Racconti dall'ospizio #108 - La mela cotta di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots
Dammi solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora.
Stare insieme è finito, abbiamo capito, ma dirselo è dura.
Frechete.
La logorroica e melanconica macchina sentimentale di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots ha insegnato agli angeli che c’è una sola scelta possibile, e questa scelta può solo vertere su due metodi ugualmente eccessivi.
O presupporre un reale interamente permeabile al tecnoludico e ideologizzare; oppure, inversamente, presupporre un reale alla fine impenetrabile, irriducibile. E in tal caso, accendersi tosto un sigaro e andarsene affanculo.
Così, il ‘Via col Vento dei Metal Gear’ finisce per ispessire il (suo) reale più del dovuto, per trovargli una compattezza e una tragicità sorprendenti. La sua instancabile parola è un metalinguaggio d’avanguardia: non agisce niente, non v’è quasi gameplay. Tutt’al più svela, lasciandosi continuamente guardare, in un lungo e inerte addio.
Guns of the Patriots è un accordo con il metaverso di Kojima, non quale esso è, ma quale vuol diventare. L’opera di Kojima ci ricorda senza tregua che un uomo è da solo perché... magari ha in testa strani tarli, o forse perché ha paura del sesso, o per la smania di successo, o ancora per scrivere il romanzo che ha di dentro, perché la vita l'ha già messo al muro, o perché in un mondo falso, è un un uomo vero.
Non tocco un Metal Gear da quasi dieci anni.
Opera magna e al contempo palla (medica) al cazzo, Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots decretò la fine di ogni mio amorevole rapporto con la saga ambientata a Riccione. Ho smesso di credere che ciò che penso di vedere è vero solo quando il cervello di Kojima mi dice che è vero.
Tuttavia, nulla è più utile a una società che la classificazione per bontà dei suoi Metal Gear:
- Metal Gear Solid
- Metal Gear Solid 3: Snake Eater
- STOCAZZO
Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che trovate riepilogata a questo indirizzo.