Federico "Wiz" Croci vs. Peduzzi feat. Babich veri detective™
Col Croci me la stavo giocando da un pezzo.
Noto nei giri brutti bolognesi come “Wiz”, il Croci - Federico, per l’anagrafe - è uno dei massimi esperti italiani di coin-op, flipper e apparecchi da intrattenimento automatici. Il suo passato affonda nel torbido della storica Simulmondo. Volevano lui perché mangiava, dormiva e respirava videogiochi, ma la roba veramente grossa è sempre stata nascosta tra le pieghe del sito TILT.it, storica piazza di spaccio per collezionisti e appassionati di flipper. Gli trovarono anche una qualifica di lavoro fasulla: marketing manager. Ma non giocava come me o voi, sapete, tanto per divertirsi. Era preciso come un neurochirurgo del cazzo. Sui flipper e i videogame doveva sapere tutto, lui. Scopriva le cose nascoste che nessun altro sapeva: se il gestore di una sala giochi aveva manomesso i bersagli, se aveva alzato il livello di difficoltà di Breakout o se la sua ragazza era incinta.
Conosceva perfino i diversi rimbalzi che si fanno sui diversi tipi di palette. Lavorava su queste cazzate giorno e notte, sapeva tutto sulla partita a cui stava per giocare. La prendeva così sul serio che non si divertiva mai, credo. Ma era fatto così e basta.
In qualunque altro posto sarebbe stato un perdigiorno da bar, ma a Bologna è IL Wiz. Non solo è regolare, ma gestisce un museo del flipper, che è come vendere alla gente sogni in cambio di gettoni. Su da noi a casa, in zona Giambellino, nessuno lo ha mai visto di persona, ma corre voce che per stanarlo bisogna battere il ferro - due volte secche – alle porte dello Spazio Tilt! a Bologna, in via Stalingrado, proprio a due passi dai rossi.
Oppure mandargli un WhatsApp.
Nel dargli la caccia, ho fatto il giro di tutti gli eventi e delle peggiori fiere di settore. Ho trovato un cabinato non identificato giù a Monza: ho scoperto che era uno Zaccaria. Poi ho avuto una soffiata buona in zona Isola, a Milano. Da Spaghetti Notte, a Faenza, l’ho mancato di una settimana, ma ero sicuro che il giro di jukebox del sabato pomeriggio non se lo sarebbe perso.
Alla fine, la macchina della giustizia ha preso a girare nel verso giusto grazie agli assist del Babich, un friulano dai modi sbrigativi. La classica testa calda che gioca secondo le sue regole: MAI finire Wonder Boy in Monster Land con più di un gettone. Siamo riusciti a pizzicare il Croci proprio con le mani nella marmellata - letteralmente - in uno dei suoi magazzini segreti, dove stipa tonnellate di flipper, coin-op e altre diavolerie a gettone, assieme a qualche spina di Coca-Cola d’importazione, suo autentico feticcio («Resta più densa, ed è gasata il giusto»).
Sigla!
Messe finalmente le mani sul Croci, io e il mio compare lo abbiamo strapazzato col vecchio giochetto “sbirro buono e sbirro cattivo”. Ne è uscito un interrogatorio da manuale. Una miniera d’oro che ci ha permesso di ricostruire la forma mentis di quelli che stiamo cominciando a chiamare “collezionisti di macchine a gettone seriali”. Qui di seguito c’è la trascrizione dell’intera intervista, ma non chiedetemi di rileggerla: è roba che ancora mi sogno la notte (per tutti i miei typo), e che sconsiglio ai lettori più impressionabili o a quelli nati dopo il 1985.
Andrea Peduzzi: Ciao, Federico, ti andrebbe di presentarti e di raccontarci un po’ le tue esperienze nel mondo dei videogiochi e delle macchine a gettone?
Federico Croci: Salve a tutti! Mi chiamo Federico Croci, alcuni mi conoscono come Wiz. Certa gente coi capelli - è già qualcosa - bianchi magari ricorda le mie recensioni di flipper, di fiere di settore e roba del genere su alcune riviste di videogiochi dei primi anni Novanta. Sono stato un assiduo frequentatore di bar e sale giochi durante gli anni Settanta e Ottanta, quando erano IL punto di ritrovo dei giovani, e ho finito pure per lavorarci. Nel corso della mia carriera, sono passato dal mercato dei giochi a moneta a quello dei videogame su personal computer.
Il primo titolo a cui ricordo di aver giocato con una certa passione è stato Breakout: ci avevo pure trovato un bug che permetteva di aggiungere un livello in più di mattoni rispetto ai soliti due disponibili a partita (rigorosamente cento lire per tre palline). Raggiungendo il punteggio di “cento”, si vinceva pure un credito. Solo la prima volta, però, ed era anche troppo, considerato che le vincite di partite extra erano vietate per legge fin dagli anni Sessanta. Come dite? Qual era il bug? Beh, considerato che all’epoca non avrò avuto nemmeno dieci anni, e che il gioco non aveva software - quindi non poteva che essere un bug concettuale - non ve lo dico: sono certo che potrete cavarvela da soli :-).
Breakout è stato uno dei primi videogiochi a cui ricordo di essermi divertito a giocare, ma non il primo videogioco a moneta che abbia visto, né tantomeno il mio primo videogioco in generale. All’inizio si giocava da professionisti, non c'era spazio per i principianti: adulti e ragazzini si dividevano gli stessi apparecchi. C’era tutto un mondo elettromeccanico fatto di flipper, oppure di giochi di guida meccanici dove la pista era rigorosamente circolare. Si trovavano microguide col volante - vero - della Fiat 500, modellini di elicotteri tipo Polistil con tanto di eliche; robot che cantavano e suonavano (ci si infilava una moneta giusto per sentirli parlare): tutta roba difficile da immaginare, per un millennial.
Andrea Peduzzi: A prescindere dal tuo caso di appassionato, in genere i distributori e i gestori delle sale facevano attenzione alla qualità dei giochi, magari spingendo qualche prodotto incompreso ma interessante, o “diffidando delle imitazioni”?
Federico Croci: Bisogna partire dal presupposto che fino agli anni Novanta chiunque aprisse una sala giochi non lo faceva per interesse personale. Il retrogaming ancora non esisteva, era tutto “gaming” e basta. Si apriva un locale del genere solo perché era relativamente semplice da gestire rispetto a un bar, a una discoteca o a un ristorante. A volte una famiglia si ritrovava per le mani uno spazio vuoto da far fruttare in qualche modo e questa (assieme alle rivendite di pizza al taglio, alle piadinerie e alle gelaterie) era la classica attività che permetteva di fare qualche soldo nelle località turistiche senza chissà quale esperienza.
Eppure le mani, nelle macchine, un gestore finiva per mettercele, magari per risparmiare sui costi dell'assistenza, spesso con esiti folkloristici: se ad esempio in un flipper si guastava una buca, piuttosto che tenerlo fermo per tutta la settimana di ferragosto con decine di turisti tedeschi ansiosi di infilarci i propri soldi, ci si ingegnava con un pulsante esterno per estrarre la pallina a mano, oppure si chiudeva la buca con del legno. E se per caso qualcuno scopriva che i giocatori vincevano partite extra con troppa facilità mirando a un determinato bersaglio, beh, quel bersaglio spariva con un colpo di pinza e un giro di cacciavite. Insomma, magari uno non diventava gestore di una sala giochi per passione, ma poteva capitare che la passione, alla fine, arrivasse.
Per quanto riguarda i distributori, spesso si trattava di noleggiatori che avevano rimediato un paio di container pieni di apparecchi (magari non nuovissimi) e decidevano di rimetterli in vendita una volta trattenuti i pezzi necessari alla propria attività. I distributori ufficiali erano pochi: in genere firmavano un contratto con un costruttore accordandosi su delle quantità minime di vendita, tra prodotti e ricambi. Non era un mercato facile: i pezzi diventavano invendibili piuttosto in fretta, considerato quanto fosse breve la vita di un videogioco all’epoca. Nel corso della mia esperienza, comunque, di appassionati che la sera si fermavano in ditta a giocare ne ho visti molto pochi.
Con presupposti di questo tipo, i prodotti che andavano, quelli da spingere, erano quelli che facevano guadagnare. Potevano essere copie fornite dal peggiore dei “cantinari” (gente che con mezzi di fortuna riusciva a riprodurre le schede: spesso bastava una fotocopiatrice per replicare una lista completa di tutte le sigle degli integrati presenti), oppure rari prototipi di PCB recuperati dall'amico appena tornato dalla fiera di Tokyo, poco importava. Anzi, l'importante era che costassero poco.
Quando arrivò Donkey Kong - anzi, Crazy Kong della Falcon - buona parte dei gestori delle sale si lamentava di tutta quella pausa inutile tra un livello e l'altro (“How high can you get?”), una perdita di tempo e soldi. Altro che qualità dei giochi o nicchie da spingere. Sempre per risparmiare, qui in Italia si preferiva importare solo le schede anziché l’intero mobile; quello, in genere, veniva costruito direttamente in loco. Bisogna tener conto che durante gli anni Ottanta il valore della lira era molto basso, soprattutto in rapporto a dollari e yen. I trasporti erano cari, c'erano dogane e dazi ovunque, anche al passaggio di Francia e Germania.
A incasinare ulteriormente le cose ci si mettevano pure leggi e regolamenti comunali che variavano di continuo. I genitori si lamentavano che bar e sale giochi distoglievano i ragazzi dallo studio; i quotidiani erano pieni di articoli su fantomatici giovinastri che non esitavano a rubare pur di entrare in possesso delle cento lire per giocare. Così, partivano regolamenti assurdi per scoraggiare la pratica di flipper e videogiochi, più o meno come avviene oggi con le slot machine.
Andrea Peduzzi: Parlando invece della fauna delle sale giochi, dei frequentatori: c’è qualche aneddoto che ti andrebbe di raccontare?
Federico Croci: Un tempo le sale giochi erano parte integrante del nostro tessuto sociale. In sala giochi ci andavi per aspettare gli amici, per vedere chi c'era in giro, per passare il tempo in attesa della pizzeria, cose che oggi nessuno si sognerebbe di fare con smartphone e social network a disposizione. Uscire di casa senza sapere esattamente dove andare e cosa fare, o senza contattare gli altri? Follia!
In sala giochi ci trovavi adulti, ragazzi, persino personaggi famosi coperti dall'anonimato di stanze buie e fumose. A Bologna potevi assistere a un torneo di calcio-balilla tra Luca Carboni e Gianni Morandi. A Riccione mi è capitato di giocare a Bazooka della Model Racing con Lucio Dalla; era capitato nei paraggi per caso e stava ingannando il tempo in attesa di suonare in un locale della zona. A proposito, Bazooka era una copia di Cross Fire di Taito, gioco famoso per aver lanciato il modo di dire “sparare sulla Croce Rossa”, visto che se colpivi gli omini con la barella ottenevi una penalità. Ed era facile, troppo facile colpirli per sbaglio.
Ovviamente c'erano anche i bulli, i poco di buono, i teppistelli. Il turno alla cassa durante gli orari serali e notturni, specialmente di sabato, era il più ambito dagli amanti delle emozioni forti. Se avevi abbastanza fortuna, potevi trovarti nel mezzo di una sfida a chi svuotava più estintori dentro la sala prima dell'arrivo dei Carabinieri. Poi c'erano i visitatori occasionali che dimenticavano lo zainetto Fiorucci alla moda (con dentro portafogli e chiavi della Vespa) appeso al cabinato, rapiti dall'emozione di giocare a Dragon Buster. Non appena rientravano nella dimensione terrena, toh! Lo zainetto Fiorucci tanto carino era sparito, e pure la Vespa parcheggiata fuori dal locale.
Andrea Peduzzi: In quale sala giochi hai lasciato il tuo cuore?
Federico Croci: Una, nessuna, centomila. Ogni sala aveva i suoi pro e i suoi contro. Da quella gigantesca con tutte le ultime novità, a quella fuori porta che offriva macchine e giochi sconosciuti nella tua zona, fino a quelle minuscole a gestione familiare nei cui sotterranei (o soffitte) trovavi giochi abbandonati a fianco di altri ancora in funzione. I giochi spesso venivano lasciati aperti sul retro per facilitare la circolazione dell'aria (nessuno aveva i condizionatori, in quegli anni) e limitare i guasti. Questo istigava i ragazzini a piccoli atti di vandalismo: potevi scrutare dentro al cabinato, osservare i meccanismi per poi bullartene con gli amici. I più arditi si portavano a casa un pezzo di connettore o un cavo strappato. La scheda no, ché sarebbe servito almeno il cacciavite.
Andrea Peduzzi: Mi pare che durante gli anni Ottanta l’opinione pubblica fosse divisa riguardo a videogame e macchine a gettone: da un lato diversi registi - perlopiù americani - infilavano riferimenti pertinenti nei loro film, dall’altro esistevano realtà/associazioni che li demonizzavano. Era veramente così? Com’era la situazione qui in Italia?
Federico Croci: Durante gli anni Ottanta, il cinema italiano non si filava di striscio videogiochi o apparecchi a moneta: a malapena venivano utilizzati in qualche trasmissione televisiva come decorazione sullo sfondo, per creare il feeling “programma giovane per i giovani”.
Le “associazioni vicine al settore” erano perlopiù quelle di protesta, perché i ragazzi passavano tutto il giorno nei bar: che poi stessero a giocare a carte, a videogiochi, a flipper o a biliardo poco cambiava. Eppure, se ci si pensa, attorno agli anni Sessanta le cose giravano persino peggio. All’epoca il gioco era vietato ai minori di diciotto anni. Vincere una partita era considerato gioco d'azzardo e alcuni gestori si fecero pure un paio di nottate in gattabuia per via dei flipper, laddove per flipper si intendeva “gioco che permette la vincita di partite gratuite, quindi d'azzardo”. Negli anni Settanta e Ottanta, flipper e videogiochi erano il passatempo dei perditempo, poco da fare. Tanto quanto il biliardo o i jukebox.
Andrea Peduzzi: Che tu sappia, durante gli anni Ottanta, in Italia, esisteva una scena di appassionati di coin-op, magari appoggiata a pubblicazioni specializzate o fanzine?
Federico Croci: Se si esclude il tentativo dell'AIVA - Associazione Italiana Video Atleti - creata da alcuni collaboratori della rivista Videogiochi (sì, quella della Jackson), non mi pare ci fosse molto. Al massimo ci si poteva imbattere in tornei e iniziative promozionali organizzati dai costruttori italiani per promuovere qualche prodotto. La Model Racing di Ancona, per lanciare il videogioco Dribbling, organizzò un campionato nazionale appoggiandosi ad alcune riviste sportive.
Un grosso salto di qualità passò con la ditta Zaccaria di Bologna (famosa per la costruzione di flipper e videogiochi), che arrivò ad organizzare tornei nazionali nelle discoteche. Ma una volta che chiuse i battenti, verso la fine degli anni Ottanta, tutto si fermò di nuovo.
Andrea Peduzzi: Sale giochi e baretti: quale contesto preferivi, e perché?
Federico Croci: In cima alla scala gerarchica del ragazzino in cerca di feritoie ove inserire i propri sudaticci risparmi, ci stava la sala giochi grande e importante, magari completa di paninoteca e discoteca, come ad esempio l'Antares di Bologna (e altre simili in tutta Italia). Poi venivano la sala giochi modesta, quella a gestione familiare, e infine il baretto, che per regolamento poteva avere un massimo di tre o cinque apparecchi a moneta, a seconda della licenza.
Le sale più grandi godevano dell'indubbio vantaggio di giochi regolati a difficoltà umane, spesso quelle di default: e il livello “default” di Stati Uniti e Giappone era più docile rispetto a quello cui erano avvezzi i giocatori europei (a parte i giochi Nintendo, la cui difficoltà base era storicamente la più improbabile di tutte, la massima possibile. Non che ci si spaventasse, comunque).
Le sale più piccole erano più attente al resoconto economico giornaliero di ogni macchina. Quindi, se vincevi facile, il giorno dopo trovavi l'apparecchio opportunamente modificato. Nei baretti la situazione precipitava: ho incrociato baristi capaci di staccare la corrente al gioco pur di scoraggiare gli utenti più abili, per poi chiamare comunque il noleggiatore chiedendo di cambiare immediatamente macchina.
Andrea Peduzzi: Le sale giochi sono state per anni luoghi di aggregazione e hanno contribuito a far praticare i videogame a un sacco di gente: dal nerd più fissato al tamarro; dal giocatore occasionale alle donzelle. Poi le cose sono cambiate. Quale è stato, secondo te, il punto dove “l'onda infine si è infranta, ed è tornata indietro”? Sarà stata davvero colpa delle macchine da gioco casalinghe, o c’è sotto dell’altro?
Federico Croci: Per capire meglio tutta la faccenda, bisogna partire da lontano. Le sale giochi in Italia esistevano già durante gli anni Cinquanta. Erano frequentate da adulti, la sera, non da ragazzini, e ci si andava per ascoltare le ultime novità discografiche attraverso i jukebox. All’epoca erano in pochi ad avere la TV in casa, e le trasmissioni radio a onde medie non erano l'ideale per la buona musica. La scena iniziale del film Il Moralista (1959), con Alberto Sordi, mostra lo sgombero di una sala giochi dell'epoca, aperta di notte, frequentata da personaggi poco raccomandabili (per l’epoca), intenti a utilizzare apparecchi altrettanto “poco raccomandabili”, come jukebox, flipper, eccetera.
Poi, durante gli anni Sessanta, con l'avvento delle prime radio a transistor giapponesi portatili, è iniziato il declino dei jukebox e dei locali che li ospitavano. Assieme ai jukebox sono andate sparendo anche attrazioni come i tiri col fucile, le prove di forza, i bowling e i mini bowling. Questi, tra l'altro, erano giochi molto difficili, non certo pensati per dei ragazzini.
Rimasero a galla i flipper e altri giochi più semplici, dalle regole immediate, che finirono con l’attirare i giovani. Conseguentemente, i produttori si adattarono al nuovo bacino di utenza, facendo evolvere i flipper vecchia maniera (si trattava spesso di apparecchi con una sola pallina per partita, le cui vincite venivano convertite dai baristi in consumazioni o denaro contante) nei modelli moderni orientati al divertimento puro.
Venendo ai giorni nostri, non credo che il declino delle sale giochi sia avvenuto solo per via delle console casalinghe, ma per tante altre innovazioni e comodità. Gli anni Novanta, oltre alla prima PlayStation, hanno visto la diffusione dei cellulari, la nascita dei primissimi tentativi di rete (Fidonet) poi sfociati nell'internet odierno e nei primi siti di massa, come eBay. Con tutte queste novità a disposizione, voi avreste continuato a frequentare le sale giochi il sabato sera come una decina di anni prima? ;-)
Andrea Peduzzi: Da anni ti adoperi per il recupero e la conservazione delle macchine a gettone attraverso il sito TILT.it e l’associazione Tilt!: come ti ha trattato la burocrazia italiana, in questo senso? Hai avuto a che fare con strutture e enti ricettivi, o hai dovuto lottare?
Federico Croci: È una storia lunga. Diciamo che il mio interesse verso un certo tipo di macchine, verso le aziende che le costruivano e gli artigiani che ci hanno lavorato, esula un po' dai soli apparecchi da gioco: ho in collezione interi archivi di pellicole e telai da serigrafia, stampi e macchinari per la costruzione di parti, foto e appunti dei costruttori, disegni, brochure (come questa della Zaccaria) e bozze delle grafiche. Persino alcuni cartelli stradali che indicavano la direzione per le aziende. Questo genere di materiali, in buona parte, mi è stato donato dai titolari al momento della chiusura, forse per evitare che andasse perduto per sempre. Credo che, in un’ipotetica ottica museale, tutti questi oggetti meriterebbero di finire esposti a fianco degli apparecchi e dei giochi veri e propri.
Venendo al mio caso, mi è stato chiaro fin dall'inizio che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di guadagno in un’operazione del genere. Per me il collezionismo, il recupero e la restaurazione sono un hobby, e va bene così: non vorrei mai arrivare al punto di stancarmi di coltivarlo, come se fosse un lavoro. Occupandomene nel tempo libero, mi ci sono voluti anni per ottenere uno spazio adeguato, più o meno gratuito, ma che comunque mantengo e gestisco a mie spese. Del resto, considero già un successo poter contare su un luogo, lo Spazio Tilt, dove i giochi possono essere goduti e condivisi, anziché su un inutile magazzino.
Più che con la burocrazia, la mia vera lotta quotidiana si è giocata sul terreno del coinvolgimento del pubblico, per cercare di far passare l'idea che la storia italiana, la nostra storia, sia stata fatta anche dalle macchine che hanno divertito intere generazioni, e che qualche volta venivano fabbricate vicino alla nostre case come un qualunque altro prodotto caratteristico. Come si dice, Bologna è la città delle tre “T”, no? Torri, Tilt e Tortellini, Giusto? Giusto!
Andrea Peduzzi: Videogame e cultura museale: una faccenda complicata. I videogiochi sono codice, ma sono anche hardware. Magari a casa ci si può ben accontentare di un emulatore, ma per lo studioso e il filologo sarebbe sempre meglio avere a che fare con le interfacce giuste, le macchine originali e quant’altro. Cosa ne pensi?
Federico Croci: Che è vero. Spesso rimettiamo mano alle vecchie glorie solo per rivivere momenti del passato e niente ci impedisce di pasticciare con un emulatore. Ma sperimentare un hardware originale è cosa ben diversa. Giocare a Kick-Man della Midway (1981) via trackball con tanto di vesciche sulle mani è un’esperienza trascendentale. Stare sulla tua poltrona preferita non sarà mai romanticamente scomodo come giocare per tre ore in piedi, o appoggiato a uno sgabello di ferro con la seduta in legno svitata che si muove quando ti agiti troppo. Una cuffia stereo non potrà mai avvicinarsi, a livello di esperienza, a un altoparlantino in cartone dal volume troppo basso, mentre di fianco il distributore di caramelle ripete ogni quattro minuti una versione monofonica della sigla di Bugs Bunny. Giocare in un bar o in sala giochi era prima di tutto un’esperienza fisica, non necessariamente circoscritta a quello che passava sullo schermo.
Andrea Peduzzi: Se tu fossi un multimilionario (e magari lo sei, vai a sapere!) e avessi la possibilità di progettare il museo dei videogame dei tuoi sogni, come lo faresti?
Federico Croci: L’Italia gode di un privilegio che pochi altri paesi possono vantare: abbiamo avuto decine di costruttori di apparecchi. OK, per lo più erano copie, ma spesso saltava fuori anche qualcosa di originale. Per quanto i miei giochi preferiti siano più spesso americani o giapponesi, sento che il nostro scopo, lo scopo di una associazione culturale italiana, sia quello di preservare e divulgare la storia della nostra produzione. In giro per il mondo si troveranno sempre giochi americani, ma se fossi il visitatore di un museo italiano, credo che preferirei imbattermi in prodotti nostrani tipo Jack Rabbit e Dribbling, non solo nei vari Tetris e Super Mario Bros. (senza nulla togliere a giochi del genere, ovviamente).
Andrea Peduzzi: Grazie, Federico. Ora però facciamo una pausa: ho bisogno di uscire a fumare una sigaretta.
SBAM!
- Errore audio. Non decifrabile -
Andrea Babich: I videogame sono sempre stati in secondo piano, nel tuo cuore? O c'è stato un pur momentaneo sorpasso sui flipper?
Federico Croci: Scherzi? :-)
Si sono trovati in secondo piano perché sono arrivati più tardi, solo per quello. Come raccontavo sopra, sono stato un campioncino di Breakout, ma anche di Gee-Bee della Namco, di Clowns, Hyper Sports e - udite udite – di Spy Hunter (anche qui, scovando per caso un bug). Ho smesso di giocare ai videogiochi con l'uscita di The Tower of Druaga di Namco, ma solo per evitare la bancarotta (chi conosce il gioco in questione, capirà).
Poi ho sempre avuto un debole per le musiche dei giochi: flipper, coin-op, software per personal computer o per console. Imparai a giocare a Pac-Mania solo per le musiche. Alla fine degli anni Settanta, giravo per bar e sale giochi con un registratore portatile a pile per fissare su cassetta i suoni degli apparecchi a moneta: la fanfara di Road Champion, i jingle di Galaga, di Pac-Man, di Phoenix, Dig Dug (con la musichina collegata al movimento del personaggio), Crazy Climber (gli effetti sonori dell'insegna al neon del secondo livello battono al ritmo della musica di sottofondo!), Zoo Keeper (con effetti che si fanno sempre più distorti con l’aumentare del punteggio). Erano quasi sempre musichette monofoniche, e in genere i cassieri, vedendomi armeggiare vicino agli apparecchi, pensavano che tentassi di caricare crediti a scrocco, e mi buttavano fuori in malo modo.
Andrea Babich: La Bologna degli anni Novanta restituiva al giovane studente fuori sede principalmente tre sale - la Galaxy, la Stop e quella andando verso piazza Aldrovandi. Che c'era PRIMA? Nei gloriosi anni Ottanta, per esempio?
Federico Croci: La California, la Cadillac, la Messico & Nuvole. Beh, come ho detto sopra, in realtà, le sale giochi ci sono sempre state. Negli anni Ottanta, così come nei Settanta, nei Sessanta e nei Cinquanta. Magari cambiavano i giochi, c'erano i tiri con fucile a fotocellula, i jukebox. Soprattutto i biliardi e relative sale. A Bologna ce ne erano a dozzine: il biliardo era un passatempo molto popolare. Nei bar si organizzavano tornei regionali e si ospitavano le squadre di altri locali in trasferta. Ricordo che alle medie ero l'unico ragazzino della mia classe a non saperci fare, col biliardo. Tutti i miei compagni erano più che ferrati, ragazze incluse.
Andrea Babich: Il flipper scoperto per caso che ti ha folgorato. Tipo, entri in un bar e BAM, l'amore flipper della tua vita.
Federico Croci: Il flipper di Space Invaders del 1980. La Bally aveva intenzione di realizzare un flipper dedicato al film Alien, di Ridley Scott. Purtroppo gli accordi per i diritti andarono a vuoto e, pur di non restare a secco, in Bally finirono per adattare la grafica del film al videogioco di Taito (distribuito dalla stessa Bally, quindi nessun problema di copyright), che nonostante gli anni sul groppone andava ancora forte. Sebbene non fosse un flipper granché complicato, sfoggiava comunque un pacchetto “suoni-luci-effetti speciali” degno di una discoteca. Fu il primo flipper del quale, vedendolo e giocandoci, pensai di botto: “Un giorno sarà mio”. E mantengo sempre le promesse: adesso ne possiedo uno giocabile allo Spazio Tilt!.
Andrea Babich: È ben noto, nei videogame da sala, il fenomeno dei “cantinari”, ma quando si prova a ricostruire la loro storia in dettaglio, si va incontro a una certa reticenza, anche perché molti degli operatori di allora sono ancora in attività. Al netto di questa più o meno comprensibile omertà, credi che sarebbe possibile scriverla, questa storia? O è troppo tardi e molte informazioni sono andate perdute? (Che domanda ingarbugliata, perdonami!)
Federico Croci: Beh, sarebbe come cercare di ricostruire la storia dei circoli e dei club italiani dedicati al Commodore 64. Quelli che ogni settimana ricevevano da misteriosi contatti in Germania venti, trenta, quaranta floppy pieni di software da scopiazzare. Più che per questioni di reticenza (all'epoca non si faceva nulla di male, la legge sul copyright semplicemente non c'era, e al massimo proteggeva marchi e nomi), semplicemente gli anni sono passati e molte informazioni sono andate perdute. Comunque, come ho detto, le prime schede erano talmente semplici da copiare che bastavano fotocopiatrice e appunti. E per adattare eventualmente una scheda troppo grande a un mobile più piccolo, beh, era sufficiente segarla in due e ricollegare le piste interrotte con dei cavetti. E il bello è che funzionava pure.
Poi c’erano gli intraprendenti, quelli che non si limitavano a copiare la scheda ma decidevano di “migliorare il gioco”. Così nascevano le modifiche che incrementavano la difficoltà, come quella per la scheda di Pac-Man, o per titoli in bianco e nero come Sprint 1 di Atari, a cui qualcuno aggiungeva addirittura dei colori a caso per svecchiarli un poco.
Andrea Babich: Domanda che mi viene in mente solo ora nella vita. Esisteva una qualche forma di contraffazione anche nel mondo dei flipper e in generale nell’era pre-videogame da sala?
Federico Croci: Certo. Specialmente in Italia, dove le leggi vietavano di utilizzare gli stessi apparecchi del resto del mondo per dissonanze di regolamento. Nacquero così aziende che modificavano apparecchi vecchi secondo necessità: e se puoi copiare e costruire un intero flipper, replicare un videogioco è veramente il meno. Mobile incluso.
Andrea Babich: Zaccaria: a vederla ora, sembra quasi che sia stato buttarsi nel business dei videogame a caccia di Money Money, l’errore. Ma è davvero così o comunque coi flipper non avrebbero potuto andare avanti per molto?
Federico Croci: Col senno di poi, la fortuna dei giochi Zaccaria è piantata nel periodo in cui sono capitati nel mercato: gli anni Ottanta. Oltre alle suddette questioni di valuta e tasse doganali, Zaccaria si trovò a lavorare nel bel mezzo del passaggio dagli apparecchi elettromeccanici a quelli elettronici, il ché significava più problemi in caso di guasti. Conseguentemente, il poter contare su apparecchi prodotti a Bologna con assistenza tecnica pressoché immediata (caricavi il flipper sul furgone e correvi da loro piangendo) era un enorme vantaggio. Finché il dollaro non tornò a scendere, verso la fine degli anni Ottanta, i giochi Zaccaria erano il meglio che si potesse sperare. E alcuni non erano per niente male, in effetti.
Andrea Babich: Il migliore ibrido flipper/videogioco secondo te. Sì, valgono anche quelli coi minigiochi su LCD tipo Tommy.
Federico Croci: Non saprei, si tratta in realtà di soluzioni nate per cercare un rimedio al calo di popolarità del flipper nei confronti dei videogiochi (e viceversa, a seconda del periodo). Visti adesso, fanno tenerezza. Non per niente, uno dei più famosi, quello che detiene il record di pezzi venduti (20.270 esemplari) è il flipper Addams Family del 1992. Tutti se lo ricordano perché è stato il primo ad avere i minigiochi sul display. Quindici anni prima, nel 1977, un altro flipper, Eight Ball, aveva venduto esattamente 20.000 pezzi (i duecento e rotti pezzi in più di Addams Family vennero “forzati” proprio per battere il record, al netto che Eight Ball non aveva minigiochi o altro). Ogni periodo storico ha avuto il suo gioco record per tirature e diffusione, a prescindere dalle novità tecnologiche.
Andrea Babich: Ce l’hai una PCB di Scion della Seibu e una di Teddy Boy Blues di SEGA che vuoi vendermi? Dai, che chiudo la mia collezione.
Federico Croci: :-)
Però mi e' arrivato proprio due giorni fa un Computer Space, allo Spazio Tilt!. Sto pensando di realizzare un cartonato per replicare il famoso volantino con la modella nana (la modella nel depliant non arriva alla testa del mobile, che è alto un metro e settanta), con un ovale al posto del viso per potersi fare un selfie, come dicono i giuovani d’oggi. Risate garantite e pacche sulle spalle: del resto, il videogioco in sé è veramente ingiocabile.
In chiusura di pezzo, desidero ringraziare Federico Croci per la gentilezza, la disponibilità, la competenza e tutto lo sbattimento che si è fatto; Babich per l’assist e le domande più perniciose. Infine mio papà, che non ha mai giocato a un videogioco in vita sua ma in compenso, per anni, ha passato serate su serate in garage attaccato al suo Fire Mountain Zaccaria, prima che si guastasse irrimediabilmente. Da quel giorno ha preso a fumare di più.
Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.