#1reasontobe alla GDC 2018: sviluppare sparsi in giro per il mondo
Quello di #1reasontobe è sempre uno fra gli appuntamenti più affascinanti, emozionanti e interessanti della Game Developers Conference. Il nome deriva da un hashtag nato (ovviamente) su Twitter qualche anno fa, per dare voce alle donne che lavorano nel settore dei videogiochi, e ha appunto poi dato vita a una serie di incontri organizzati dalla leggenda del settore Brenda Romero e dalla (allora) giornalista Leigh Alexander. Di recente, le due hanno lasciato “in eredità” l'evento a Rami Ismail, sviluppatore indipendente olandese di origine egiziana, che proprio alla Game Developers Conference 2018, durante la serata dei Game Developers Choice Awards, ha ricevuto il premio Ambassador Award, assegnato a persone che hanno aiutato il settore ad evolversi per il meglio, lavorando per far crescere la comunità o per far crescere i suoi rapporti con il mondo “là fuori”.
L'evento #1reasontobe di quest'anno (la registrazione video è disponibile qui) si è aperto proprio con Ismail che ha mostrato la mappa reperibile nella zona d'ingresso del Moscone Center durante i giorni della GDC 2018. Attraverso una serie di piccoli adesivi rossi messi a disposizione, tutti potevano segnare la propria provenienza sulla mappa, per creare una visualizzazione della “globalità” della fiera. Prelevando tutti i “pallini” rossi e visualizzandoli senza una mappa al di sotto, in teoria, si dovrebbe vedere comunque una riproduzione del pianeta. In pratica, lo scenario dipinto è un po' diverso: in rosso, si vedono l'America, soprattutto del nord, un po' di Europa, un pizzico di Giappone e Cina. E solo scampoli d'altro. La gente che può andare alla GDC, che può permettersi di farlo e che ha il permesso di farlo arriva da quei luoghi.
L'idea per l'edizione 2018 di #1reasontobe era semplice: invitare sei speaker mai stati alla Game Developers Conference, uno per territorio. Ismail si è occupato di selezionarli, invitarli, garantire che la trasferta fosse interamente spesata e controllare che tutte le procedure necessarie andassero a buon fine. Chiaramente, per diverse delle persone in questione era necessario ottenere un visto d'ingresso negli Stati Uniti. Ebbene, su sei richieste iniziali, tre visti sono stati rifiutati. Ismail ha contattato delle “riserve” e anche due di loro hanno ricevuto un rifiuto. Altre due riserve, un altro rifiuto. Nel mezzo, un'ulteriore persona ha preferito rifiutare l'invito per paura delle conseguenze che sarebbero potute derivare dalla richiesta di visto. L’ultimo partecipante è stato confermato due giorni prima dell’evento.
Le procedure sono state seguite direttamente da Ismail, che ha cercato di aiutare e dare una mano a tutti, incappando quindi in prima persona nelle problematiche più assurde. Una persona si è vista rifiutare il visto perché, dopo la richiesta iniziale, ha commesso l'errore di sposarsi e, quindi, cambiare cognome. Molti hanno chiesto che non venissero divulgate informazioni su quanto avvenuto, anche solo l'identità del paese da cui provengono, per timore di conseguenze o anche solo per non rischiare che la loro patria ne uscisse sotto una luce negativa. Tutte queste persone avevano la possibilità di andare alla GDC. Sarebbero potute volare a San Francisco, completamente spesate sul fronte di viaggio, alloggio e biglietto per la fiera (tutti non proprio economici), per partecipare a uno fra gli eventi più importanti del settore, con la prospettiva di incontri capaci di cambiarti la vita, e sono invece rimaste a casa, con in tasca una delusione devastante e una lettera informale di rifiuto. Avrebbero potuto raccontare le loro storie sul palco, condividere esperienze, incontrare persone, parlare con la stampa, stringere amicizie, inseguire opportunità. E invece, niente. Anzi, adesso sono anche marchiate a vita: se mai proveranno a chiedere un visto per l'ingresso negli USA, saranno obbligate per legge a dichiarare di aver ricevuto un rifiuto in passato e difficilmente questo renderà le cose più facili.
Dopo aver fatto questo preambolo, Ismail ha provato a spiegare le cose in maniera molto diretta e pratica. A chiesto al pubblico in sala di ascoltare una serie di domande. Quanti di voi non sono sposati? Quanti di voi hanno cambiato cognome di recente? Quanti di voi non hanno un impiego fisso da dipendenti? Quanti di voi non hanno figli? Quanti di voi non possiedono una casa? Quanti di voi sono nervosi quando devono affrontare un colloquio o un interrogatorio? Quanti di voi hanno mai fatto un errore di battitura nel compilare un modulo? Domande del genere, domande fra cui è improbabile non trovarne almeno una che ci chiami in causa. E infatti, la successiva alzata di di mano ha coinvolto praticamente tutta la sala 24 della North Hall al Moscone Center, stipata oltre ogni limite. Ebbene, queste erano le motivazioni per cui sono stati rifiutati i visti. O, almeno, parte delle motivazioni. Altri sono stati rifiutati per pura scelta casuale.
Già solo questa introduzione, per di più ascoltata lì, seduto in prima fila, osservandoli dritti negli occhi, mi ha smosso sul piano emotivo, e non poco. Anche perché, insomma, io ero seduto lì perché (1) posso permettermi un viaggio a San Francisco, (2) il pass per la stampa alla GDC è gratuito, a fronte di certi pass che costano centinaia di dollari, (3) vengo da una nazione che il visto temporaneo per gli USA ce l’ha implicito nel passaporto. Eh.
L’idea, comunque, era di offrire spazio a persone che lavorano nei videogiochi in giro per il mondo, dando loro voce per raccontare le proprie storie, le difficoltà, i sogni, le speranze, lo stato delle cose. L’idea è che queste storie devono essere ascoltate, o lette, per venire a conoscenza di come le cose funzionino nel resto del mondo, dove è magari richiesta un po’ più di perseveranza per riuscire. E infatti Ismail ha poi ceduto il microfono ai vari che sono riusciti a partecipare. Ha iniziato Irina Moraru di FaeryDust Games, nata e cresciuta nella Romania comunista, impegnata a costruirsi un lavoro nel settore dei videogiochi in un paese che si porta ancora dietro le tracce del proprio passato, un sistema educativo obsoleto, il problema della gente che preferisce fuggire all’estero. Come risolverlo? Lavorando sul talento locale, provando a spingere una cultura dell’apprendimento direttamente all’interno dell’azienda che lei stessa ha fondato e guida, per cercare di sopperire alle mancanze della scuola locale nello sviluppo di abilità creative o di leadership.
Dopo di lei ha preso il microfono Javi Almirante, di Most Played Games. Lui viene dalle Filippine ed è cresciuto giocando coi giochi Nintendo. La sua console? ZFSNES 1.42 per Windows. Nel suo paese, la pirateria era sinonimo di videogioco, e del resto non è che le cose sarebbero cambiate molto con la prima PlayStation. Javi ha avuto la fortuna di crescere parlando inglese fin da piccolo, una fortuna doppia perché nelle Filippine si tende a valutare l’intelligenza e l’appartenenza sociale della gente sulla base della lingua parlata. Appassionato di videogiochi fin da piccolo, si convinse che per svilupparne fosse sufficiente disegnare personaggi e infilarli nel computer. Solo crescendo scoprì l’esistenza dei videogiochi originali, ma erano comunque troppo costosi e si appassionò a DOTA grazie alla disponibilità di internet cafè. Per cercare di inseguire la propria passione, decise di studiare informatica, dato che dalle sue parti non c’erano corsi legati al videogioco e muoversi al di fuori del paese sarebbe stato troppo costoso. E lì iniziarono i colpi di fortuna, a cominciare dal fatto che il suo insegnante di informatica era a capo dell’IGDA di Manila (organizzazione, ovviamente, non ufficiale).
Ma iniziando a frequentare il settore, Javi si è trovato di fronte alla delusione di un mondo in cui tutti parlavano solo di monetizzazione, a seguito dell’esplosione del free to play. Poi, però, è arrivato l’altro incontro fondamentale, quello con Gwen Foster, una delle persone a cui è stato rifiutato il visto per la GDC. Personaggio fondamentale, ha aiutato e aiuta chi traffica nello sviluppo da quelle parti, un territorio in cui l’infrastruttura è fatiscente, spostarsi da casa all’ufficio significa avere a che fare con treni che si guastano anche due volte al giorno, tutti i giorni, e lavorare da casa vuol dire ovviamente affrontare i limiti di una connessione a internet tutt’altro che affidabile. Eppure, le cose pian piano stanno migliorando, si sta riuscendo a fare qualcosa e Almirante sta soprattutto riuscendo a lavorare per la produzione di videogiochi che rispecchino la cultura e la società delle Filippine, senza limitarsi a scimmiottare gli USA e senza necessariamente lavorare nell’outsourcing, che è molto forte nel suo paese (Secret 6 Games, per esempio, ha lavorato su Uncharted 3), e ovviamente ha i suoi pregi, ma non porta grandi guadagni sul territorio e rinforza la mentalità coloniale.
Samer Abbas è nato in Kuwait e si identifica come musulmano, giordano, palestinese. Ma soprattutto, si identifica come videogiocatore. Da tredicenne, giocava a Super Mario World con il fratello, ma era meno bravo e passava gran parte del tempo come giocatore numero 2, osservando. Comprava e leggeva avidamente riviste straniere per leggere interviste ai suoi eroi, gente come Shigeru Miyamoto e Gunpei Yokoi, “capaci di donare gioia a così tante persone.” Il suo maggior desiderio era quello di seguirne le orme, ma viveva in un paese devastato dalla guerra, dalla povertà, dalla scarsa educazione, e sentiva la necessità di contribuire con qualcosa di utile: lavorare nell’entertainment non pareva appropriato. Decise quindi di studiare ingegneria, ma proprio durante l’ultimo anno di università, incappò in un software educativo che lo aiutò a comprendere concetti d’ingegneria molto complessi in maniera semplice. Si rese quindi conto che i videogiochi non sono solo entertainment inutile e scoprì la sua vocazione. Ma non era così facile.
Cercò di studiare programmazione, ma non era veramente nelle sue corde. Iniziò a cercare collaboratori, ma era difficilissimo trovarne: a parere di tutti, creare videogiochi era impossibile, non c’erano i mezzi per mettere assieme produzioni tripla A e non c’erano i margini per guadagnare a sufficienza. Mancavano dati, informazioni, documentazione, tutto quel che serve per ottenere investimenti. Samer trovò quindi lavoro nella ricerca, nello studio di dati, finalmente iniziò ad avere la sensazione di stare producendo una qualche forma di impatto con i suoi sforzi. Iniziò anche a cercare lavori sul fronte internazionale, ma non c’era verso, e a un certo punto decise anche di abbandonare il proprio impiego per mettersi in proprio, con il supporto della moglie, nonostante fosse incinta. E ancora, niente, niente sbocchi. Poi, però, ha scoperto l’esistenza di un portale per i giochi su web che si proponeva come una sorta di Kongregate arabo, e da lì sono aperte alcune porte. Samer ha continuato a portare avanti i suoi sforzi e il risultato di cui va più orgoglioso è l’organizzazione di Game Zanga, una game jam per il mondo arabo che ha fornito a tanti sviluppatori un punto d’incontro ed espressione in tempi difficili. Nonostante le difficoltà, i limiti della community locale, i problemi legati all’organizzare i viaggi, è riuscito a far funzionare l’evento, garantendo una valvola di sfogo.
“Nel 2012, all’apice della primavera araba, la comunità votò per il tema “Libertà”. Nel 2013, quando le cose andavano veramente male, il tema fu “Perduto”. Nel 2014, “Caos”. Nei weekend di Game Zanga sono stati creati trecentottanta giochi arabi. Ero l’organizzatore. Ne vado orgoglioso.”
Oggi Samer lavora in Play 3arabi, con un ruolo da dirigente, in un settore che deve ancora crescere tantissimo, perché mancano le conoscenze, in tantissimi iniziano progetti e poi li abbandonano. Servono storie di successo nel territorio, per ispirare altri. Samer ha quasi quarant’anni, non si sente ancora di definirsi uno sviluppatore di videogiochi. Forse un giorno potrà farlo. Mentre lo dice, ha lo sguardo visibilmente emozionato. Gli occhi dell’intera sala sudano. È forse il momento emotivamente più forte della giornata. O forse no.
Carlos Rocha è capo e fondatore dello studio colombiano Below the Game. La sua storia personale è quella di una persona che, quando si proponeva ai publisher, si sentiva rispondere che sembrava troppo giovane e troppo latino. Ed è quella di chi ha comunque deciso di lavorare nei videogiochi, mettersi in proprio, rischiare la bancarotta, in un paese – anzi, una città: Bucaramanga – in cui sviluppare giochi è difficile e ancora di più lo è venderli, perché nessuno vuole comprarli. Ha esordito con un piccolo gioco basato sulle parole e il linguaggio, pubblicato su Kongregate, e ha poi sviluppato Palabras de Independencia, che ha sostanzialmente salvato il suo studio. Ed è lui il primo testimone di quanto partecipare alla GDC potrebbe servire a chi si è visto rifiutare il visto. Il successo di quel gioco gli valse un invito alla fiera californiana da parte di un possibile investitore. Quel contatto saltò per un colpo di sfortuna (era bruciata la casa dell’investitore!), ma alla GDC Carlos incontrò Zach Barth di Zachtronics, che lo aiutò a organizzare svariati altri incontri, fino a ottenere un accordo di pubblicazione con un’azienda statunitense. Qualche anno dopo, nel 2018, Carlos è alla GDC ed è quasi pronto a pubblicare due giochi: Haimrik, che era candidato per un premio al South by Southwest, e Cristales, che ha vinto cinque premi alla Game Connection, evento parallelo alla GDC. E intanto continua a lavorare per promuover e aiutare la scena dello sviluppo a Bucaramanga.
Lara Noujaim di Game Cooks è libanese, nata e cresciuta in un paese al centro di mille difficoltà, confinante con Siria, Israele e Palestina. “Dal punto di vista geopolitico”, dice ridacchiando, “non siamo in una situazione molto stabile.” Un paese che lei stessa definisce “in ritardo, come se fossimo ancora nel 2009”. Un paese in cui i videogiochi sono storicamente molto amati, anche come via di fuga e di sfogo per chi si rifugiava dalla guerra, o per lasciarsi alle spalle le cose peggiori. Eppure, solo qualche anno fa, c’erano appena due studi che lavoravano nello sviluppo di videogiochi. Nell’intera regione, eh, mica solo in Libano! Oggi le cose vanno meglio, ma le difficoltà sono state numerose, quelle che ci si può aspettare e che già altri hanno citato: i videogiochi non visti come possibile carriera, l’assenza di corsi di studio, la mancanza di fondi… Eppure, Game Cooks è in attività dal 2011, una storia di successo.
Fra i problemi che Lara sente molto, inevitabilmente, c’è quello della percezione che il mondo ha del suo paese. Nonostante la Rivoluzione del Cedro risalga ormai a tredici anni fa, l’immagine che molti hanno del Libano non sembra cambiare. Un esempio? Homeland, “una serie che prima di vedere questa puntata amavo molto”, ha mostrato il quartiere di Hamra, a Beirut, dipingendolo sostanzialmente come una zona di guerra. “Dopo aver visto una scena del genere, chi mai vorrebbe visitare Beirut?” Poi, però, Noujaim ha mostrato una foto di Hamra Street, un luogo vivo, colorato, pieno di persone, negozi e vita.
“Oggi siamo realmente divisi, e non parlo solo del Medio Oriente. Parlo di tutto il mondo. Penso davvero che sia cruciale, più che mai, avere un linguaggio che unisca persone da tutto il mondo. E penso che quel linguaggio sia il videogioco.”
Matthieu Rabehaja vive in Madagascar e ha fondato Lomay Games nel 2015. Il suo è un altro paese in cui i videogiochi si sono diffusi grazie alla pirateria, con la Polystation (sì, non è un errore di battitura) che ha dominato il settore per anni. I videogiochi originali, semplicemente, erano troppo costosi per un paese in cui la gente vive con tre dollari al giorno. Matthieu e i suoi colleghi volevano sviluppare giochi che raccontassero la loro cultura, ma la scena in cui hanno provato a farlo era (ed è) a dir poco problematica. Si trattava, fino al 2014, di un’impresa sostanzialmente impossibile. Mancava l’educazione, mancavano i soldi e, francamente, mancavano i soldi in tasca ai possibili acquirenti. Le infrastrutture non erano sufficienti e, senza una connessione a internet sufficientemente diffusa, Steam era praticamente inesistente nel paese.
Proprio l’arrivo della connessione ha spalancato le porte. Nel 2015, Rabehaja ha fondato Lomay Games con l’obiettivo di pubblicare il primo videogioco del Madagascar. Ha, di fatto, creato un settore partendo da zero. Per riuscirci, ha dovuto affrontare e risolvere numerose problematiche (dal semplice fatto che saltava di continuo la corrente alla necessità di inventarsi un piano marketing senza avere termini di paragone locali, senza contare che in assenza di internet, beh, la gente non può scaricare il gioco), e molte ancora ce ne sono da gestire, ma nel giro di due anni è riuscito a pubblicare Gazkar, un gioco di guida per smartphone e tablet che propone circuiti veri e auto su licenza che rispecchiano quelle tipicamente utilizzate nel suo paese.
Gazkar è stato sviluppato spendendo meno di diecimila dollari, può vantare sessantacinquemila utenti ed è diventato profittevole appoggiandosi sulla formula free to play, con microtransazioni e inserzioni pubblicitarie sui cartelloni delle strade virtuali. Oggi, Lomay sta per pubblicare un seguito, Gazkar 2, vale a dire il secondo gioco mai pubblicato da uno studio del Madagascar, ed è al lavoro su Dahalo, un ambizioso gioco open world in prima persona, sviluppato con Unreal Engine 4 e pensato per raccontare la storia del Madagascar. Sono riusciti a trasformare i videogiochi in un lavoro e c’è ancora molto da fare, ma il settore sta crescendo, l’interesse aumenta sempre di più.
Rami Ismail, che ha scritto dell’esperienza a questo indirizzo (è una lettura deliziosa e contiene anche l’elenco completo delle domande legate ai visti: è una lettura agghiacciante), ha concluso dicendo che “Il linguaggio dei videogiochi dovrebbe essere universale, ma per molta gente in giro per il mondo, è il mondo stesso a non essere accessibile. Voglio ringraziarvi per aver ascoltato chi ha parlato qui oggi, ma voglio anche chiedervi di impegnarvi, per tutto l’anno, per tutta la vita, ad ascoltare le persone che non sentite, perché non viene permesso loro di parlare.”