Racconti dall'Ospizio #89: The Legend of Zelda - It's dangerous to go alone, read this
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Lo vedete quanto cazzo è bella, questa immagine qua sopra?
Questa schermata è la prima roba che abbia mai visto in un videogioco in vita mia.
(Non è vero da un punto di vista strettamente biografico: i miei primi videogiochi sono state quelle cose incomprensibili perché interamente in inglese e interamente testuali alle quali giocava mio padre, oppure quelle astrazioni estreme tipo Tetris – il mio preferito da bambino era il Tetris 3D di California Dreams – i distillati di videogioco sui quali ho inevitabilmente formato le mie capacità manuali, ma il punto non è questo.)
Il punto è che quando avevo sette, forse otto anni i miei genitori mi regalarono il NES per Natale, e oltre all'immancabile bundle con Super Mario + Duck Hunt (ancora oggi mi chiedo cos'abbia spinto mio padre a regalarmi una console con una pistola per sparare alle papere, se non la probabile assenza di altre versioni del NES in negozio) mi misero nel pacco anche Zelda. Perché avevo appena scoperto il fantasy o, come lo chiamavo più semplicemente al tempo "la magia", e Tolkien in particolare, e poche cose gridano "fantasy" più di una cartuccia dorata. Questa:
Ora, la cosa più vicina a una vera avventura videoludica che avessi provato fino a quel momento era Prince of Persia, che certo, mi aveva fatto esplodere il concetto di "livello" rispetto a quanto avevo esperito fino a lì, ed esteticamente tentava delle cose che non avevo mai visto in un videogioco, ma era pur sempre una variazione, o un affinamento, del modello di spostamento da sinistra a destra sul piano orizzontale eliminando gli ostacoli che avevo già visto da mille altre parti.
La prima volta che misi su Zelda – il pomeriggio di Natale, subito dopo il pranzo, e al tempo mica bevevo ancora – e vidi la schermata che c'è lassù, il mio mondo fece GnÈK. Ora Zelda compie trent'anni (il gioco è del 1986, ma l'uscita europea è datata 15 novembre 1987) e mi fa molta impressione ripensarci e rendermi conto di quanto di quello GnÈK abbia informato il mio personale percorso di videogiocatore e più in generale l'intero mondo dei videogiochi.
Questa roba l'avete probabilmente vista mille volte, in tutte le sue possibili iterazioni. È, tra l'altro, il motivo per cui continuo a preferire i videogiochi nei quali si usano le armi bianche a quelli in cui si spara. Se combattere si deve, che lo si faccia come i veri guerrieri! Spada e scudo, botte in faccia, arti mozzati. E i proiettili sono per quando non hai sbatta: tenetevi i vostri AK-47, io li userò solo quando un nemico rimane intrappolato in una geometria o non può accedere a un'area per qualche stupido motivo di aggro e non ho voglia di affrontarlo seriamente. Una cosa importante che i videogiochi mi hanno insegnato è riconoscere e sfruttare quel magico punto d'incontro tra pazienza e pigrizia.
Tornate però sopra alla schermata iniziale del pezzo e immaginatevi un piccolo cosetto di anni < 10 innamorato del Lo hobbit e delle avventure pazze. Guardate quanta roba c'è:
• un tizio vestito di verde, con una spada e uno scudo. Trent'anni di tolkienismo declinato in tutte le salse mi insegnavano già allora che si trattava di un elfo (?), comunque di un guerriero, uno che incontra i mostri e spacca loro il culo. I mostri sono cattivi e bisogna spaccare loro il culo: il fantasy a sette anni è molto più semplice. Il tizio, poi, è armato: come dicevo sopra, una spada e uno scudo sono il modo migliore, riconosciuto dalla scienza, per spaccare il culo ai mostri (anni a giocare a Dark Souls, che ahivoi sarà uno fra i temi ricorrenti del pezzo, mi hanno insegnato che non è vero e che le spade si impugnano a due mani, ma l'importante, come sempre, è l'approccio).
• una mappa! Significa che il posto nel quale stiamo per avventurarci è abbastanza complesso e persistente da necessitare di una guida cartacea o del suo equivalente. Avventura ed esplorazione! Riuscite a immaginare l'effetto che mi fece Zelda quando realizzai che non ero obbligato ad andare verso destra ma potevo muovermi in ben quattro direzioni cardinali e concettuali diverse?
• bombe stilizzate, chiavi stilizzate, caselle vuote, il numero zero. Roba da trovare! Buchi da riempire! Per me, che ero abituato a videogiochi nei quali il personaggio era il videogioco, o addirittura il videogioco era il videogioco, l'idea di avere roba da parte, roba di riserva, un ideale zaino dove ficcare la roba, insomma quello che anni dopo avrei imparato a chiamare inventario, fu l'ennesima rivelazione. Stiamo parlando di un bambino che non si è ancora neanche spostato dalla schermata principale del suo nuovo gioco e che ha appena scoperto che se schiaccia un tasto la sua spada LANCIA I RAGGI SPADALI DELLA MORTE.
• tre uscite e un buco nella parete, quindi quattro uscite. La non-linearità di Zelda, e ancora una volta mi rendo conto di ripetermi, già al tempo mi colpì al punto che non misi su Super Mario per un mese almeno. A oggi ci sono ancora dei Mario a cui ahimè non ho giocato, mentre gli unici Zelda che mi mancano sono i tre arcinoti per CD-i. E no, non mi interessa che esistano metodi per recuperarli se proprio avessi voglia: la vita è troppo breve per la filologia.
Ci misi dei mesi a finire Zelda, comunque un tempo imprecisato e lungo. Parlo al singolare ma si trattò in realtà di uno sforzo collettivo: avevo (ce l'ho ancora) un fratello e una sola TV, e troppa curiosità per sprecare del tempo dietro a due salvataggi diversi; avevo (ce l'ho ancora) un padre che apprezzava i videogiochi e si era preso bene per questa cosa del giocarci su una TV invece che sullo schermino del computer, e una madre che suo malgrado partecipò all'ordalia, se non altro perché trovare la soluzione a un enigma era spesso l'unico modo per liberare il salotto. Aggiungeteci che non conoscevo l'inglese: per sconfiggere il Dodongo, il boss ("custode", come lo chiamavo allora in un impeto di orgoglio patrio) del secondo dungeon ("labirinto", come lo chiamavo allora ecc) mi dovetti affidare all'intuizione appunto di mia madre che mi suggerì che "il fumo" potesse far riferimento a una bomba e non a una candela.
Le bombe del primo Zelda per NES sono stati uno dei momenti più formativi della mia esistenza.
Mi capitò, non chiedetemi come e dove perché sono passati quasi trent'anni, di far saltare per aria un muro mentre cercavo di far saltare per aria uno scheletro o una mummia, e di scoprire così la mia prima "stanza segreta di Zelda", uno di quei trope della saga che già dai capitoli successivi (parlo di A Link to the Past e Link's Awakening, non del violentissimo ed estremamente metal Adventures of Link), sarebbe stato promosso da "segreto" a "meccanica di gioco" con l'introduzione del "ding" che fanno i muri abbattibili a colpi di bombe se li colpisci con la spada. Credo che il vero colpo alla nuca mi sia stato dato dalla sinergia tra l'esistenza di una stanza segreta e invisibile e l'esistenza di una mappa, quindi di uno strumento per dare un senso e delle regole allo spazio di gioco, segmentato e razionalizzato in una sequenza di stanze discrete tra le quali muoversi per risolvere i problemi proposti dal gioco stesso. I giochi Nintendo, da quello Zelda da cui cominciai il viaggio in avanti, sono sempre stati per me questo incredibile miracolo di sintesi tra un libro di regole estremamente precise e uno spazio di enorme libertà di espressione all'interno dei confini fissati da queste regole, e nonostante al tempo fossi all'inizio di un percorso durato trent'anni, l'idea che esistessero eccezioni non segnalate che allargavano lo spazio di possibilità oltre i confini della mappa – che per me equivaleva di fatto alla realtà, almeno del gioco – era troppo grossa per contemplarne pienamente tutte le implicazioni, ma troppo affascinante per non spingermi a spendere i successivi [tempo lungo a caso] a piazzare bombe contro ogni superficie esistente, e di seguito a provare a dar fuoco a ogni albero e cespuglio del cazzo che mi si parasse davanti.
La vertigine dell'assoluta libertà mi portò a consumare Zelda in ogni anfratto, a tentare qualsiasi cosa pazza mi venisse in mente alla ricerca di quel segreto che oggi l'Internet mi spiegherebbe che non esiste. Nel corso del tragitto, con il senno di poi, sono sicuro che il gioco mi abbia impresso a fuoco nella parte più rettiliana del cervello una serie di idee di design che hanno definito in maniera decisiva il mio gusto in fatto di giochini elettronici. L'idea di andare in qualsiasi direzione, di dover andare attivamente alla ricerca di indizi su come proseguire, di poter rompere la sequenza; di non essere un dipendente del gioco, con obiettivi e tempi da rispettare, ma un freelance, un contratto a progetto, con un vago obiettivo da raggiungere ed estrema libertà nell'approcciare la faccenda. È il primo motivo per cui ho amato così tanto Breath of the Wild, un gioco che per altri motivi, che se volete approfondiamo separatamente, mi ha mandato ai pazzi dalla rabbia: non una sequenza ordinata di dungeon da risolvere in un ordine prestabilito ma il ritorno a un approccio da jam session alla narrativa – ci sono cose nel mondo, e ci sei tu nel mondo, e modi e tempi di interazione li lasciamo nelle tue mani. Si poteva fare farming selvaggio, in Zelda per NES, volendo, e con uno scopo: incredibile come la nostalgia riesca a trasformare in piacevole anche il ricordo di quella che è senza dubbio l'attività più tediosa che sia mai stata introdotta nella grammatica videoludica. Ma era il concetto, l'idea dietro: hai trovato un mercante segreto con un'armatura fortissima che costa un sacco di soldi? Il mondo è tuo, puoi andare a caccia di quei soldi, se vuoi, oppure tirare in fuori il petto e fare senza armatura. Nessuno ti giudicherà.
Altre idee che Zelda mi ha bruciato nei neuroni senza chiedere: l'idea che non ci si possa rilassare, almeno in certi contesti. Che ci sia un rapporto di forza bilanciato tra giocatore e gioco, non necessariamente equilibrato ma equilibrabile con la giusta dose di furbizia, talento e voglia di esplorare e scoprire segreti. A cosa serve essere bravi con la spada se sai come riempirti di bombe fino al buco del culo o se hai la candela che spara fiamme infinite? E per converso: a cosa serve avere tutti i cuoricini rossi e tutte le bombe del mondo se non sei in grado di prevedere e anticipare i movimenti delle cose che ti trovi davanti? Se non conosci il gioco? Ovviamente non valeva sempre, ma valeva abbastanza spesso, al punto da farmi perdonare anche le volte in cui Zelda smetteva di essere una sfida e diventava una rottura di coglioni. C'erano, non facciamo finta di nulla. C'erano sempre, in quegli anni. C'erano robe che se le trovassimo oggi finirebbe a schiaffi con lo sviluppatore.
Ve lo ricordate Faxanadu, la versione sludge e meccanicamente rifinita di Adventures of Link? Faxanadu era quello che sarebbe stato Dark Souls se fosse stato un platform 2D che odia il giocatore. Ci avete rigiocato, di recente? È un gioco maestoso e intricato, un mezzo Metroid fantasy nel fango con i mostri deformi. È molto raramente rilassante da giocare. Vale anche per Zelda per NES. È un gioco che ha un approccio diverso ma ugualmente impegnativo alla sfida rispetto, boh, a un Mario, un altro modo per mettere alla prova la coordinazione occhio-mano e la capacità di pianificare le proprie scelte in anticipo e in fretta. Si tende a pensare che "i giochi difficili di una volta" siano quelli dove si moriva spesso, e che quindi Dark Souls (visto che torna?) è "un gioco difficile di una volta" perché si muore spesso. Quello che il gioco di From e Zelda per NES hanno in comune, almeno per me, magari mi sbaglio, è invece piuttosto questo approccio estremamente violento e martellante alla generazione della tensione – l'idea (suggerita dal design e poi supportata dai fatti) che ogni nuovo angolo e ogni nuova stanza di un dungeon possano ospitare la creatura che ci manderà al creatore, la spinta costante a tenere la guardia alta e a "leggere" all'istante una stanza per approcciarla nel modo tatticamente più vantaggioso.
Non che a otto anni sapessi dare un nome a tutte queste cose, solo che per me "old school" vuol dire, inconsciamente e grazie soprattutto a Zelda, questa terrificante sensazione di essere perso in un luogo selvaggio e pieno di roba che ti vuole uccidere, di avere poche risorse a disposizione da centellinare, di dover fare attenzione a ogni passo e a ogni movimento per impararli e prevederli e quindi annullarne il fattore pericolo. Le musichine dei dungeon di Zelda, tra l'altro, contribuivano in maniera decisiva a generare quella sensazione di pericolo e di "sta per andare tutto in merda" che da allora ricerco ossessivamente in qualsiasi videogioco che sia ancora abbastanza fiero di farsi chiamare videogioco da implementare idee estremamente videogiocose, come la segmentazione manifesta di se stesso in "dungeon" e "la roba fuori dai dungeon".
Ci sarebbero poi tutte quelle storie più piccole e personali, che ti sembrano tutte tue finché non scopri che sono successe identiche a mezzo mondo: il NES era comunque una macchina bizzarra che andava solo se soffiavi forte sui circuiti e che aveva bisogno di combinazioni estreme di tasti per funzionare al meglio (ancora oggi mi affascina l'idea che per salvare sulla cartuccia di Zelda fosse necessario tenere pigiato Reset mentre si spegneva la console). Zelda era strapieno di boss e ciascuno aveva il suo trucchetto, il suo gimmick, diremmo oggi: in maniera non così diversa da come risolvevamo i puzzle nei giochi Lucas, sconfiggere un boss in Zelda in più o meno tempo era anche questione di avere fortuna nello scegliere un oggetto a caso per capire se fosse quello giusto per lui. Un altro esempio della morte del fattore di esplorazione degli spazi del gioco che è coinciso con la crescita della saga: già da A Link to the Past, la struttura di Zelda diventa "un dungeon, un oggetto, un modo per sconfiggere il boss". Ancora una volta, il motivo per cui Breath of the Wild è nonostante tutto un gioco così grosso.
Poi, però, se sfanculo l'analisi e mi abbandono ai ricordi, Zelda mi fa venire in mente tutt'altro. Gli Wizzrobe di merda che si teletrasportano e i Vir e Keese di merda che volano: è, o dovrebbe essere, legge dello Stato che in qualsiasi videogioco con delle botte i nemici volanti e quelli che si teletrasportano siano i più fastidiosi e dovrebbero essercene il meno possibile. Le stanze piene di Iron Knuckle blu, tipo quella della foto là sopra. Cercare di capire la logica dietro al fischietto e il modo per sfruttarlo nella maniera più intelligente (utile per le speed run di Super Mario Bros. 3). L'armatura che cambia colore quando spendi il pazzo cash. Portarsi a scuola il libretto di istruzioni e le mappe&strategie per studiarli al meglio in vista del ritorno a casa. Ridere della parola "Dodongo". Il new game plus, vi rendete conto che in Zelda per NES c'era già un NG+ nel senso più moderno del termine, più difficile e con nemici e location remixate? Imparare a memoria, e riprodurre su carta millimetrata, l'architettura dei dungeon, compreso quello a forma di svastica che mi causò qualche problema alle elementari; scoprire, anni dopo, un giochino in Flash che distillava e poi faceva esplodere questo singolo aspetto del mosaico che era The Legend of Zelda e festeggiare, qualche anno dopo, la partita numero 1700 all'edizione attuale del suddetto giochino in Flash. Sparare le frecce nelle orecchie dei Pols Voice. Che cazzo di nome è POLS VOICE? Perché non esiste un gruppo tipo Talking Heads che si chiama POLS VOICE?
È tutto così assurdo a vedersi, se ci pensate oggi che facciamo la gara al fotorealismo. Link è alto quanto un albero, e ha una candela alta quanto lui che spara fiamme alte anche loro quanto un albero. Le BOMBE, diosanto, sono alte quanto alberi. È estremamente astratto per tutti i motivi che potete facilmente immaginare, limitazioni tecniche, l'età del tutto, ma è anche estremamente simbolico, una serie di segnaposto che ciascuno definisce come meglio crede. Sono alberi o cespugli? Quanti anni ha Link? Quanto sono grossi gli Octorok e i Moblin? Immagino che ciascuno abbia la sua risposta, e questa modalità di rappresentazione della realtà è da un lato il motivo per cui Zelda è invecchiato meglio di qualsiasi avventura 3D dei primi anni 2000, dall'altro un tesoro prezioso di cui la corsa al già citato fotorealismo sta un po' riducendo l'impatto, o almeno credo. La meraviglia di sapere che non deve essere tutto proporzionato al resto, e che non è solo il simbolo a dare un significato a quello che succede ma anche l'azione. Bruciare alberi con candele che sparano fiamme alte dieci metri!
Da quando esiste un Nintendo Store che permette di scaricare giochini sulle console Nintendo, ho ricomprato Zelda un numero imprecisato di volte, e ogni volta ci ho rigiocato da capo, come battesimo, tanto si finisce in poco tempo. Mi fa sempre strano vederlo relativamente in basso in qualsiasi "classifica dei migliori Zelda" solo in virtù del fatto che quelli venuti dopo sono più belli sotto quasi tutti i punti di vista. Quello che hanno in più è un'autorialità più diretta e in your face, un'impronta esterna più forte sul ritmo e sullo scorrere della storia (anche una storia più scritta, in effetti); una forma più perfetta, oltre all'immancabile sostanza. The Legend of Zelda è invece un gioco informe, praticamente liquido, e la sua forza è questo essere una zuppa di idee da cui pescare quelle che più ci servono al momento. Un approccio che i giochi successivi sono riusciti a raggiungere, e comunque solo in parte, grazie ad aiuti esterni. È un'avventura spaventosamente disinteressata alla presenza del giocatore, un'esperienza che, per dirla semplice, fa le sue cose, e se per caso coincidono con le cose di chi gioca, allora si vede come va. Trent'anni dopo, sono ancora qui a cercare scintille di tutto questo in ogni nuovo gioco su cui metto mano.