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Si fa presto a dire peplum – Un giretto tra le fonti cinematografiche di God of War

Si fa presto a dire peplum – Un giretto tra le fonti cinematografiche di God of War

Vi è mai capitato, ai tempi della scuola, di alzare le mano di riflesso per rispondere a un’interrogazione della quale, in realtà, non conoscete poi così bene le risposte? A me parecchie volte. Per qualche ragione, sono vittima di un bizzarro istinto masochistico che mi infila nei guai. Lo stesso istinto che mi ha fatto abboccare al temino sui peplum proposto da giopep per la cover story di questo mese.

Così, eccomi qua, a cercare di portare a casa la giornata. Alle preso con un argomento di cui non è che sia ‘sto espertone, ché il mio bagaglio di conoscenze si limita ai paragrafi studiati secoli fa sul manuale di cinema “Bordwell & Thompson”, corroborati da una manciata di film accumulati tra l’infanzia, l’adolescenza, l’università e l’era post Il gladiatore, quando il genere dei peplum ha trascorso l’ennesima giovinezza a base di riprese accelerate a scatti “jerky” e mostroni in CG.

Messe le mani avanti, come diceva quel redattore di Cavalli e segugi, non mi resta che sparare a raffica (e che Wikipedia mi assista).

«Te la stacco, quella capoccia!»

Partiamo dicendo che il peplum, più che un genere, è un sottogenere (per quello che significa) dei film storici in costume ambientati tra le pieghe delle antiche civiltà greche e romane. Magari pure nell’Egitto dei faraoni, con capate occasionali in ambito biblico e persino qualche scorribanda appena sotto la caduta dell'Impero romano.

Caratterizzati spesso da ambientazioni fantastiche, mitologiche o leggendarie, e da dinamiche d’azione (sword and sandal), i peplum devono il loro nome al peplo: la tunica di colore bianco molto apprezzata dalle signore greche dei tempi antichi per la sua sobrietà, e dai costumisti di oggi per la facile confezione.

Nell’immaginario del cinefilo di seconda o terza fascia – eccomi! - il termine peplum evoca perlopiù quel boom di film a basso costo realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, negli Stati Uniti ma soprattutto in Italia, nei quali storie, miti e eroi si incrociano o si sovrappongono fino a ingarbugliarsi (è la narrazione popolare, baby). Opere dove dialoghi dal taglio grossolanamente solenne, ripresi anni dopo dal doppiatore di Pegasus, rimbombano nelle bocche di uomini forzuti intenti a combattere mostroni in stop-motion e a salvare fanciulle discinte.

Insomma, si potrebbe pensare ai peplum come alla vena pop dei polpettoni storici, se non fosse che a volte pure i suddetti polpettoni vengono ricondotti più o meno arbitrariamente al genere. Colossal come Ben-Hur, Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz, lo Spartacus di Kubrik o I Dieci comandamenti finiscono spesso nel calderone sword and sandal, anche se forse sarebbe più appropriato classificarli come epiche storiche o religiose. Ma tant’è.

Volendo comunque dare per buona la faccenda, questo farebbe dei peplum uno dei generi più antichi della storia del cinema: il Ben-Hur originale di Sidney Olcott risale al 1907, e l’omonimo film del 2016 è addirittura il quarto remake dopo quello del 1925 diretto da Fred Niblo, e quello del 1959 di William Wyler, con Charlton Heston. Probabilmente il più celebre della risma appena dopo questo:

Di mio, il primo impatto con i peplum - inteso, per esigenze di neutralità tassonomica, come veste - l’ho avuto proprio attraverso i suddetti colossal, da bambino.

Ricordo in particolare che I Dieci comandamenti, girato da Cecil B. DeMille e uscito nel 1956, mi veniva propinato in continuazione da una vecchia zia fanatica religiosa. E alla fine, oh, devo ammettere che aveva un suo fascino.

Sarà che ormai avevo maturato una certa familiarità con l’argomento, ché la medesima parente di cui sopra era solita trascinarmi pure in chiesa, dove le uniche cose ascoltabili o comunque classificabili come vago intrattenimento erano le letture dalla Bibbia. Però, insomma, tutta la tiritera del trovatello che diventa il favorito del faraone, per poi finire a fare il profeta barbuto che scaglia maledizioni e separa le acque, in termini di racconto d’avventura funziona. Lo sa bene Ridley Scott, che di recente ci ha rivenduto la storia di Mosè attraverso il film con Christian Bale.

Superata più o meno indenne l’infanzia, una volta ragazzino e in ragione della mia curiosità verso la mitologia greca (curiosità fomentata tanto da un’enciclopedia che girava per casa, quanto dalla visione alternata di C’era una volta Pollon e de I Cavalieri dello Zodiaco) sono caduto nel tunnel dell’Odissea. Non nell’accezione dell’opera letteraria di Omero, e nemmeno in quella del musical diretto da Beppe Recchia nel 1991, con Andrea Roncato nei panni di Ulisse e quella santa donna di Moana Pozzi nel peplo di Penelope. No. Mi riferisco nello specifico alla serie televisiva prodotta dalla RAI nel 1968, ma evidentemente replicata all’inizio degli anni Novanta. Ricordo bene che la guardavo d’estate, al mare, in pendant con Nadia - Il mistero della pietra azzurra. Pendant che tra l’altro mi portava a mescolare le vicende di Ulisse e soci con quelle degli altlantidei (comunque siamo lì).

Erano tempi in cui le serie TV dalla trama orizzontale passavano dalle nostre parti col nome di sceneggiati, perché le serie TV “vere” erano quelle tipo Magnum, P.I., con le loro stagioni da venti e rotti episodi spalmati nel corso dell’anno negli USA, ma trasmessi dalle nostre parti a nastro, tutti nel giro di un mese. E poi repliche a manetta.

Così, con la debita eccezione di Twin Peaks, il Sandokan del Sollima padre o l’Odissea erano il meglio che passava il convento in termini di serialità live-action. E non fraintendete, quelle robe erano buone per davvero. In particolare le avventure di Ulisse e compagni dirette da Franco Rossi, assieme a Mario Bava e Piero Schivazappa, vantavano dei set azzeccatissimi, una gestione della componente religiosa e mitologica interessante, ricca di sfumature e - non so come dire - vagamente oppiacea (ripeto, la serie è del ‘68, e ci sono di mezzo pure i lotofagi). Senza contare che tutta la parte con Polifemo diretta direttamente da Bava la ricordo davvero fighissima.

Nel 1968, per interpretare il Polifemo televisivo venne scelto il culturista e lottatore canadese Samson Burke. Meno di venticinque anni dopo, invece, Mediaset puntò tutto su Francesco Salvi.

Ovviamente, viste le geografie in ballo, i peplum sono da sempre intrecciati con Italia, e volendo rappresentano anche uno strumento interessante per osservare la rimediazione del mito classico, e più in generale della cultura classica mediterranea, nella contemporaneità.

Un film come Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone e uscito 1914, è considerato uno dei fondamenti del genere. Oltre a essere un autentico colossal per gli standard dell’epoca, è interessante per il modo in cui riesce a incrociare temi della cultura popolare con un tentativo di cinema d’essai e varie istanze politiche. Il soggetto del film rielabora il romanzo a puntate Cartagine in fiamme di Emilio Salgari, e il Salammbô di Gustave Flaubert. Le didascalie sono state curate da Gabriele D’annunzio, mentre l’intera vicenda celebra implicitamente lo sforzo bellico dell’Italia in Libia.

Un manifesto di Cabiria realizzato dall'artista della grafica Luigi Caldanzano.

Addirittura spavaldo in termini di sottotesti è Scipione l’Africano, di Carmine Gallone. Il film, uscito nel 1937 (e che non ho mai visto per intero) racconta le spedizioni contro Cartagine guidate dal proconsole Publio Cornelio Scipione, ed è a tutti gli effetti un’opera di propaganda a favore del fascismo. Non a caso Scipione l’Africano si è aggiudicato la Coppa Mussolini (LVI) alla Mostra internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

Venendo all’osservazione delle possibili fonti cinematografiche di God of War, sono senz’altro più interessanti tutte quelle pellicole pop girate a dozzine tra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, anche e soprattutto in Italia. I “peplum-peplum” che hanno fatto la fortuna del genere. In un clima culturale che non aveva ancora attribuito ai supereroi, perlomeno al cinema, il ruolo di dèi, eroi e semidèi, questi la facevano ancora da padrone per quanto riguarda laggente con grandi poteri e grandi responsabilità. E proprio come succede con gli eroi dei fumetti, anche nel giro dei peplum sono circolati parecchi crossover incredibili.

Pellicole come Le Fatiche di Ercole (Pietro Francisci, 1958), Il colosso di Rodi (diretto da Sergio Leone e uscito nel 1961), o Gli Argonauti (quello del 1963, diretto da Don Chaffey, con gli effetti speciali di Ray Harryhausen) sono forse quelle più misurate, perlomeno nella titolazione.

Ray Harryhausen (1920-2013) è stato uno dei più grandi artisti nel campo dell'animazione a passo uno.

Ben presto le avventure di Ercole, Giasone o Sansone si sono prima alternate e poi mescolate senza soluzione di continuità con eroi creati ad-hoc come Maciste o Ursus (epica, per così dire, la justice league ante-litteram rappresentata in Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli invincibili, del 1964), o con personaggi delle tradizioni folkloriche e letterarie più svariate. Maciste alla corte dello Zar, Ercole alla conquista di Atlantide, Maciste contro il vampiro sono solo alcuni esempi, e nemmeno i più spinti. E volendo si potrebbe continuare per parecchio.

Se poi tiriamo in ballo, che ne so, uno Zorro contro Maciste diretto da Umberto Lenzi nel 1963, è facile capire come anche le barriere temporali non rappresentassero un grosso problema per gli sceneggiatori dell’epoca, fermo restando che noialtri quando ci spariamo le avventure del redivivo Capitan America non siamo poi così diversi dai nostri genitori, eh.

Meanwhile, laggente si lamentano delle derive norrene di God of War.

Perché sì, è pur vero che certi titoli oggi fanno sorridere. Ma ripeto: è assolutamente comune per la cultura popolare mescolare i propri tasselli in tutti i modi possibili per sopravvivere alle mode e ai cambiamenti. A maggior ragione in un periodo come quello successivo alla seconda guerra mondiale, dove le informazioni, e assieme a loro le storie, hanno preso a circolare sempre più in fretta.

Poi, piano piano, il successo dei peplum è andato scemando. I ragazzini dagli anni Settanta in avanti hanno sostituito Ercole o gli argonauti con supereroi, avventurieri e cavalieri Jedi, senza badare troppo al fatto che le avventure intraprese dai loro nuovi eroi erano pressapoco le stesse che circolavano nei miti del passato (ne ho scritto in abbondanza in questo pezzo qui). Eppure, grazie al fortissimo DNA narrativo da cui è composto, il genere non è mai sparito completamente dalla piazza, e in qualche modo è riuscito a far rimbalzare le sue storie anche nelle decadi successive all’età dell’oro.

Di peplum ne sono usciti, magari con minor clamore, anche negli anni Ottanta. Penso a Hercules (1983), di Luigi Cozzi, dove il campione di Tebe è stato interpretato dai muscoli di Lou Ferrigno. Ma soprattutto a Scontro di titani, del 1981, diretto da Desmond Davis, con il già citato Ray Harryhausen agli effetti speciali e un cast all-star composto, tra gli altri, da Laurence Olivier, Maggie Smith e Ursula Andress.

Nei Novanta, di contro, di peplum al cinema se ne sono visti pochi, perché nel frattempo tutti i sandali e le spade si erano trasferiti nel medium popolare dominante, la televisione, accompagnando le serate e i pomeriggi di un sacco di ragazzetti.

«Il jazz parla di futuro!»

La serie TV Hercules, andata in onda tra il 1995 e il 1999, assieme al suo prequel Young Hercules (con uno sbarbato Ryan Gosling nei panni dell’eroe), e soprattutto lo spin-off di menare Xena - Principessa guerriera hanno mantenuto il genere al caldo e in salute in attesi di tempi migliori. Tempi che sono sbocciati all’alba del nuovo millennio grazie al successo de Il gladiatore di Ridley Scott, a cui sono seguiti tutta una serie di film dal taglio epico-storico come Troy e Alexander, entrambi del 2004, o 300, del 2006. Oppure serie TV come Roma o Spartacus, e persino videogiochi: Shadow of Rome e, ovviamente, God of War. A dispetto delle differenze a livello di ambientazioni, taglio e caratterizzazione, il background di Kratos ha diverse cose in comune con quello di Massimo Decimo Meridio.

E poi, come già accaduto in passato, l’epica ha aperto la strada al mito e alle leggende, generando peplum propriamente detti come Scontro tra titani, del 2010, o il suo sequel del 2012, La furia dei titani. Nella risma rientra per un soffio persino King Arthur, del 2004, ambientato al tramonto dell’Impero romano.

Se poi lo chiedete a me, il film che ho trovato più divertente tra quelli del nuovo corso è Hercules: il guerriero del 2014, che condivide con i peplum della golden age un attore super-forzuto nei panni dell’eroe (nientemeno che Dwayne “The Rock” Johnson), e un regista considerato di seconda fascia (Brett Ratner). E, per carità, forse il cinema ispirato alla mitologia greca e romana non assaporerà mai più il successo degli anni Sessanta, dal momento che molti dei suoi motivi sono stati assorbiti da altri altri generi popolari. Ma difficilmente finirà col dileguarsi.

Il film è divertente ma non memorabile, per carità... eppure, l’Ercole di The Rock per me resta il migliore della storia del cinema.

Questo articolo fa parte della Cover Story su God of War, che potete trovare riassunta a questo indirizzo. Come al solito, se acquistate i film segnalati nel pezzo (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando dai seguenti link, una piccola percentuale di quello che spendete andrà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Se volete procedere su Amazon Italia dirigetevi qui, se preferite Amazon UK puntate qui.

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