The Legend of Zelda: Breath of the Wild, o dell’aprire gli occhi
Apri gli occhi, Link. Con questo accorato richiamo, la voce di Zelda, da chissà dove, desta per l’ennesima volta l’Eroe del Tempo. Il più classico degli incipit della serie è, in Breath of the Wild, il preludio a un’esperienza sconvolgente, in grado di aprire gli occhi del giocatore su un mondo che si tramuterà in un luogo ludico indimenticabile. Un viaggio da portare nel proprio cuore per sempre, uno spazio e un tempo sconfinati dove l’ìntero spettro delle emozioni umane troverà la più sorprendente delle incarnazioni. Avete dieci dita delle mani, ed è sicuro che, contando i dieci migliori momenti ludici che Nintendo vi ha saputo dare, Breath of the Wild si prende un dito - quasi sicuramente l’anulare della mano sinistra.
È abbastanza altisonante, così? Dai, non raccontiamocela. Mentre scrivo è passato un mese dall’uscita del gioco. Questo significa che, a meno che non viviate sotto un sasso come un Korogu spiegazzato, la notizia che questo non è il solito ottimo Legend of Zelda vi dovrebbe aver raggiunto. Magari vivete oramai in uno stato di privazione di sonno come me, con centinaia di ore di Hyrule alle spalle. Magari siete i peggiori detrattori di Zelda, di Nintendo e del Giappone tutto, e vi arrovellate nel livore mentre assistete a questa (per voi insopportabile) gioia quasi mistica che pervade la nintendanza tutta. In ogni caso, però, è impossibile nascondersi. Nel momento in cui il nuovo Link ha aperto gli occhi, qualcosa nel mondo dei videogame è cambiato per sempre.
Perché sì, Link siamo noi giocatori: apriamo gli occhi con lui. Ma come nelle migliori leggende, c’è un significato più profondo, stavolta. È Nintendo stessa, che ha aperto gli occhi. Nintendo che per anni ha instradato i suoi Legend of Zelda su quel binario di eccellenza che, episodio dopo episodio, si è scollato dalla rilevanza per i videogiocatori tutti. Un binario parallelo, che chi ci si vuole mettere sopra vive felicemente emozioni di altissima intensità ludica. Ma che, se proprio proprio la console Nintendo non ce l’hai, riesci comunque a non farti mancare i grandi passi avanti dell’evoluzione videoludica. L’ultima volta che un Legend of Zelda ha avuto una rilevanza videoludica imprescindibile e universale è facilmente individuabile in Ocarina of Time. Fine 1998. La PlayStation a dei livelli inverecondi di popolarità ed encomiabilità ludica. Ma, allo stesso tempo, priva di quella manciata di diamanti scintillanti firmati Miyamoto, EAD e compagnia gamedesignante.
Se avete prole, o anche semplicemente in quanto prole, avrete notato come un genitore possa spesso cambiare il suo punto di vista sulle cose grazie alla maieutica obliqua offerta dal comportamento dei figli. Sono un po’ quello che gli stiamo insegnando e dove li stiamo instradando, ma ci mettono tanto, tantissimo di loro. E allora quelli di EAD, zitti zitti, sono scesi dal trono e si sono fatti un bel giretto, a vedere che combinano i principini. Tutti quei team di sviluppo che da un lato riconoscono a daddy Nintendo meriti enormi e incrollabili, ma che allo stesso tempo hanno saputo osare quello che nindendoesn’t. I semi della nintendanza che, volando lontano, hanno fatto sbocciare nuove primavere di game design. E ogni hanami è un po’ lo stesso dell’anno prima, ma è anche completamente diverso, perché diverso è il mondo, diversa la cultura, diverse le regole del gioco.
Dopo 160 ore in Breath of the Wild, facilmente posso azzardare quali siano i videogame che, in gran segreto, EAD si è spolpata ai fini di trarre ispirazione e vivificare la saga. Non avendo letto nessuna recensione, ripeterò ovviamente tutta roba che sapete già, ma perché oh, è vera.
Minecraft. Nel senso che Miyamoto l’ha proprio detto, che Minecraft sarebbe dovuto essere un prodotto Nintendo. Ma non lo è stato, l’ha fatto Notch, nintendaro sfegatato che, per i paradossi inevitabili, ora sta in scimmia durissimissima su Breath of The Wild, come i suoi esilaranti tweet in merito dimostrano. Partire in mutande, pronti a farsi oneshottare da qualunque cosa, e poi fare farmare minare craftare lettera testamento fino a diventare un semidio. Il canovaccio emozionale delle prime decine di ore è quello, dominato dalla paura e la voglia di scoprire il mondo. Lo stupore del mondo infinito e procedurale è in Breath of The Wild sostituito dallo stupore di un mondo fatto interamente a mano da dei geni in stato di grazia, che devono aver fatto una fatica inumana. Una fatica più che divina. Analogo il senso di varietà e consistenza del mondo, che non dimentica però mai di essere un videogioco e di dover intrattenere sempre e variare puntualmente il carnet emozionale del viaggiatore. Come in Minecraft, anche in Breath of The Wild la credibilità dei singoli biomi è impeccabile, anche se poi in cinque minuti passi dalla tundra alla spiaggia tropicale. Che poi non è veramente questione di credibilità, ma della solita cara vecchia sospensione dell’incredulità.
Dark Souls. Se in Minecraft la natura è madre e matrigna, in Dark Souls il problema è che i nemici sono rispettabilissimi stronzi. Stronzi perché vi fanno sentire sempre come mammolette, rispettabilissimi perché il timore che incutono diventa carisma, e il carisma diventa rispetto. Breath of the Wild, sul lungo periodo, allorché vi potenziate come un semidio greco senza tallone, si rivela più amabile in questo senso, offrendovi il piacere della rivalsa su gran parte degli avversari (c’è addirittura modo di trollarli, un layer di gameplay che lascio a voi il compito di scoprire e apprezzare). Forse, l’obiettivo più bello di BotW è proprio la costruzione della propria rivalsa in un mondo distrutto dove il bene è stato sconfitto perché, per sua natura, molto meno scafato del male. Costruire un Bene forte, saggio e coraggioso. E nel contempo arrivare a dilaniare quei mona che vi hanno terrorizzato come non succedeva da… da Dark Souls, probabilmente. Piace però che qui, con tutto il surplus da GdR che, rispetto a uno Zelda tradizionale, BtoW si porta appresso, non ci sia un level up da grinding. Non esplicitamente, ovviamente c’è eccome, ma è mascherato contestualmente all’esplorazione e dalla presa di possesso delle risorse animali, minerali, vegetali, sociali di Hyrule - perché questo è un open world, è l’open world per antonomasia, d’ora in poi. Tie’.
Oblivion. Ho passato 50 ore in Oblivion a raccogliere erbe a zonzo, poi mi sono cotto il razzo. E dicevo: voglio un gameplay incentrato su ‘sta roba qua, sul sentire lo spazio che mi riempie di risorse in risposta alla mia voglia di esplorazione. BotW, come penso mi abbiano detto Fabio Bortolotti e/o Ugo Laviano, è Oblivion divertente.
Half-Life 2. Questa è un po’ tirata, se volete. Ma se non volete non lo è. Però Half-Life 2 seppe inserire quello che era potenzialmente un gimmick tool, la Gravity Gun, al centro di un gameplay già di suo solido e codificato. Anche in BotW, come in tutti gli Zelda, ci sono strumenti gimmick a go go, ma questa volta li si sente molto meno come “chiavi” per aprire nuove porzioni di mondo e molto più come strumenti efficaci, da usare e combinare in molti modi differenti. E il gioco li fornisce tutti praticamente subito. La presenza di un sensatissimo motore pseudo-fisico è un invito alla sperimentazione costante. Diciamo “sensatissimo”, perché è fisico il giusto, giocoso il giusto, stimola ad aggiungere pepe e interpretazione alla propria giocata di ruolo zeldiana. Non si usano tutti questi gimmick con la stessa frequenza, uno in particolare è tanto spettacolare quanto poco utile e l’altro è spesso impreciso nell’utilizzo, ma l’insieme tiene soprattutto perché, quando quasi ci si sta dimenticando di uno dei poteri, ecco che arriva l’illuminazione e si trova loro un nuovo impiego.
The Witness. Ne è passato di tempo dalla goffa citazione “Your princess is in another castle” che Jonathan Blow affidava a Braid, eh! The Witness è maturo, responsabile e vi chiede altrettanto. Forse l’associazione tra questo è BotW è la più tirata del mazzo e, tra l’altro, lo sviluppo in parallelo fa pensare, più che altro, a ispirazioni comuni… però un certo senso del luogo e la percezione che certi enigmi siano intimamente connessi al territorio sono quelli. Anche certi colori, un gusto per le atmosfere rarefatte. Zelda è sicuramente molto meno spaccatesta e fa di tutto per essere inclusivo, seduttivo, compulsivo. Zelda è un eccitante e un tranquillante assieme, in un guazzabuglio di ondate emotive perfettamente alternate. Ma resta la necessità costante di analizzare il paesaggio, decodificare strutture, modificare il proprio luogo nello spazio e il proprio punto di vista - geografico e metaforico. L’apparente natura selvaggia forgiata dagli dei Nintendo cela un intarsio di enigmi raffinatissimo. Come in The Witness, insomma, l’ossessione per l’osservazione è la vera chiave dell’enigma. E osservare la roba è bello perché è tutto molto bbello.
Assassin’s Creed. Questa probabilmente non dovrei dirla, ma uno degli slogan di Ubisoft ai tempi dei primi Assassin’s Creed identificava il quid della softco franco-canadese in “Hollywood + Nintendo”. Prendiamo le figate di gameplay di Nintendo e le vestiamo come un kolossal di Hollywood. Decine di milioni di copie vendute dopo e con tutti i difetti del caso, vien da dire che la formula, con tutte le limitazioni del caso, ha funzionato sui videogiocatori. Poi io non son mai riuscito a finire un Assassin’s Creed in vita mia. Però il climbing di Assassin, quella dimensione parkour, quella mobilità verticale, quelli li ho subito visti come “la roba” della serie. BotW è un gioco dalla verticalità costante, e non scoccia praticamente mai (perfino quando piove e scivolate, ma ci vuole tantissimo tempo per realizzare che c’è un rhythm game nascosto nelle risalite sdrucciolevoli). Vorrei dire Crackdown, per verticalità e senso di “Vai davvero dove ti pare senza limiti” ma non oso tanto. Forse dovrei.
Just Cause 2. L’ossessione di Avalanche in quel gioco, secondo me, era quella di assicurarsi che non ci fossero mai tempi morti - che anche i movimenti base, nella più noiosa delle circostanze, garantissero un accettabile grado di divertimento. È la vecchia regola di Mario, traslata in qualcosa di completamente diverso. BotW si ritaglia una personalità splendida perché è sempre divertente scarrozzare Link - in un mondo potenzialmente troppo grande per un uomo solo - nonostante non si pigi sull’onnipotenza di movimento a tutti i costi. Gusto e misura fanno sì che, anche senza elicotteri, la varietà di circostanze motorie in cui si trova l’Eroe del Tempo non facciano mai pensare “Sono in un vicolo cieco di cheppalle”.
Grand Theft Auto V. Il senso del luogo, l’inventiva nel dare varietà a infinite fetch quest e minigiochi, anche quando di fatto si tratta per dozzine di ore di andare dal punto A al punto B e anche quando non tutti i minigiochi sono egualmente riusciti. La capacità di dipingere un determinato orizzonte morale per il proprio mondo - per quanto ovviamente antitetico nelle intenzioni, se si paragonano GTA V e BotW, così come all’antitesi è il tono della scrittura dei dialoghi. Raramente mi sono trovato a trovare simili affinità sostanziali in giochi formalmente tanto diversi, ma analogamente votati a far amare il proprio mondo di gioco. Cultura metropolitana da un lato, celebrazione del divino shintoista della natura dall’altro e, al centro, a fare da perno, comunque e sempre, la volontà e l’arbitrio umano. Ah, e i selfie. Link che si fa i selfie è un nod a GTA V che levati. O tanto i selfie di Trevor quanto quelli di Link sono solo l’allegoria dell’umanità calata nella contemporaneità? E non è forse la contemporaneità l’eterna condizione dell’umano? E non sono forse gli abitanti di Hyrule, vari ed eventuali, simpa e/o mediocri, meschini e/o paranoici, viziosi e/o virtuosi ma sempre tutto sommato garbati, lo specchio della società nipponica, contrapposti agli analogamente umani ma più occidentali abitanti di San Andreas? E perché a GTA V ho giocato 80 ore mentre a BotW sono a 160 e conto di andare oltre le 200 easy?
A The Witcher 3 non ci ho giocato ma Ugo Laviano mi ha detto che il mood della narrazione è impareggiabile e che la malinconia della natura polacca non deve aver lasciato indifferenti i nintendi, che però come ho già scritto hanno ‘sta fissa che un mondo di gioco è un Mondo, non uno Stato, e quindi sparano varietà ambientale a manetta, la rendono comunque sensata e consistente e insomma vincono, e con loro vince il Giappone tutto, e per sicurezza ci mettono pure i draghi ma non i soliti draghi occidentali, no, ci mettono i draghi orientali e creano un sincretismo impossibile tra high fantasy e samurai, che poi non è impossibile proprio per niente e insomma ci avete giocato ai giochi giapponesi degli ultimi trent’anni, no? BotW è il best of di tutto. Non fa perfettamente tutto, sia chiaro, ma nell’insieme è il best of più totale di meccaniche ludiche. Anche se non puoi tirare pugni alla gente. Non sono sicuro di perché io stia scrivendo ‘sta roba in un paragrafo che comincia con The Witcher 3, ma insomma, l’avete anche capito che tutti questi nomi sparati nel muzzo erano un po’ un pretesto per raccontarvi, per affinità e contrasto, come Breath of the Wild si sia mosso per surclassare un po’ tutti. Li studia, li sfida, li zeruda.
Cooking Mama ok la smetto, però cucinare è spassosissimo, in BotW.
Parlando di figli di Nintendo, è inevitabile poi menzionare i quelli che ella stessa ha cresciuto nel suo ventre: la nuova generazione di sviluppatori Nintendo, capace di svecchiare e di sfidare, di osare, di vincere e innovare. Miyamoto Tezuka e Kondo non è che li potete spremere come limoni per sempre! È inumano! Oh, noi siamo i nostri figli, i nostri figli sono i nostri padri. No, aspetta, questo vorrebbe dire che i nostri figli sono i nostri nonni? Ma allora che caspita voleva dire William Wordsworth. quando diceva “Child is father to the man”?
Be’, William Wordsworth, nel 1802, quando scrisse il poema My heart leaps up da cui la frase qui sopra è tratta, stava sostanzialmente descrivendo la funzione archetipica di The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
Leggete.
Wordsworth è uno degli iniziatori del Romanticismo inglese (assieme a Coleridge, quello della willing suspension of disbelief, guarda un po’). Un cantore così intenso della Natura che è impossibile non vedere in lui un panteista di stampo neoplatonico. Il passo da qui ai kami dello Shinto non è proprio brevissimo, ma affrontabile, soprattutto pensando tanto alla poetica di Miyamoto. Ricordate? Il primissimo The Legend of Zelda nasce dal ricordo delle esperienze esplorative del giovane Shigeru nella sua prefettura rurale di Sonebe - una natura quotidiana nella quale, tramite l’atto della Scoperta, il bambino entra in contatto col Tutto, si sente pervaso dal soprannaturale. È romanticismo inglese, sostenere che i bambini, nella loro purezza noviziale, riescono a vivere la Scoperta con tale intensità? È romanticismo nipponico? È un film di Miyazaki?
È solo e sempre la cara vecchia giostra degli archetipi, tanto che non è questione di chiedersi se Miyamoto fosse o meno conscio che la Triforza è in realtà l’antichissimo Simbolo della Caverna, ovvero l’archetipo junghiano dell’utero materno. Apri gli occhi, Link. Rinasci, puro come un bambino, lascia la caverna e diventa nuovamente Uomo esplorando il mondo, mantenendo vivo nel cuore lo stupore infantile come chiave interpretativa. Stupisciti per un arcobaleno (o due!). Solo il bambino genera l’uomo. Nintendo rinasce reincarnandosi in una nuova generazione di creativi, che con coraggio guarda all’archetipica intuizione dietro il primissimo Legend of Zelda per fare tabula rasa e fondare un nuovo mondo e una nuova storia. La storia - spero l’analogia sia palese - di una vecchia generazione di eroi che, nonostante tutto, ha infine fallito. E uno di loro che, rinascendo, è pronto a ricominciare. Riscattare.
(Ho letto il labiale di lei laggiù in fondo, signorina. Ah, è come Guerre Stellari, eh? Le tiro la bibliografia di Joseph Campbell in testa, signorina. Tutta. Che tipo archetipico).
Un aspetto che ci porterebbe lontano è: ma ha senso parlare di naturalismo quando
Breath of the Wild non è altro che una rappresentazione mediata della natura stessa? Sì, ha senso, un po’ perché nessuno è mai andato a rompere il cazzo a John Constable o per l’appunto a Wordsworth per, un po’ perché dobbiamo tutti toglierci il cappello di fronte a una simile rappresentazione della natura. Il lavoro di sintesi svolto da Nintendo nel dare a Hyrule tutti i colori e le forme della natura là fuori - o quasi - non ha pari, soprattutto pensando che è svolto senza rinunciare a nemmeno un centimetro di funzionalità in termini di level design. Stupore sinestetico, e intanto è un videogioco. Prospettive d’una bellezza vertiginosa, incastrate una nell’altra, dove il giocatore si sente bambino perché le sorprese continuano a fioccare dopo dieci, cinquanta, cento, centocinquanta ore. La quantità meticolosamente al servizio della qualità. O viceversa, insomma. Il giocatore educato ad apprezzare dettagli che all’inizio non riesce nemmeno a vedere. Quando a cento ore di gioco ti rendi conto che l’acqua piovana ristagna sui terreni argillosi per poi evaporare generando una nebbiolina all’alba. Quando ti accorgi che muovendoti in silenzio in un bosco puoi vedere insetti mai nemmeno immaginati. Quando peschi con le bombe, ma poi non riesci più a uccidere una volpe una, perché, oh, non è il tuo destino in quest’avventura. Quando un gioco ti fa modellare di volta in volta il ruolo che vuoi assumere nei confronti degli avversari e, pur passando da stealth a mandingo scatenato nel giro di un’ora, tutto ha perfettamente senso, perché è un gioco e i bambini giocano, perdìo. E poi, dopo aver strappato corteccia con grazia brutale, restano immobili, imbambolati, a guardare una libellula volare a pelo d’acqua.
(Uff. Lo sapevo, lo sapevo che finiva non dico a schifio, ma a semi-stream of consciousness, questa recensione. Lo sapevate anche voi. Si presta il gioco, mi presto io. Dai, ancora un paio di concetti che poi devo tornare - c’è un cavallo che mi aspetta).
Nella volontà di non spoilerar una mazza, perché questo è IL gioco da fare dritto dritto senza interferenze, mi sposto su alcuni concetti di game design ad alto livello. Cercando di riassumere le ragioni di un così felice connubio di meccaniche ludiche, direi che la grande intuizione di questo Zelda è quella di parcellizzare i propri contenuti in maniera da non risultare mai noioso, o qualitativamente debole, nonostante la quantità sconfinata di contenuti presenti. Nella teoria del game design si parla di una serie di loop che vengono utilizzati per coinvolgere e intrattenere i giocatori su diversi assi temporali. Si parla di short loop per interazioni che avvengono in un arco di tempo molto ristretto, come per esempio la successiva raccolta di gettoni o di salti in un Super Mario Bros. Un loop quindi di pochi secondi in cui è necessario intrattenere il giocatore in maniera serrata, ritmica. Non a caso i rhythm game fanno della soddisfazione dei short loop, del singolo beat/nota azzeccati, la loro più urgente ragion d’essere.
Be’, un buon open world deve innanzitutto offrire un carnet di differenti elementi sullo short loop. Perché il tempo e lo spazio di gioco sono tali che si deve poter passare costantemente da una micro attività a un’altra, concatenando meccaniche ludiche qualitativamente differenti una dopo l’altra, short loop dopo short loop. La classe del level designer emerge se sa costruire un reticolato che invita il giocatore ad alternare i loop, magari a perdersi, ma a sentirsi sempre sfidato. BotW surclassa tutti. Un esempio innocuo. In molti casi, i Materiali recuperabili in un ambiente - per esempio i funghi in un bosco o le piante aggrappate a una parete rocciosa - sono piazzati secondo dei percorsi che incoraggiano il giocatore a muoversi lungo determinati tracciati. Delle briciole di Pollicino che ci muovono verso aree più dense di senso ludico - un accampamento nemico da assaltare, un forziere, un Korogu, il segnale che un santuario è vicino. Sì, delle tracce di level design lineare in un mondo open world. Quelle che in Mario 64 alla fine ti portavano a recuperare una Stella piuttosto che un’altra nello stesso ambiente free roaming. Roba vista in tantissime circostanze, ma mai, a memoria di Babich, con tanta arguzia ed eleganza. Perché il giocatore non deve sentirsi guidato, deve avere la sensazione di essere nella piena facoltà di scegliere cosa fare. Mi è capitato di vagare per ore e ore inanellando combo di queste tracce di level design lineare. Per scongiurare il rischio che, dopo dozzilioni di ore di gioco, questo sistema risulti meccanico, il level design offre un contrappunto sinestetico: in alcuni momenti, a guidarci sono oggetti concreti da recuperare, in altri è la conformazione geologica del paesaggio, in altri ancora un evento sapientemente triggerato ad hoc, visto che siamo là, in altri ancora i suoni ambientali o la bellezza di un determinato anfratto che “dobbiamo fare nostro”.
Poi ci sono i loop a medio termine. Siamo nell’ordine dei minuti, sotto la mezz’ora, tendenzialente (questi tempi variano ovviamente da gioco a gioco, parlo di BotW). Per iniziare, un mid loop può essere individuato ciascuno dei 120 sacrari di cui Hyrule è disseminato. Entri ed è in sostanza un mini-dungeon, un tipo di sfida reminiscente dei grassi grossi dungeon di una volta ma parcellizzata con una leggerezza esaltante. Spesso non basta trovarli, ‘sti sacrari, ma c’è pure un miniloop ove occorre capire che diavolo fare per riuscire a penetrare all’interno. Si tratta di compiere un’azione, spesso risultato della richiesta degli NPC, che ne rivela la presenza - azioni che hanno solitamente a che fare con la dimestichezza che abbiamo sviluppato con le nostre capacità offensive o con gli oggetti che abbiamo in inventario. Sono certo poco vario nel ribadire la varietà, foss’anche solo quella legata alla scoperta dei 900 Korogu, piccoli sgonfiottini fogliolini che giocano a nascondino con la nostra anima de li mortacci loro. Tiro al bersaglio. Gara di planata. Gara di arrampicata. Aguzza la vista. Scopri una nuova regola per cui puoi farli apparire. Esplora proprio là dove sembra non esserci nulla ma poi invece quell’attimo di frustrazione e incertezza si risolve nel brivido del ritrovamento. Prova una combinazione insolita ma, col senno di poi, perfettamente sensata.
Anche le fetch quest sono sorprendenti, soprattutto perché potendo noi giocare secondo lo stile che più ci si confà, esplorando prima o dopo diverse regioni, alcune quest possono in realtà anche diventare obiettivi di lungo termine, se per esempio ci siamo ritrovati a ignorare la raccolta di determinati Materiali o Armi. O perché ci siamo pisciati bellamente aree dove eravamo caldamente invitati a recarci, ma noi no, perché l’open world è mio e me lo gestisco io, e tutto ha senso e trallalero. E dire che ti danno i cavalli. Seguono la strada maestra da soli! Un critical path semiautomatico! Ma in troppi casi si preferisce inerpicarsi appiedati su sentieri scoscesi lasciando il ronzino di turno per i fatti suoi. È un po’ un inghippo: la voglia di esplorazione tende a far trascurare le vie di transito più facilmente percorribili a cavallo, vie lungo le quali gli sviluppatori hanno disseminato il maggior numero di informazioni vitali e di reward basilari per la sopravvivenza. Di nuovo - è questione di stile di gioco, magari parlo così perché sono un compulsivo dell’off the beaten track, ma per questa ragione sono riuscito a mancare per un centinaio d’ore alcuni incontri e ritrovamenti che, se fatti prima, avrebbero di gran lunga facilitato la mia esperienza. E mentre lo scrivo mi rendo conto che è una minchiata, e che sto solo dando una volta di più ragione alla mirabolante filosofia rischio/ricompensa messa in atto dagli sviluppatori. Vuoi giocare in tutta sicurezza? Scegli la via battuta. Sei uno psicotico che adora rotolare tra i rovi e poi balla la rumba perché trova lo Spadone del Gigabaubau segreto nero? Benissimo. Soddisfazione per tutti, che le dee della Saggezza, della Forza e del Coraggio benedicano Breath of the Wild ora e sempre.
Colpisce la precisione chirurgica con cui, mappa alla mano, i level designer hanno costruito delle bolle di esplorazione indipendenti e ben strutturate: ciascuna ci spinge a farsi ripulire con metodo, a dire “OK, ‘sto boschetto è fatto, passo oltre”, eppure sono tutte coese e visivamente armoniche una accanto all’altra. Una classe sconfinata. Col fatto che poi magari credevamo di aver trovato tutto in un’area, ma magari in un altro momento del giorno, o al mutare delle condizioni metereologiche, chissà… AWWWW!
Dovrei ora parlarvi per venti pagine del sistema economico del gioco. Arrangiatevi. Lo troverete perfetto, poi vi sentirete gabbati perché “E se lo sapevo prima avrei tenuto X da parte” eccetera, ma la verità è che è quasi miracoloso come tenga botta per dozzine e dozzine di ore.
Loop a lungo termine: be’, anche qui è meglio tacere. Le main quest. Come tutto, man mano che si erode a suon di esplorazione Hyrule, le trame si tessono e l’epopea emerge gloriosa. Buona recherche.
Se poi state ANCORA leggendo - oh, bravi! - vi regalo un momento what the fuck - a un certo punto ho pensato di dettare al computer i miei pensieri mentre giocavo, per NON SMETTERE DI GIOCARE, insomma. Ecco il risultato, talmente impestato demmerda che non provo nemmeno a correggerlo. Chi ha orecchie per intendere intenda. Nessuno, va da sé:
E niente, che scatafascio di recensione. Imponderabile ponderosissimo Breath of The Wild. Provato fisicamente dalla carenza di sonno, cos’altro potevo scrivere? E ora devo tornare a giocare. Sì, senza nemmeno parlarvi del combat, è perfetto, ciao. Devo tornare a giocare perché poi, domani, con gli amici, ci ritroveremo goffamente con la voglia di raccontarci quello che abbiamo fatto nel gioco, non potendolo sostanzialmente fare per non inficiare l’altrui gusto della Scoperta. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso. E con la voglia di raccontare “E me è successo questo” e “Ma sai che puoi fare questa cosa?”. Quando parli a un tuo amico che ha finito il gioco dopo 150 ore e puoi ancora lasciarlo sbigottito perché hai scoperto un aspetto del gameplay a lui ignoto, vuol dire che… be’, lo capite da voi cosa vuol dire.
Ho giocato a The Legend of Zelda: Breath of The Wild grazie a un codice ecc ecc Nintendo grazie ecc. Su Nintendo Switch. Quello, però, me lo sono comprato io. Almeno quello, dai! 160 ore e passa, 300 Korogu, 100 Sacrari, altro dirvi non vo’. Giocato in italiano, merita anche perché hanno lasciato tanti nomi giappi per i personaggi. Che altro dire: sono molto felice di trovarmi a quarantatre anni a dire che sto giocando al miglior Zelda di sempre, ma soprattutto, per non fare torto a Link’s Awakening, il miglior nuovo Zelda di sempre. Vi voglio bene. Vogliamoci tutti bene e giochiamo a Link’s Awakening. Ah, come al solito, se acquistate il gioco su Amazon passando dai nostri link, ci fate ricevere una piccola percentuale di quanto spendete, senza sovrapprezzi per voi. Potete farlo su Amazon Italia a questo indirizzo qui o su Amazon UK a quest'altro indirizzo qua.