Racconti dall'ospizio #1 - God Hand: ma non pensate a Maradona!
Racconti dall'ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Figlio illegittimo e lisergico di Buronson, Hokuto no Ken in salsa demenziale, erede designato del filone dei picchiaduro a scorrimento, FinalFight del nuovo millennio: potrei passare le ore a definire GodHand, un gioco che semplicemente adoro. Pubblicato per la prima volta un lustro fa, questo gran bel pezzo di software ha rappresentato l'atto conclusivo della tanto breve quanto sfolgorante carriera di Clover Studio, un team dotato di innegabili estro e fantasia, caratteristiche evidentemente non troppo apprezzate dal grande pubblico. Capcom decise di staccare la spina al progetto a causa delle vendite modeste di questo e dei precedenti titoli da loro realizzati, una decisione a dir poco miope e frettolosa.
Quando GodHand è comparso su PlayStation Store non ho saputo resistergli, nonostante la copia originale del gioco sia sempre lì sulla mensola, esposta a mo' di reliquia da venerare più volte al giorno. Il mio è stato un atto dovuto, un gesto figlio dell'idolatria che nutro nei confronti di Shinji Mikami, principale responsabile di questo cult, e dettato dalla curiosità di vedere la qualità dell'emulazione proposta da Sony. È vero, sotto un certo punto di vista mi sento preso per i fondelli: ai tempi della presentazione della console, la retrocompatibilità doveva essere uno dei punti di forza dell'hardware e non una feature da pagare a parte. Pazienza, non ha alcun senso ribadire l'ovvio, per queste e altre polemiche c'è tutto lo spazio del mondo sul forum.
L'universo di GodHandè conturbante: è un delirio post-atomico di chihuahua velenosi, punk sgraziati che lanciano la cresta come un proiettile, demoni corpulenti terribilmente goffi, femme fatale in attillati abiti di latex, gorilla emuli di Hulk Hogan, cloni lillipuziani dei Power Rangers e mille altre follie. È un mondo perennemente sopra le righe, un manga che non si prende mai sul serio, fiero di essere ironico e demenziale. Il povero Gene, protagonista della storia, sembrerebbe quasi una persona normale, se non fosse dotato di un potere divino e costretto alla pugna da una fanciulla all'apparenza innocua, ma con un'anima sadica. La sciagurata risponde al nome di Olivia e i suoi metodi sono piuttosto persuasivi... altro non vi dirò perché rischierei di rovinarvi il piacere della scoperta.
Il sistema di combattimento di GodHand è a dir poco superlativo, è un mix perfetto di tecnica e button-mashing dove i riflessi sono messi perennemente a dura prova. La mancanza della parata costringe ad affidarsi alle schivate, movimenti repentini da eseguire stressando a più non posso lo stick analogico destro, in una sorta di strana danza rituale. Gene è un ballerino perennemente sulle punte, veloce, agile come un felino, ricorda Muhammad Ali: vola come una farfalla, punge come un'ape. Senza bisogno della troll-face, scatena crisi isteriche negli avversari, che progressivamente perdono le staffe, diventando letali quando l'esaurimento nervoso è ormai prossimo. In GodHand il livello di difficoltà cambia in continuazione, si modifica in base alle performance del giocatore, in modo da garantire un tasso di sfida sempre elevatissimo. Al diavolo le mammolette, i laser game monotasto e l'asilo della giocabilità: qui non si scherza, si richiede impegno e dedizione.
A suo tempo ho passato ore intere nel cercare di plasmare il set di mosse, alla continua ricerca della sequenza di combo veloce e letale, in grado di non lasciare scampo agli avversari. Oggi sono caduto nuovamente nel gorgo, a dimostrazione di come gli anni passati non abbiano minimamente intaccato la freschezza del gioco: la quantità di colpi a disposizione è smisurata, le combinazioni possibili sono innumerevoli, calcolarle è un'impresa. GodHand è uno dei quei titoli all'apparenza dotati di un concept semplice, basilare, che svela la sua complessità lentamente. È un ottovolante di soprese, un continuo saliscendi di trovate geniali. Eppure qualcuno a suo tempo non apprezzò nulla di quanto descritto, bocciando il figlio di Mikami con una stroncatura roboante, che generò polemiche feroci. Chris Roper, dalle pagine di IGN, lanciò l'anatema, marchiò a fuoco GodHand con un tre secco, una valutazione a dir poco insensata. Qualche anno più tardi, il vile confessò di aver visto a malapena il gioco per qualche minuto prima della stesura di quella raccapricciante recensione, un atteggiamento deplorevole dal punto di vista professionale. Chris, mi raccomando: non trascurare mai il tuo vero lavoro, qualunque esso sia. Con affetto. Ma anche senza.
Sotto il profilo tecnico, GodHand alterna affascinanti luci e ombre, quasi volesse spingere il giocatore a concentrarsi più sull'aspetto ludico che su quello visivo. Texture non sempre all'altezza e inquadrature piuttosto confusionare sono perfettamente bilanciate da animazioni a dir poco superlative, Gene e soci si muovono sullo schermo con una fluidità che ha del maniacale. La qualità dell'emulazione non ha deluso le mie aspettative: una volta selezionato il gioco, la console viene riavviata e dopo un'attesa di qualche secondo è possibile iniziare a menar le mani. Sono presenti alcuni filtri grafici che permettono di ammorbidire l'immagine, eliminando le asperità senza affaticare troppo la vista, e in linea generale si vedono perfettamente i benefici di un segnale video digitale rispetto a quello ormai superato della PlayStation 2. L'unico vero difetto è la mancanza di un vero manuale elettronico, una semplice paginetta a schermo con il riassunto dei comandi mi pare un po' poco. Concludo con una breve analisi del comparto audio, semplicemente strepitoso per quanto riguarda le musiche, che pescano a piene mani dai generi rock, surf, blues e swing. Il doppiaggio è così demenziale che è impossibile non ridere a crepapelle di fronte allo schermo.
Sono convinto che a distanza di anni GodHand sia ancora una pietra miliare dei picchiaduro a scorrimento, una tappa fondamentale per chi ama visceralmente questo genere. E paradossalmente è un bene che Capcom non abbia mai voluto realizzarne un seguito, il rischio di rovinare questo classico è troppo alto. Solo Platinum Games, nata dalle ceneri di Clover Studio, ha le competenze per poterlo fare, gli altri non sono all'altezza del compito.