Il canto libero di The Legend of Zelda: Breath of the Wild
Ridestatosi dopo un lungo letargo, Link spalanca gli occhi e osserva un presente che non gli appartiene. In un incipit quasi zen, l'eroe di Hyrule si scopre fragile e vulnerabile, privo di un'identità ben definita. Lo rincuora il caldo abbraccio di una voce lontana e familiare, un delicato soffio di vento da cavalcare a vele spiegate, senza porsi troppe domande. Per quanto mi sforzi, difficilmente riuscirò a rendere giustizia a quell'istante magico, primo atto di uno Zelda che mette al bando i didascalismi, facendone tabula rasa. Nintendo prende così le distanze dall'iniziale pesantezza di Skyward Sword, episodio affascinante ma dal prologo fin troppo prolisso. Breath of the Wild è un vero e proprio a ritorno alle origini, un viaggio alla riscoperta della poetica di The Legend of Zelda. Alfa e omega convergono nel prototipo illustrato alla scorsa GDC, un laboratorio bidimensionale in salsa NES, punto di contatto fra il passato e il presente. Nasce così una Hyrule declinata secondo i canoni dell'open world, struttura che spesso è sinonimo di grande dispersività.
L'orizzonte si perde all'infinito, dipinge scenari da cartolina, scorci che ti entrano nel cuore. Si respira un'atmosfera magica, in una landa a tratti decadente, fatta di rovine e villaggi incontaminati. Quello di The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un caleidoscopio di culture, uno sfumato di lingue e folclore. Ho vestito più volte i panni dell'antropologo, analizzando al microscopio il quotidiano delle Gerudo, donne forti e indipendenti, ma incomplete e alla ricerca dell'altra metà del cielo. Prima di entrare in contatto con la loro civiltà, mi sono imbattuto nella grande bellezza degli Zora e nell'entusiasmo dei Goron. Il cerchio si è chiuso fra i Rito, al cospetto dell'incarnazione di Kaepora Gaebora. Nei panni di Link, ho camminato per centinaia di chilometri, senza seguire un itinerario prefissato. Stregato dalla luna, ho inseguito a perdifiato un stella cadente, ritrovandomi al cospetto di un cervo dal volto quasi umano, incontro dalla poetica miyazakiana. Per decine di ore, la main quest si è fatta piccola ai miei occhi, tanta era la curiosità di esplorare ogni centimetro quadrato di Hyrule.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild è per certi versi un episodio di rottura, perché prende le distante dai canoni consolidati della saga, rinunciando (in parte) ai dungeon e agli elementi a loro connessi. Con i primi sacrari, il gioco mette a disposizione tutti gli strumenti per avere la meglio sulle avversità, li nasconde in un tutorial omogeneo e sotto mentite spoglie. Una volta concluso, si è finalmente liberi di spiccare il volo. Nintendo è stata molto coraggiosa, ha optato per una soluzione di design tranchant, che ho apprezzato quasi in toto. Nel mio piccolo ho sentito la mancanza dei dungeon “vecchia maniera”, forse perché sono un'inguaribile nostalgico. Li considero da sempre dei piccoli microcosmi, aree eterogenee legate dal un fil rogue. Lo stesso cuore batte nel ventre delle quattro bestie divine, una meraviglia di design, un trionfo di idee e genialità. I sacrari a mio avviso faticano a reggere il confronto, facendo leva più sulla quantità che sulla qualità. Quando toccano le giuste corde, strappano applausi a scena aperta, lungi da me negarlo. Accusatemi pure di lesa maestà, ma la penso così, la mia non è una provocazione.
A mio modesto parere, anche il sistema di combattimento non è granitico, lo trovo abbozzato e tratteggiato. Avrei preferito una deriva à la Dark Souls, qualcosa di più definito. Con oculatezza, Nintendo rielabora parte delle meccaniche già viste in The Legend of Zelda: Skyward Sword, con un Link che suda e sbuffa. A suon di prove e difficoltà, l'eroe di Hyrule cresce, si fa più forte fino a raggiungere la piena maturità. L'usura di spade, scudi e archi è un'idea riuscita solo a metà: il loro è un carosello, un continuo entrare e uscire di scena. Lasciano una traccia del proprio passaggio, per poi farsi da parte. Sono in contrapposizione con le armature, con le quali si crea una sorta di legame, vuoi perché sono una solida certezza, non sono destinate a svanire nel nulla. Una lama invece perde il filo, fino a spezzarsi in due. E non c'è verso di rincollarne i cocci, lo dico con un certo rammarico.
Per quanto concerne invece la scrittura e la caratterizzazione dei personaggi, mi inchino e depongo lo spirito critico, perché non ho nulla da obiettare. Zelda è incredibilmente fragile, è una giovane donna dalla grande determinazione, costretta a indossare un vestito che le è stato cucito addosso. Ti viene voglia quasi di abbracciarla, quando scoppia in lacrime dalla frustrazione, nell'attimo in cui sembra perdere la lucidità. Poi la ritrovi esausta e indifesa, mentre riposa placida fra le braccia di Urbosa, in un flashback toccante e delicato. È struggente anche il legame fra Mipha e Link, con quell'amore puro e incondizionato, purtroppo non corrisposto. The Legend of Zelda: Breath of the Wild ti scioglie il cuore, tocca le corde dell'empatia e ti regala una serie di emozioni uniche, difficili da descrivere a parole.
Ai miei occhi, The Legend of Zelda: Breath of the Wild non è un gioco perfetto, ma è il paradigma di ciò che desidero da Nintendo: è un'esperienza unica nel suo genere, il frutto di ragione e sentimento. Se ne parlerà a lungo, a mente fredda ne riconosceremo pregi e difetti, consci che per l'ennesima volta si è fatta la storia. Che sia il migliore degli Zelda possibili o meno, francamente non fa differenza. A prescindere, merita di essere vissuto.
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Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.