Creed II riscrive la storia a forza di botte
Se parliamo di Sylvester Stallone, ho fatto tutto all’incontrario.
Ai tempi delle medie, ricordo che i suoi film non mi piacevano, né i Rocky né i Rambo e nemmeno i vari Cobretti e Over the Top. Va detto che lui mi riusciva simpaticissimo, con quella faccia un po’ bastonata e la voce rassicurante di Ferruccio Amendola. Ma per il resto, era tutto un casotto di numeri romani e di repliche su Italia 1 e di tette di Brigitte Nielsen con i capelli a spazzola biondo platino, e cose così.
Che ci volete fare: se non veniva mescolata con un po’ di sovrannaturale o con la fantascienza, l’azione mi annoiava quasi quanto i western. Così, andavo più d’accordo con Ghostbusters, Ritorno al futuro o RoboCop, tanto per dirne tre.
Stallone ho imparato ad apprezzarlo che ero già grandicello: passata la fase fighetta delle videocassette dell’Unità (durante la quale ho comunque incrociato il nostro in un film di Woody Allen), mi sono tolto il taleggio dal naso e ho iniziato a rivalutarlo. Al di là dell’attore, ho scoperto un regista capace e coraggioso, ma soprattutto uno sceneggiatore di ferro, che attraverso i suoi personaggi è riuscito a intercettare quel delicatissimo momento di passaggio tra l’America in crisi energetica di Ford e Carter e quella più ottimista di Ronald Reagan, che recuperava la fiducia verso il futuro tipica degli anni Cinquanta, assieme al fantasma della Guerra Fredda.
Diversamente da cineasti deliberatamente politici, che mettevano le mani tra i nodi della Storia (penso, toh, a Sidney Lumet), Stallone ha sempre preferito il punto di vista di underdog proletari. Di persone che si ammazzano di lavoro dalla mattina alla sera ma nel weekend diventano eroi del ring o della pista da ballo. Di reduci del Vietnam che vogliono soltanto consumare un pasto caldo in santa pace, che se ne fregano della Storia perché la Storia se ne è fregata di loro.
Staying Alive, il primo Rambo o il primo Rocky - che ho avuto il culo di recuperare addirittura in sala, un paio di anni fa – raccontano un’America assai diversa da quella che avvolge i loro stessi sequel, dove i protagonisti eponimi diventano eroi da propaganda reaganiana.
C’è chi parlerebbe di un tradimento ideologico e di scala, se non fosse che - da spettatore - ho sempre avuto la sensazione che a Stallone, più delle ideologie, interessino le persone. E nel 1985, la dimensione popolare degli Stati Uniti, piaccia o meno, era diventata quella dei villoni in stile Dallas, dei camerieri robot e dei vestiti kitsch: roba che un pugile come Rocky, salito sull’ascensore sociale dalla cantina, aveva tutto il diritto di godersi. Eppoi, al di là della cornice e dei cliché, certe sequenze sportive del terzo e del quarto film (diretti oltre che scritti da Stallone) le ricordo pazzesche, fisiche, piene di lividi e liquami.
Passati i lustrini degli anni Ottanta, durante i Novanta Sly ha alternato ruoli da eroe action a qualche commedia, sulla scia del suo “nemicoamico” Schwarzy. Si è rimesso i guantoni un paio di volte, più che altro per allenare, ma tra una cosa e l’altra, non ha trovato l’erede giusto fino a Creed – Nato per combattere.
In questo primo spin-off della serie, scritto e diretto da Ryan Coogler, Rocky torna come mentore del giovane Adonis Johnson (Michael B. Jordan), figlio del suo ex rivale Apollo. Se ripenso a Creed, mi viene in mente un film sudato e violento; con una trama solida, un’azione leggibile e quei piani sequenza che trascinano lo spettatore in mezzo al ring. Un dramma sportivo puro, che è riuscito a impastare le varie anime della saga, aprendole le porte del presente.
In questo suo atteso sequel, Creed II, in uscita oggi nei cinema italiani, la staffetta della regia passa a Steven Caple Jr., mentre la penna torna in mano a Stallone, accompagnato da Juel Taylor. Creed II, diciamolo subito, mi è arrivato con meno potenza rispetto al suo predecessore.
Dal colpo da KO secco, siamo passati a un film che lavora lo spettatore più lentamente, prendendosi i suoi tempi: il giovane Adonis, ormai, non è più un ragazzino, ma un campione che ha qualcosa da perdere sul piano sia competitivo che familiare. Per scuoterlo, ci vuole un nome pesante come quello di Viktor Drago (Florian Munteanu), figlio dell’uomo che ha gli ammazzò il padre e fu rivale storico di Rocky. Dopo la celebre sconfitta del 1985, Ivan (Dolph Lundgren) ha perso tutto quello che aveva da perdere: carriera, fama e soprattutto la moglie Ludmilla (Brigitte Nielsen), che qui si riconferma figura femminile fredda e spietata. Una donna che non ha esitato ad abbandonare figlio e marito per non perdere i proprio privilegi, totalmente antitetica rispetto alla “brava americana” Mary Anne Creed (Phylicia Rashad) e alla compagna di Adonis, Bianca (Tessa Thompson).
Così, mentre a un angolo del ring abbiamo il giovane principe che deve difendere il proprio potere e il suo mentore che ha paura di lasciarlo andare, dall’altro c’è il cane randagio Viktor, che è un puro strumento di vendetta nelle mani del genitore. C’è una tensione dichiaratamente shakespeariana, nel film, che emerge sin dal primo incontro tra i due vecchi campioni. Mentre Rocky è andato avanti con la propria vita, tra qualche strike e qualche palla persa, Ivan è rimasto bloccato nel rimpianto della sua stessa icona. Non si è mai tolto i guantoni rossi e pretende che il figlio lo vendichi.
Con Creed II, Stallone non deve fondare una nuova era, quello è stato già fatto. Il suo compito è semmai quello di recuperare il mito più celebre (e ingombrante) di tutta la serie e accordarlo al nuovo corso, più moderno e realistico.
Per farlo, sceglie di abbassare un po’ il fornello, ridimensionando la posta in gioco sul piano drammatico. E centra l’obiettivo. Pagando forse un po’ sul piano del ritmo, soprattutto durante la parte centrale, ma lo centra. Rielaborando alcuni fra i momenti più iconici della serie e, soprattutto, trasformando il granitico Drago da vendicatore a genitore: forse l’evoluzione della famiglia ucraina è una tra le cose più azzeccate di tutto il film, al punto che non mi dispiacerebbe un secondo spin-off dedicato a loro (e sempre con Lundgren e Munteanu, naturalmente).
Da parte sua, per riscrivere il mito nel presente, Steven Caple Jr. punta su una messa in scena e una fotografia pulitissime, ma per non peccare di eccessivo realismo, le accorda a un bel sottotesto cromatico espresso dal rapporto tra personaggi ed elementi (il ghiaccio non si batte con l’acqua né con altro ghiaccio, ma si scioglie col fuoco eccetera eccetera). Poi, come ho detto, le sequenze sportive non mi hanno coinvolto come quelle del primo Creed, ma funzionano (e magari è un problema mio, oh), così come funzionano alla grande le musiche e i classici “training montage”, qui meno sguaiati rispetto alla famosa sequenza delle motorette.
Creed II, insomma, è un sequel contestualmente riflessivo, che trattiene un po’ di forza per accompagnare l’arco narrativo di tutti i personaggi verso l’equilibrio. E alla fine, pure tra qualche rallentamento, ce la fa.
Ho visto Creed II in anteprima, doppiato in italiano, grazie a una proiezione stampa. Segnalo che esiste un videogioco in VR basato sui personaggi del film, Creed: Rise to Glory, che ho recensito qualche mese fa.