La forma dell’acqua è un clamoroso dito medio al razzismo, a Trump e ai tempi brutti che corrono
Un po’ a pregiudizio, non sono completamente a mio agio con tutte quelle opere di narrazione che tentano di affrontare tematiche sociali o politiche in maniera troppo diretta. Non che giudichi la cosa sbagliata in sé, per carità. Tuttavia, sono dell’idea che il modo migliore per far passare un messaggio sia quello di farlo a pezzi per poi scioglierlo nell’impasto dell’opera, lasciando eventualmente al fruitore il piacere di scoprirlo.
Ancora meglio, amo quando dette tematiche vengono infilate nelle opere popolari, magari di genere. Che ne so: tipo nella fantascienza distopica, nell’horror (penso soprattutto a film come 2022: i sopravvissuti, Il pianeta delle scimmie o Zombi) o nelle fiabe. Insomma, mi piace quando un’opera di intrattenimento si tuffa nello spirito dei tempi per poi spruzzarlo dappertutto alla sua maniera, e in questo senso ho trovato La forma dell’acqua – The Shape of Water (i titolisti italiani, stavolta, non hanno lasciato nulla di intentato) particolarmente riuscito.
Leone d’oro all’ultima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, oltre che vincitore del Golden Globe per la miglior regia e in lizza per una bella manciata di premi Oscar, l’ultimo film di Guillermo del Toro è probabilmente la sua opera più critica nei confronti del presente, nonostante sia ambientata all’inizio degli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, e al netto della poetica di taglio mitologico/folkloristico che accompagna il regista messicano dai tempi di Cronos.
La trama del film, messa all’osso, racconta della tenera e complessa relazione tra Elisa (Sally Hawkins, candidata all’Oscar come miglior attrice), ragazza orfana afflitta da mutismo e addetta alle pulizie in una struttura di ricerca governativa, e una misteriosa creatura anfibia (che prende in prestito il corpo dell’attore e mimo Doug Jones) proveniente dal Sud America e oggetto di sperimentazioni top secret. Tali esperimenti, spesso dai risvolti crudeli, si svolgono sotto la supervisione del colonnello Strickland, interpretato da Michael Shannon: caratterista perfetto nel ruolo del militare rigido e un po’ perverso, attaccato a una distorta mitizzazione del sogno americano.
A livello tematico, iconografico e di rimandi siamo davanti a una rivisitazione - anche se sarebbe meglio parlare di un ribaltamento - de Il mostro della laguna nera, film di Jack Arnold verso cui del Toro non ha mai nascosto grande ammirazione (pare che il regista messicano fosse addirittura in trattative con la Paramount per girarne il remake ufficiale), con l’aggiunta di un pizzico di E.T. l'extra-terrestre e una spruzzatina de Il favoloso mondo di Amélie, che si diffonde soprattutto attraverso le musiche di Alexandre Desplat (pregevoli, ma un po’ troppo derivative). Suggestione per suggestione, la ricostruzione della provincia americana a ridosso della Guerra Fredda, mescolata a robe di mostri, mi ha ricordato un po’ anche Matinee di Joe Dante, che tra l’altro non riguardo dai tempi di Telepiù.
Detto questo, se la caratterizzazione della creatura anfibia e diversi elementi di contesto devono senz’altro moltissimo al film di Arnold del 1956, da bravo fissato del mito e conoscendo bene il mio pollo, fin dalle prime scene del film sono andato a caccia di riferimenti classici. Come già ne Il labirinto del Fauno, sono presenti tracce del ratto di Persefone, che racconta del passaggio tra due mondi a sacrificio di quello di partenza. Tuttavia, ancora più forti mi sono parsi i rimandi al mito di Eros e Psiche (a sua volta alla base di fiabe come La bella e la bestia o del film Ladyhawke, di Richard Donner), che celebra la conciliazione tra il giorno e la notte, tra l’umano e il divino, qui rivisitati nel rapporto tra il mondo terreno e quello acquatico.
In effetti, una storia focalizzata sull’incontro tra creature diverse è perfetta come base di partenza per un film che, come ho già detto, veicola una fortissima carica politica. Un film che anche in virtù del consenso raccolto ai festival si ritrova volente o nolente alla testa della gang “Hollywood vs. Trump”, di cui ho già fatto accenno nella mia recensione di The Post e della quale fanno parte - tanto per ripetermi - Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Downsizing e Coco.
Del resto, come dice un mio amico: «Hollywood è sempre sul pezzo», e in fondo del Toro ha già dimostrato di saperci fare con la storia contemporanea e la critica sociale. Nei suoi film precedenti, nonostante l’inclinazione verso l’horror e il fantastico, non ci è andato piano con la guerra civile spagnola o il franchismo.
Stavolta, partendo dalla relazione tra Elisa e la creatura anfibia, il regista messicano esplora sistematicamente ogni tipologia di diversità, senza tralasciare nessuna “eccezione alla norma” (norma qui intesa in mero senso statistico, ossia come il valore che si manifesta con maggiore frequenza). Nulla viene lasciato inespresso. Dalle differenze sessuali, di genere, fino a quelle di specie, passando per quelle politiche intrinseche al contesto della Guerra Fredda e per i pregiudizi etnici che affliggevano l’America degli anni Sessanta (mica come oggi, che va tutto alla grande), e che nello specifico del film vengono caricati sulle spalle di Zelda, collega afroamericana della protagonista.
Ma non è tutto: intraprendendo sentieri di analisi per nulla scontati, del Toro osserva anche le possibili differenze di approccio verso insiemi etici, morali e sociali apparentemente vicini tra loro. Particolarmente eloquente, in questo senso, la diatriba che si accende tra il generale Hoyt e il colonnello Strickland riguardo le rispettive differenti visioni del capitalismo e del sogno americano, “valori” che entrambi, nonostante tutto, appoggiano. Per non dire del dilemma morale che, piano piano, cresce nella spia sovietica, a dispetto della rigidità dei suoi connazionali.
Naturalmente anche le differenze linguistiche sono oggetto di indagine. Un’indagine particolarmente sofisticata, tra l’altro: si veda il goffo tentativo di approccio di Giles (Richard Jenkins), il vicino di casa di Elisa, nonché suo amico e confidente, verso il giovane cameriere della locale tavola calda, che ruota tutto attorno alle differenze tra accenti (purtroppo il doppiaggio italiano spegne un po’ il senso della chiacchierata, obbligando lo spettatore a “fidarsi”).
Tutte le riflessioni sul linguaggio finiscono col ribadire il valore comunicativo del suono (o della mancanza di suono) e del gesto, agganciandosi ad alcune tra le più antiche credenze religiose sulla piazza e tornando conseguentemente al confronto di partenza: quello tra umano e divino.
Eppure - sarà anche ovvio, ma di questi tempi è sempre meglio sottolinearlo - La forma dell’acqua esplora le diversità per celebrare le affinità, i legami nonostante tutto e tutti, risultando a conti fatti un film positivo, ottimista e pieno di luce (e la luce, in fondo, non può essere raccontata senza passare per l’oscurità). Un film che professa l’accettazione di tutto ciò che in natura ci è “altro” puramente per quello che è, senza sofisticazioni o sovrastrutture di sorta.
Venendo alla messa in scena, del Toro prosegue nella sua idea di cinema forte, netta e un poco chiassosa, con quell’estetica riconoscibile ma non di maniera (per dire: non è entrato in quel vortice di ripetitività che affligge Burton o Wes Anderson, pur col bene che voglio a entrambi). Fortunatamente è ancora in grado di declinare la sua cifra stilistica in base al contesto o alla tematica che desidera esplorare, e non viceversa.
Con La forma dell’acqua, il regista prosegue anche il suo studio sul colore e sugli elementi (il titolo del film è piuttosto eloquente, in effetti), che a loro volta si intersecano con le scelte architettoniche: dopo il fuoco, le forge e il ferro di Pacific Rim, e il contrasto tra il bianco della neve e il materico fango rosso di Crimson Peak, ora è il turno dell’acqua. Prima ancora che da “leggere” o ascoltare, La forma dell’acqua è senz’altro un film da guardare. Un film nel quale ogni ambiente ha il proprio leitmotiv visivo: da una parte ci sono le architetture e le forme primi anni Sessanta alla Mad Men, che definiscono soprattutto le sequenze diurne o la vita familiare di Strickland. Dall’altra c’è il laboratorio di ricerca, dove la creatura viene tenuta prigioniera, sottoposta a esperimenti e sevizie: in questo caso l’architettura è Brutalista, con pareti nude, grezze e cemento a vista. Nel mezzo ci sono l’appartamento di Elisa e quello di Giles - due personaggi non completamente in bolla con la propria epoca - dove si mescolano architetture moderniste e Art déco (à la BioShock) con un pizzico di Art Nouveau (oh, faccio tanto il saputello ma sto andando a braccio appoggiandomi a un vecchio esame universitario: se ho preso qualche abbaglio, bacchettatemi pure).
Ciononostante - ho parlato di “leitmotiv”, appunto - a livello estetico non siamo davanti a delle differenze marcate tra un ambiente e l’altro, quanto semmai a delle variazioni. Il film è estremamente omogeneo a vedersi, addirittura rigoroso; ogni apparente contrasto viene appianato dalla fotografia, dalle musiche e dalla chiave cromatica versata al turchese.
Insomma, di grossi motivi per non andare d’accordo con la Forma dell’acqua, secondo me, non ce ne sono. Col suo nuovo film, del Toro riesce a mettere in campo la sua estetica decisa e piena di idee, e contemporaneamente a servire una storia solida e semplice (diversamente da Crimson Peak, meno riuscito proprio sul piano del racconto), eppure carica di sfumature e sensi come le fiabe migliori.
Ho guardato La forma dell’acqua qualche giorno prima dell’uscita in sala grazie a un’anteprima stampa alla quale noialtri di Outcast siamo stati gentilmente invitati. Il nuovo film di del Toro mi è piaciuto moltissimo, nonostante qualche sfumatura di senso sia andata perduta nel passaggio alla lingua italiana. Consigliato, eccome.