fu l’unico tra questi a cui fu presentato il conto, proprio per questo suo andare oltre, questo suo porsi come Rinascimento compiuto. Una follia, insomma, ma con una grazia tutta sua. E come tutte le utopie, non importa a cosa realmente rimandino ma come ciascuno le interiorizza, facendole proprie, reinventandole, piegandole ai propri desideri e/o aspirazioni. Edonisti come furono quelli anni, figurarsi se non si prestino tutt’oggi a tale processo, che non a caso in ogni dove viene condotto nei modi più disparati. Insomma, degli anni Ottanta, perciò di GTA: Vice City e di Miami Vice, non se ne parlerà mai abbastanza. O, come direbbe Luther Vandross… Never Too Much.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo

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