Se mi ami, non morire è meglio di Iñárritu
Potrei sbagliare, ma nonostante tutti passi in avanti degli ultimi anni, mi pare ancora abbastanza raro che i videogiochi (e le esperienze interattive che ruotano loro attorno) si impastino le mani con temi legati all’attualità e alla politica senza ricorrere a metafore o perifrasi. E mi pare sia ancora più raro che, quando succede, riescano a portare a casa il risultato senza scivolare nel didascalico. Poi, niente niente, da un giorno all’altro, mi salta fuori questo Se mi ami, non morire, che non solo riesce a mettere assieme un racconto interessante sul tema della migrazione, ma addirittura mi diventa un nuovo punto di riferimento per la costruzione e la gestione dei dialoghi interattivi. Pensa te!
Ispirato a eventi reali, Se mi ami, non morire (il titolo originale deriva dalla frase siriana “abbi cura di te, e non pensare neanche per sogno di morire prima di me”) è il primo lavoro indipendente dello studio parigino The Pixel Hunt, fondato dall’ex giornalista Florent Maurin, per il publisher indie Playdius (in co-produzione con ARTE). L’dea del progetto, stando a quello che leggo sui materiali stampa, nasce dall’incontro tra lo stesso Maurin e la profuga Dana S., una giovane donna siriana che ha lasciato il proprio paese per cercare una situazione più stabile in Germania. La stessa Dana S., oltre ad ispirare il progetto, ha finito col prenderci parte attivamente in qualità di consulente editoriale (e, visto l’esito, direi che ha fatto bene).
A livello di meccaniche, Se mi ami, non morire si presenta come un dramma interattivo/avventura di messaggistica istantanea per dispositivi mobile - "tipo i Lifeline", mi segnalano dalla regia - mentre per vocazione siamo nei paraggi di operazioni evidentemente politiche come Wheels of Aurelia, Venti Mesi, RIOT - Civil Unrest, ma anche di Kobane Calling, se mi è dato uscire dal seminato e generalizzare un po’.
Il gioco si basa sul rapporto “epistolare” tra la profuga siriana Nour e suo marito Majd, a partire dal momento in cui Nour decide di intraprendere un viaggio della speranza verso l’Europa, precedendo il marito. Il giocatore, nei panni di Majid, ha a disposizione solamente il suo smartphone per assistere, sostenere e confortare la moglie via chat, leggendo di volta in volta i messaggi che arrivano e scegliendo contestualmente le risposte con cui si trova più in sintonia.
Volendo parlare di gameplay in senso stretto – ma proprio volendo - l’interazione concessa è senz’altro limitata, e solo in una manciata di circostanze mi è parso che le scelte di percorso abbiano davvero inciso sullo svolgimento dei fatti (ma potrei sbagliare). Se fossimo nel 2010, si potrebbe obiettare che Se mi ami, non morire non è un videogioco in senso stretto, ma per fortuna siamo nel 2017, quindi chissenefrega.
Nel gioco è anche possibile gestire a piacere lo scorrimento del tempo diegetico, scegliendo se partecipare alla vicenda in tempo reale o se accelerare, spinti magari dalla curiosità. Nel mio caso, sono passato da un estremo all’altro a seconda del momento e della voglia, ma immagino che la cosa più sensata sia tenere sempre la vicenda di sottofondo, rispettandone il ritmo e i tempi narrativi senza forzare la mano, per accogliere il feeling previsto dagli autori. L’interfaccia prevede pure una mappa per seguire gli spostamenti di Nour, e di tanto in tanto è possibile usare le emoticon o inviare selfie.
Ora, devo ammettere che all’inizio ero abbastanza scettico: di solito gioco pochino via smartphone o tablet, e ho passato tutta una prima fase a cercare pulci da fare. Poi, però, BAM, e successa una cosa molto bella: ho smesso di vedere il codice di Matrix e mi sono lasciato andare alle emozioni. Ho visto i personaggi comporsi dietro le righe di testo di una chat, dietro le notifiche, dietro l’uso perfetto di emoticon, punteggiatura ed effetti sonori. Li ho visti bisticciare, scherzare, commuoversi e preoccuparsi, e qualche volta persino litigare, cedendo per la rabbia, l’emozione o la fretta a errori di battitura e abbreviazioni come quelli che scappano normalmente in una chat, magari perché uno sta camminando o guidando o facendosi i fatti suoi.
Anche i tempi dialogici e le pause mi sono parsi realistici e ben studiati, così come le dinamiche di racconto, l’evoluzione degli eventi e persino la gestione della noia. La storia e il rapporto tra i protagonisti emergono con spontaneità attraverso le piccole cose: gli aneddoti su amici e familiari, i ricordi comuni e gli inside joke. A questo proposito, mi è parsa davvero buona anche la localizzazione in Italiano.
Poi, naturalmente, ci sono i temi forti legati alla migrazione: la paura di attraversare un confine minato, i viaggi per mare, eccetera. Ma anche queste cose il gioco non te le sbatte in faccia; piuttosto, le infila tra le pieghe delle conversazioni, magari accennando al costo di un taxi, al cambio delle valute, all’ansia di perdere un volo, di imbarcarsi col cattivo tempo o di non incrociare il contatto giusto al momento giusto. Insomma, non spinge troppo sulla backstory o sugli spiegoni. Il registro è sempre piuttosto intimo, e in fondo ci sta: cose che per noialtri sembrano pesantissime, magari, appartengono da tempo alla quotidianità di persone come Noir e Majid. Questo sottofondo di “leggerezza” è senz’altro uno fra i pregi del gioco e il suo conseguimento è evidentemente la punta dell’iceberg di un lavoro di documentazione molto accurato sul tema della migrazione, sulla cronaca e sul registro linguistico. Poi è chiaro che in un gioco basato al novantanove per cento sui dialoghi la scivolatina ogni tanto scappa, ma nel complesso la qualità della scrittura mi è parsa sempre davvero buona. Anzi, come ho detto, forse una fra le migliori degli ultimi tempi. E quando si parla di esperienze interattive, non è una cosa da dare per scontata, ché a far parlare i personaggi c’è sempre il rischio di rimanere impicciati nel gesso.
Ah, c’è pure un’altra cosa, stavolta del tutto casuale: col fatto che sono un ragazzo, mi sono trovato dalla parte “giusta” della chat, e in ragione di questo sono riuscito a calarmi nel personaggio (a margine: chissà come vivrebbe/vivrà una ragazza l’esperienza di gioco?), a empatizzare col senso di accudimento di Majd nei confronti di Nour, col suo bisogno di intrattenere la moglie nei momenti di noia o di stemperare la tensione. Come ho già accennato, le interazioni sono limitate al minimo, alle volte procedono addirittura in automatico, eppure non mancano le occasioni di fornire aiuti pratici, magari guidando Nour in qualche piccola riparazione o consultando assieme a lei la mappa (nella mia sessione di gioco sono stato un cacagazzo, proprio come nella realtà; e sono stato conseguentemente insultato dalla tipa, proprio come nella realtà).
Forse sono entrato meno nella parte (e - preciso - si tratta di una cosa del tutto soggettiva) nei momenti più drammatici, ma va anche detto che non ho molti metri di paragone, in questo senso: molte delle situazioni espresse dal gioco non le ho mai sperimentate sulla mia pelle, men che meno attraverso una chat, e francamente spero di non doverle sperimentare mai. Eppure, Se mi ami, non morire è riuscito a mettere alla prova il mio senso etico. Mi spiego meglio: in alcuni momenti dell’avventura - tra l’altro, ancora non l’ho detto, sono presenti differenti finali possibili - ho consigliato Noir secondo la mia forma mentis di occidentale col culo al caldo e, realisticamente, non sempre sono stato premiato.
Sempre in virtù del realismo, ho trovato molto efficace l’erogazione di informazioni; la parte per così dire “didattica” del gioco è ben amalgamata con tutto il resto e mi ha permesso di incrociare – perlomeno virtualmente - molti dei problemi pratici legati alla migrazione: dalla burocrazia alle code interminabili, alle assurdità varie che in genere non passano sui giornali, fermo restando che il grosso dell’esperienza è comunque legato all’empatia, al sostegno morale, alla capacità di ascolto e di comprensione.
A margine, qualche mese fa ho avuto modo di infilarmi il visore di Carne y Arena, l’esperienza in VR ideata da Iñárritu e Lubezki, inclusa nella selezione ufficiale del 70° Festival di Cannes e dedicata al dramma dei rifugiati messicani e dell’America centrale. Beh, nonostante la spettacolarità di scenario, fotografia e regia, l’ho trovata meno coinvolgente e riuscita rispetto al lavoro di The Pixel Hunt, anche dal punto di vista dell’apparato informativo.
Per il resto, se proprio devo rompere le scatole su qualcosa a Se mi ami, non morire, forse avrei rinunciato alle musiche, inserite qua e là nei momenti di pathos; avrei lasciato tutto “nudo e crudo”. Inoltre, non ho apprezzato troppo la scelta delle illustrazioni in stile bande dessinée: credo che l’immedesimazione sarebbe stata ancora più forte con delle foto di attori in carne e ossa. Per il resto, niente da dire: Se mi ami, non morire resta una delle esperienze di vita virtuale più coinvolgenti che abbia sperimentato, molto buono sia nella forma che nei contenuti. Un esperimento che consiglio a tutti i giocatori, ma anche ad eventuali autori in ascolto, magari interessati a confrontarsi con una forma di narrazione fresca e originale.
Senza contare che, con tutto il razzismo, la xenofobia, il sessismo e il populismo che girano di questi tempi, un’esperienza mobile (e conseguentemente molto accessibile) dedicata al superamento delle frontiere fa particolarmente bene al settore.
Ho giocato a Se mi ami, non morire attraverso un codice Android gentilmente fornito da The Pixel Hunt, testandolo sia su un Samsung Galaxy Tab A, che un Asus ZenFone 2 Laser (ovviamente è molto meglio lo smartphone, in termini di immedesimazione). Il gioco è disponibile da oggi su App Store e Play Store: vi consiglio decisamente di dargli una chance.