Racconti dall'ospizio #219: Devil May Cry 2, il figlio di mezzo e Wesley Snipes
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Mi è capitato spesso di avvicinare alcune saghe entrando a gamba tesa nel bel mezzo delle trilogie, per poi scoprire le origini e appassionarmi ai mondi in cui erano incastonate. Per esempio ho giocato prima Jak II: Renegade, per poi scoprire il primo Jak and Daxter e concludere col terzo. Con Prince of Persia, ho avvicinato Spirito Guerriero e l’imbarazzante doppiaggio di Garko prima e quel capolavoro de Le Sabbie del Tempo poi. Stessa situazione con Devil May Cry, di cui ho avvicinato prima il secondo episodio, per togliermi il dente e godere della vera libidine con gli altri. Questo, almeno, è quello che bisogna dire a voce alta, perché a me Devil May Cry 2 è piaciuto. E un fottio, pure.
Forse è capitato nel momento giusto, quando tirava aria di Matrix, Keanu Reeves e compagni dettavano la moda, tutti seriosi, coi cappotti lunghi e la manata in faccia facile. C’era anche Buffy l’ammazzavampiri in quel periodo, ché da noi la serie è arrivata dopo. A lei si deve il fatto di aver reso il bestiario di Halloween un po’ più pop e di aver sdoganato la manata in faccia facile pure ai mostri. Diciamo insomma che, inconsapevolemente, Sarah Michelle Gellar mi ha fatto da fata madrina durante la scoperta di questo gioco. Ad ogni modo, pur non conoscendo l’idea originale di quel matto di Kamiya, a me Devil May Cry 2 non fece affatto schifo.
Ricordo di averlo scoperto a casa di Ruggiero, quello di Final Fantasy VIII, e di essermi infogato per questo gioco a un livello che solo Goku era riuscito a farmi raggiungere. Di avere nascosto l’unica copia rimasta in vendita alla Upim dietro a venti copie di un gioco orrendo, di quelli da cestone tutto a cinque euro, in attesa di raggranellare la pecunia necessaria per comprarlo. Ricordo una situazione surreale mentre ci giocavo con un amico: io che gli intimo di trasformarsi in diavolo e sua madre, supercredente e lì nei paraggi, che per poco non chiama gli inquisitori. Insomma, solo belle memorie, associate a questo gioco.
Devil May Cry 2 è sostanzialmente un gioco su Blade, ma con un Wesley Snipes bianco. Rispetto al titolo di esordio, il protagonista, Dante, che dovrebbe farne una e dovrebbe farne tante, non è scanzonato e sbruffone ma incazzato e di poche parole, come i liberi professionisti a partita Iva. Va in giro per il gioco a menare fendenti e a crivellare di pallottole i demoni perché qualcuno ha lasciato la porta dell’Inferno aperta e ha iniziato a sbrinare. Però lo fa con stile, correndo sui muri come in Matrix, trasformandosi in super sayan e sparando a più nemici contemporaneamente senza guardare.
Tutta una serie di skill da curriculum vitae di primo livello, che sbilanciavano il gioco in maniera indegna ma perfettamente tollerata da un ragazzino in cerca di un nuovo cazzutissimo supereroe in cui immedesimarsi.
Questa prepotenza ostentata con la quale Dante assoggettava i nemici era il motivo per cui ho consumato quel gioco. Ero infatti in quella fase dell’esistenza umana in cui inizi a intravedere la fregatura di vivere e, anche se la partita Iva ancora non ce l’avevo, c’erano già i presupposti per essere girati di coglioni. E quindi via a scaricare sui demoni la rabbia generazionale. E quando ne avevo abbastanza di Dante, c’era comunque Lucia, l’altro personaggio giocabile, che aveva i pugni nelle mani perché si lamentava di esser nata senza previa richiesta.
Per i più frustrati, c’era Bloody Palace, che era molto distensivo. Altro non è che una versione dell’arena della Corrida di Corrado in cui è lecito menare il pubblico che ti fischia. Salendo progressivamente di livello, la mattanza si faceva più intensa. Potevi starci quanto ti pare, ne uscivi che eri zen come un monaco tibetano. Sta di fatto che, in quel piattume di spadate e smitragliate, ci sguazzavo.
E mi ci son divertito a un punto tale da diventare fervente sostenitori di questi figli di mezzo maltrattati. Questi giochi disgraziati e un po’ pesce che devono vedersela con i capitoli di esordio e che spianano la strada all’uscita in gran carriera del terzo atto redentore, che arriva, si cucca tutto il divertimento dopo che gli hai creato l’ambiente ideale intorno e se ne va senza manco dire grazie. Anche i titoli di mezzo hanno dei sentimenti, raga, e fanno il lavoro sporco di sperimentare. Si, perché poi indovinate cosa si poteva fare nel terzo capitolo, ma meglio? Correre sui muri, sparare a cento teste contemporaneamente e via discorrendo. Ecco. E poi vogliamo dire che Itsuno ha salvato in corner un gioco altrimenti bello che morto?
Ecco. Diciamo le cose come stanno. Diciamo anche che, zitto zitto, il gioco ha venduto quasi due milioni di copie, che ai tempi non erano pistacchi, e che quindi di pirla come me, là fuori, ce ne sono parecchi. Quindi, scusate ma io oso, e dico che Devil May Cry 2 è un gioco generazionale, che ci ha fatti sentire dei duri, che è un bellissimo tributo a Blade e che preferisco l’outfit sobrio di questo capitolo al Dante in cappotto e petto nudo del terzo episodio. Sì, ci è servito davvero poco per gasarci, embè? Ci andava bene così. Non avevamo cazzi di farci le risate, eravamo arrabbiati.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.