Supereroi e dei: una faccia, una razza
Qualche settimana fa, quando giopep, per via del fatto che me la meno sempre col mito, il rito e quelle cazzate lì, mi ha proposto di scrivere un pezzo dedicato ai supereroi per la Cover Story di questo mese, beh, ho preso la cosa con un certo entusiasmo: voglio dire, che i supereroi siano la versione contemporanea di dèi, semidei ed eroi mitologici lo sanno cani e porci, e sull’argomento sono stati versati fiumi di inchiostro tra libri, fumetti, romanzi e saggi.
Poi però, ho guardato la cosa da un’altra prospettiva: “che i supereroi siano la versione contemporanea di dèi, semidei ed eroi mitologici lo sanno cani e porci, e sull’argomento sono stati versati fiumi di inchiostro tra libri, fumetti, romanzi e saggi.”.
OK, mo’ che cazzo scrivo? Cosa potrei mai aggiungere di così imprescindibile a una roba che è passata per il microscopio di autori come Michael Chabon, Neil Gaiman o Alan Moore, tanto per sparare tre nomi a caso (come al solito, se acquistate su Amazon tramite i nostri link ci fate avere una piccola percentuale bla bla bla)? Soprattutto, io - forse - sarò pure un buon millantatore in fatto di miti, eroi, divinità e altro vecchiume di quella risma, ma ho sempre frequentato pochissimi i fumetti di supereroi, e quel poco che conosco in materia mi è arrivato soprattutto dalla televisione, dal cinema e dai videogiochi.
Da ragazzino guardavo regolarmente le serie animate de I Superamici della Hanna-Barbera, o L'Uomo-Ragno, trasmesse in TV all’inizio degli anni Ottanta, anche se il mio cartone preferito era L'Uomo-Ragno e i suoi fantastici amici, per la mise sexy yè-yè di Firestar/Stella di Fuoco, responsabile delle mie prime ondate ormonali.
Anche dopo l’infanzia, la mia frequentazione di supertizi è proseguita decentrata e irregolare, tra un Batman per Commodore 64 e quello, bellissimo, per Game Boy. Ricordo di aver molto apprezzato anche il Batman animato e vagamente art déco trasmesso in TV durante gli anni Novanta, un po’ meno L’Incredibile Hulk con Lou Ferrigno, il Flash interpretato dal padre di Dawson Leeery o quella roba strana che era Lois & Clark, mentre con Smallville, tutto sommato, mi ero anche divertito, dai.
Al cinema sono passato in scioltezza per i Superman con Christopher Reeve (ricordo con affetto almeno i primi due), i Batman gotici di Tim Burton, quelli allucinati al neon di Joel Schumacher (che ricordo con molto meno affetto), fino all’epica un po’ bondiana di Christopher Nolan; per non parlare dei vari X-Men del passato, del presente o del futuro, spin-off compresi, che mi hanno tenuto compagnia fino all’avvento - pure dopo, a essere precisi - dei “cinematic universe” DC e Marvel che piacciono tanto ai giovani d’oggi (e, quando ci azzeccano, pure a me).
Oddio, a guardarla ora, questa lista, mi pare pure lunga; ma è lapalissiano che la mancata pratica con i fumetti mi conferisca giusto i gradi minimi per una chiacchierata da bar (laddove, dopo due birre, le sparo così grosse che il supereroe sono io).
In preda allo sconforto e alla crisi creativa, ho optato per la formula Don Draper (la cui cifra stilistica è un complicato cocktail d’improvvisazione, intuito, approssimazione, affabulazione e paraculaggine): ho buttato giù un paio di amari, ho dormito mezz’oretta sul divano, poi ho preso e me e sono andato al cinema appena in tempo per l’ultimo spettacolo di Thor: Ragnarok, per vedere l’effetto che fa.
Oh, alla fine ha funzionato. Proprio in stile Draper, ho deciso di andare a braccio partendo da quello che avevo davanti agli occhi (per l’approfondimento vero, vi rimando ai suddetti Chabon, Gaiman, Moore, etc.). E in quel momento stavo guardando - CRISTO SANTO – una commedia fantasy d’azione americana diretta da un regista neozelandese, dedicata a un personaggio a fumetti nato negli anni Sessanta ma figlio della tradizione mitologica norrena, che a sua volta è passata nel corso dei secoli dal racconto orale al mito, dalla narrazione in versi dell’Edda a quella in prosa, finendo con l’impattare sulle arti figurative e, soprattutto, sulla musica e sul teatro di Richard Wagner, che ha contribuito a rinfrescarla e a renderla popolare in tutto il mondo (a margine: la cavalcata delle Valchirie del film di Taika Waititi è strepitosa; sempre a margine: il caccia spaziale pilotato da Valchiria si chiama Commodore, che propriamente cita l’omonima automobile, ma insomma, siamo pur sempre su un sito di videogiochi, no?). Persino in Giappone, dove tra le altre cose ha fatto la voce grossa nella bellissima saga de I Cavalieri di Asgard incastrata nell’anime I Cavalieri dello Zodiaco, a sua volta sconclusionatamente derivato dalla mitologia greca, per non dire dell’adorabile manga Oh, mia dea!
Comunque. Il nucleo del discorso grossomodo è questo, come ho già spiegato con (appena) più lucidità in questo articolo: i tasselli che nelle loro infinite combinazioni compongono i miti e le storie della tradizione popolare sono circolati per secoli in ogni angolo del globo attraverso le migrazioni e gli spostamenti dei popoli, nascosti nelle sacche dei mercanti, nelle tasche dei viaggiatori, nelle preghiere mandate a memoria dagli uomini di chiesa o nei bauli pieni di delizie di una nobile ragazzina austriaca data in sposa a un principe francese.
Di volta in volta, la cultura popolare si è adattata ai contesti più svariati, arricchendosi, cambiando pelle, rinfrescandosi, ma senza mai perdere il suo ancestrale DNA, lo stesso che alberga nell’inconscio di tutta l’umanità.
Consapevoli di questa varietà, nel corso degli anni, fior di studiosi hanno cercato di identificare gli slittamenti dei vari tasselli, nella speranza di identificare il luogo di origine di ciascuno. A svolgere il lavoro più accurato sono stati probabilmente gli studiosi Antti Aarne e Stith Thompson, afferenti alla cosiddetta scuola finnica, che basandosi sul metodo storico-geografico, hanno classificato centinaia di trame, tipi e motivi ricorrenti e li hanno raccolti nei volumi del seminale Motif-Index of Folk-Literature.
E mentre i due nerd ante litteram compilavano tomi su tomi, l’evoluzione tecnologica stava mettendo le ali alla circolazione di uomini e informazioni, fino ad esplodere nella rivoluzione digitale e in quel balzo pazzesco alimentato da Internet, che nel giro di una ventina d’anni ha sparpagliato di nuovo tutti i pezzi del puzzle (o li ha uniti nel modo giusto, a seconda dei punti di vista).
Oggi che tutto esiste pressoché contemporaneamente, per mantenere la sua matrice di sacralità, la cultura popolare ha rimodellato dèi, santi ed eroi per adattarli allo spirito dei tempi, generando nuovi idoli e feticci, e sostituendo icone e santini con centinaia di action figure.
Oggi si potrebbe addirittura scrivere un intero trattato di mitologia comparata tra l’universo Marvel e quello DC, e probabilmente qualcuno ci avrà già pensato. Personalmente vi risparmierò il supplizio per mancanza di cultura, voglia e disciplina, e mi accontenterò di metterla sul banale. Ad esempio, prendiamo un essere potentissimo di origine divina, che trae la sua forza dal sole. Tendenzialmente buono, ma capace di sbaragliare i propri avversari con un potere al limite del controllabile. Un essere che all’occorrenza può pure mescolarsi tra la gente comune passando per un mortale, e niente affatto immune alle avventure romantiche. Grossomodo potrei avere appena descritto Superman, ma non posso evitare di avere per la testa anche il suo principale archetipo: Apollo, divinità solare della tradizione greca deputata anche alle arti, alla musica e alle profezie (supervista? Io ci provo).
Apollo, oltre ad essere figlio di Zeus (a sua volta archetipo di Jor-El, padre di Kal-El/Superman e pezzo grossissimo giù a Krypton), era una fra le divinità più influenti dell’antica Grecia, cugino di secondo o terzo grado del Balder della mitologia nordica che, a sua volta, condivide con la figura cristiana di Gesù lo status di “divinità morta e risorta”. Tra l’altro, stando al canone principale, la morte di Balder viene in genere preceduta da tutta una serie di presagi e premonizioni, ed è direttamente collegata all’innesco del Ragnarok. Così, passando per la seconda volta dal recente film Marvel, è possibile notare che alcuni elementi del mito di Balder sono confluiti proprio nel personaggio di Thor: come ho detto, i tasselli del mito viaggiano, si trasformano e oggidì finiscono con l’impollinare il cinema, i fumetti o i videogame. Ma non è tutto. Con la mia pignoleria da Wikipedia, scopro che in giro per il phanteon Marvel esiste pure un supereroe ad hoc: Balder il coraggioso (Balder the Brave), apparso per la prima volta nel 1964. Però, insomma, il Balder classico era anche noto come il più belloccio tra gli dei e il Thor di Chris Hemsworth ci azzecca parecchio, no?
Tornando a Superman, in almeno una saga a fumetti (La morte di Superman, una fra le poche che abbia mai letto per intero, ché me l’avevano prestata) e senz’altro nei film di Zack Snyder, il personaggio si sovrappone a tratti con la figura martirizzata del Cristo in croce e, nesso per nesso, con Balder, fermo restando che per i greci il dio “morto e risorto” per eccellenza non era Apollo, bensì il suo esatto opposto, il Dioniso Zagreo dei culti orfici, espressione del ciclo delle stagioni e della fertilità della terra, e evidentemente grande viaggiatore, visto che qualche secolo dopo lo ritroviamo in Inghilterra nascosto sotto il nome di John Barleycorn.
Ora, nulla ci vieta di bere un whisky alla salute di Winwood e chiuderla qua. Ma volendo proseguire, è tutto un girare di culture, tradizioni, mode e manie. Ed è inutile sperare che tutti i pezzi alla fine si incastrino alla perfezione: semplicemente non è possibile, non è così che funziona. Non è così che funzioniamo noi esseri umani. Ha senz’altro più senso parlare di una “disordinata armonia”, o di un “equilibrio tra squilibri”, ecco.
Visto che la cover story prende il “la” dalla Justice League, restiamo nel phanteon della DC Comics e proviamo a pasticciare con un’altra action figure: quella di Batman. Chi altri non è, il cavaliere oscuro, se non una versione moderna di Ade, il dio greco della morte, degli inferi e del sottosuolo? In fondo non è così difficile stare al gioco: Batman predilige l’oscurità, si nasconde in una caverna e incarna il lato ctonio di Superman. Non sarà il dio della morte, OK, ma per un gioco di ribaltamento, nasce dalla morte dei genitori di Bruce Wayne. Il suo potere si fonda sulle tenebre, sulla capacità di rendersi invisibile all’occorrenza, e un attributo chiave di Ade era la kunée, l’Elmo dell'oscurità: un copricapo in grado di conferire l’invisibilità al suo portatore. Inoltre, Batman/Wayne è un uomo ricco, ricchissimo. E vale la pena di osservare che nell’antichità il sottosuolo non era semplicemente legato alla morte, ma per contrappasso anche alla fertilità, ai tesori e all’opulenza. In quest’ottica, Ade era il più ricco di tutti gli dei, più dello stesso Zeus. Era il Bruce Wayne dell’Olimpo. E non era nemmeno questo gran cattivone in senso stretto. Possiamo immaginarcelo come un tipo tormentato, disturbato e ombroso, alla Batman: oh, alla fine gli era toccato il ruolo di dio della morte, con tutti i toni di griglio e le complessità che comporta un mestiere del genere, e fermo restando che concetti come morte e vita, bene e male, nella tradizione classica avevano un significato del tutto relativo e affatto manicheo.
Un’ultima curiosità: durante il medioevo, la figura di Ade ha finito col perdere la sua austerità originale per finire con lo sciogliersi, degradata e imbarbarita, nel motivo folklorico dell’orco. Ora, probabilmente un orco non è proprio la prima cosa che ci viene in mente quando si parla di Batman. Ma se vi facessi vedere questo disegno di Frank Miller la pensereste ancora così?
Sempre per restare nel pollaio della Justice League, provo a spendere due parole anche su Wonder Woman, personaggio che conosco poco, pochissimo. Persino meno di Batman e Superman. Il mio bagaglio si basa giusto sul recente film diretto da Patty Jenkins, sul vecchio cartone animato I Superamici e sull’altrettanto vecchia serie TV interpretata dal décolleté di Lynda Carter. Leggo su wikipedia che la genesi dell’eroina sarebbe passata per la consulenza dello psicologo William Moulton Marston, teorico del femminismo. Conseguentemente, non sorprende che il suo archetipo non sia da ricercarsi in una divinità “madre” o “sposa” come Demetra o Era, né tantomeno nella maliziosa Afrodite. Meglio rivolgersi alla giovane e combattiva Artemide, Diana per i romani (non a caso il nome “borghese” dell’eroina è Diana Prince), figlia di Zeus e, tra le altre cose, dea della caccia, del tiro con l'arco, delle foreste, della luce (l’identificazione con la luna è relativamente tarda), ma anche dell’iniziazione femminile: in questo senso, e al netto del valore complessivo del film, Gal Gadot, nella sua fresca innocenza, mi è parsa una scelta di casting piuttosto azzeccata. Persino più pertinente della giunonica Carter, in termini puramente “filologici” (se così si può dire).
Wonder Woman/Diana, nel canone comune arrivato a noi “profani” dell’universo DC, appartiene alla tribù delle amazzoni, donne guerriere molto simili alle valchirie della tradizione nordica o a certe donne guerriere della mitologia giapponese (e chissà di quale altra ancora). Ma questo non deve depistare: le amazzoni non sono altro che un’incarnazione “in minore” di Artemide, così come i tritoni lo sono rispetto a Poseidone (o Aquaman, che dir si voglia). I miti e le storie, originariamente, venivano tramandati per via orale o attraverso i riti religiosi. Conseguentemente, potevano cambiare di volta in volta e non era raro che da sviste o vincoli di contesto - che oggi chiameremmo reboot, prequel o remake - prendessero forma delle “riduzioni” a misura d’uomo degli dei e delle loro avventure: ed ecco nascere semidei, eroi e santi.
Fun fact: Artemide nasce come sorella di Apollo, come sua pari. Similmente, tra Superman e Wonder Woman emergono diverse analogie, esaltate anche dai loro colori di battaglia, piuttosto simili. Eppure, in alcune versioni contemporanee del “mito”, tra i due supereroi qualche volta ci scappa del tenero. Pesante, no?
Soprassedendo sulle analogie - anche fonetiche - tra Flash ed Ermes, che a questo punto servirebbero solo ad allungare il brodo del discorso (quindi a un bel niente), vorrei chiudere con una curiosità: cosa sarebbe successo se la capsula spaziale contenente Kal El, anziché atterrare nel Kansas, fosse atterrata in una sgangherata eucronia del Giappone? Beh, la risposta in parte ce l’abbiamo: probabilmente il piccoletto sarebbe stato recuperato da un anziano maestro di arti marzali di nome Son Gohan e, crescendo forte e robusto, avrebbe finito per salvare il Giappone, la terra e infine l’intero universo.
Pur essendo intimamente connessa al folklore giapponese e a quello cinese, la saga di Son Goku raccontata in Dragon Ball è ricca di rimandi alle storie di Superman (personaggio che Akira Toriyama aveva già esplicitamente omaggiato in Dr. Slump attraverso il parodistico Suppaman).
Esattamente come Kal El, Kakarot* (è il nome originale di Goku: il riferimento è netto) è un alieno inviato sulla terra, profugo di un pianeta scomparso. Vale la pena osservare che in Dragon Ball i riferimenti si fermano al supereroe creato da Jerry Siegel e Joe Shuster, mentre non mi pare ci sia traccia diretta di Apollo o della mitologia greca: l’inizio della saga è una rielaborazione in chiave comica-action de Il viaggio in Occidente, classico della letteratura cinese. Il personaggio di Goku deriva originariamente dalla scimmia Sun Wukong, a sua volta parzialmente assimilabile alla figura di Hanumat, un vanara della tradizione induista. Eppure Goku possiede anche i tratti degli uomini-lupo del folklore europeo, cugini a loro volta del dio egizio Anubi e, soprattutto, di Fenrir, il gigantesco lupo della mitologia norrena che, guarda un po’, è pure il potente servitore di Hela in Thor: Ragnarok. Dopo tanto girare, siamo tornati esattamente al punto di partenza, perché tutta la faccenda del mito, del rito, degli dei, degli eroi, della cultura popolare - financo di quella che i puzzettoni definiscono “alta” - funziona esattamente così, come un meraviglioso carosello che non si ferma mai.
*Quanto sarebbe figo un supereroe-luchador chiamato El Kakarot? («Provate in un’altra agenzia»).
Questo articolo fa parte della Cover Story "Justice League & Friends", che trovate riepilogata a questo indirizzo.