Post Mortem #38: Tutta l'ansia del viaggio da Killzone a Horizon: Zero Dawn
Una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, sulla loro esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.
Il momento in cui le recensioni di un videogioco appaiono tutte assieme e vanno a sancire una prima media voto su Metacritic è sempre agghiacciante. Lo riassume bene Angie Smets, produttrice esecutiva di Guerrilla Games, in apertura del suo intervento alla Nordic Game Conference 2018, parlando di quanto ama sviluppare giochi e quanto odia quel momento. Nel caso di Horizon: Zero Dawn, si è verificato dieci giorni prima dell'uscita; erano le nove del mattino di un lunedì e, come sempre, la situazione era di totale impotenza: dopo sette anni di lavoro, tutto quello che puoi fare è distruggere il tasto F5 e sperare in bene. E, beh, è andata bene.
Smets lavora nel settore dei videogiochi da diciassette anni. La sua passione ha avuto inizio con Pong – c'era solo quello – ma è esplosa sul serio quando sua madre ha acquistato un pezzo di tecnologia d'avanguardia: il Philips Videopac! Per fortuna, mamma era essa stessa amante dei videogiochi e ha alimentato la passione di Angie comprando le nuove macchine mano a mano che uscivano. Fast forward di qualche anno e Smets lavora nel settore: dopo un po' di esperienza su macchine avare di soddisfazioni (che so, il CD-I), si unisce allo studio Guerrilla Games, in procinto di mettersi al lavoro su un gioco per PlayStation 2. All'epoca, in Guerrilla ci sono appena venti persone, senza reale esperienza di sviluppo su PS2, ma vengono mosse da ingenuità e un pizzico di arroganza: “Se gli altri riescono a sviluppare su quella console, perché non dovremmo farcela noi?” E in fondo, dice Smets, questo atteggiamento sarà probabilmente importante per la riuscita del progetto.
Guerrilla Games andrà avanti per dieci anni a lavorare sulla serie Killzone, ottenendo un grande successo e finendo nel frattempo per essere acquisita da Sony. Alla lunga, però, verrà fuori la stanchezza: stiamo parlando di uno studio in cui tutti i membri senior sono lì sostanzialmente dall'inizio, gente che per un decennio non ha fatto altro che lavorare su sparatutto in prima persona cupi, deprimenti, coi nemici neri con gli occhi rossi. E che palle! Infatti, un giorno, durante una riunione della dirigenza, il managing director Hermen Hulst pone la domanda fatale: “Quanti altri Killzone possiamo fare?”
La questione era seria. Continuare a lavorare su quella serie era il modo migliore per sfruttare il talento a disposizione? Lo studio era in grado di fare anche altro? Oltretutto, non è che Killzone aveva raggiunto il suo limite massimo? Nessun episodio della serie aveva mai superato i quattro milioni di copie vendute e, di fatto, il franchise era sì profittevole, ma neanche poi troppo, visti i costi di produzione. Era il caso di andare avanti o di provare a fare qualcosa di nuovo? E, anche volendo differenziare, bisognava rimanere nello stesso filone?
Visto il pregresso, creare un nuovo FPS sarebbe forse stata una scelta logica, ma il settore era “vagamente” saturo, con qualcosa come trenta nuovi sparatutto in uscita nell'anno solare. Senza contare che la scena era dominata da Call of Duty e di lì a poco Electronic Arts avrebbe rilanciato con Battlefield. Forse era meglio provare con qualcosa di diverso. Ma poteva essere una decisione non banale: dopo dieci anni di FPS, approcciare un genere diverso è sicuramente stimolante, ma fa anche un po' paura. E se non fossimo in grado? E se fosse un errore?
In Guerrilla Games si misero allora a ragionare su possibili idee, passarono in rassegna le nuove IP recenti che avevano ottenuto almeno 90 di Metacritic e piazzato tre milioni di copie vendute, cercarono di tirare fuori proposte per giochi dai grandi valori di produzione, con una forte componente narrativa, senza escludere nessun genere. Saltarono fuori quaranta pitch e, nonostante non avessero assolutamente chiesto di proporre concept diversi da Killzone, la cosa avvenne spontaneamente: mondi colorati, ricchi di vegetazione, luminosi… l'esatto opposto di ciò che lo studio aveva fatto per dieci anni. Fra tutte le proposte, spiccava in particolare quella per un gioco intitolato Horizon. Forse era la scelta giusta? Forse no.
Proprio in quel periodo, Ninja Theory se ne saltò fuori con Enslaved: Odyssey to the West. Angie ricevette da un collega un SMS farcito di imprecazioni e link ai bozzetti preparatori del gioco di Ninja Theory: protagonista donna, robot giganti, scenario postapocalittico con la natura che ha ripreso possesso del pianeta… sembrava veramente lo stesso gioco. Improvvisamente, iniziarono a dubitare che Horizon fosse il progetto giusto. Oltretutto, stavano sviluppando Killzone 3, una faticaccia, anche per il supporto a PlayStation Move e al 3D, quindi decisero di mettere in pausa il lavoro sulla nuova IP. Nel frattempo, Enslaved arrivò nei negozi, non ottenne un gran successo e, comunque, era un gioco molto diverso da come si immaginavano Horizon. Però, il timore di stare sbagliando, ormai, era forte.
Decisero quindi di costruirsi una rete di salvataggio, lavorando contemporaneamente su due nuove IP, una delle quali sarebbe stata meno ambiziosa, più vicina a ciò che erano certi di saper fare. Serviva però tempo. Come ottenerlo? Sviluppando un ultimo Killzone per il lancio di PlayStation 4. Guerrilla Games si divise quindi fra due team: uno minuscolo, di quindici persone, al lavoro sullo sviluppo di nuove IP, e l'altro, da cento e oltre, impegnato su Killzone: Shadow Fall. Dopo un paio di mesi, ci fu l'occasione di proporre per la prima volta quanto ideato al meeting annuale dei Sony Worldwide Studios. I vari studi di proprietà Sony, infatti, pur lavorando in maniera indipendente e ciascuno alla sua maniera, hanno modo di condividere conoscenze e idee, per esempio anche con questi incontri annuali.
Dei rappresentanti di Guerrilla volarono quindi negli USA e mostrarono i due progetti possibili. Uno si intitolava Dark Science ed era sostanzialmente un gioco di mazzate ambientato in un futuro bladerunneriano. Il prototipo, mostrato in azione da Smets durante la conferenza, pone al centro dell'azione un tizio vestito da detective che si muove lungo un corridoio e combatte con dei mostri, sradica un termosifone per menarli e viene scagliato attraverso un muro, il tutto accompagnato dalle note di Stayin' Alive. Anche riguardando il video, Smets è molto contenta che Guerrilla non abbia portato avanti quel progetto.
L'altra proposta, ovviamente, era Horizon, presentato con il classico trailer “concettuale” che monta assieme brani di altri film o videogiochi, unendo elementi creati per l'occasione. Il trailer, molto bello, evocativo e – tutto sommato – vicino a quello che sarebbe poi stato il gioco vero e proprio, colpì a fondo. Il feedback ricevuto includeva, ovviamente, dei dubbi, quelli prevedibili. L'open world era un genere nuovo, per Guerrilla Games: ne sarebbero stati in grado? L'engine di Killzone, impostato su giochi in prima persona molto lineari, sarebbe stato adatto? Ma il pitch generò sincero entusiasmo. A quel punto, venne fatto un sondaggio a livello aziendale, chiedendo a tutti di scegliere fra i due possibili progetti in base a una serie criteri. Secondo praticamente tutti, Dark Science era più adatto alla tecnologia di Guerrilla, più vicino alle loro competenze preesistenti e, francamente, si trattava di un progetto meno rischioso. Ma Horizon era quello che tutti volevano fare. E ogni tanto bisogna dare retta alla passione.
Nello sviluppare un videogioco, dice Smets, si parte sempre con un processo creativo “a cono”, iniziando a buttare lì idee a valanga per poi smistare, scremare e giungere al succo. Quando stai progettando una nuova IP, stai provando a fare cose per te nuove e ti stai lanciando nel tuo primo open world, il cono si fa smisurato. Il punto di partenza, comunque, furono i dinosauri robotici, assemblati fin dai primi prototipi nel 2011. I primi tentativi non andavano bene, il design era troppo “insettoide”, ma la svolta arrivò quando idearono il Watcher, perché aveva una figura e dei movimenti che potevano risultare gradevoli, un comportamento animalesco e familiare, istintivamente leggibile per il parallelo con gli animali veri. Fra l'altro, nota a margine, in quel prototipo, mostrato da Smets durante il suo intervento, si poteva giocare in cooperativa. Un altro importante punto di svolta nel lavoro sui prototipi fu quando riuscirono a far funzionare in maniera convincente le dinamiche di branco delle creature robotiche.
Oltre ai dinosauri meccanici, comunque, un pilastro fondamentale del gioco era quello dell'ambientazione postapocalittica “naturalistica”, non proprio un ambito su cui Guerrilla Games poteva sentirsi ferrata. Erano bravissimi a creare giochi in cui si distruggevano palazzi, ma qua si andava in tutt'altra direzione. Il team artistico si fece quindi una cultura enorme di documentari della BBC, per provare a cogliere quel metodo di spettacolarizzazione della bellezza che fa risultare sempre tutto splendido, anche nelle giornate più brutte. Inoltre, fin dal concept iniziale erano previste le città popolate da persone, anche se l'idea era di mettere assieme qualcosa di ben più complesso rispetto a quanto si vede nel gioco finito, con veramente tanti personaggi non giocanti e tutti i sistemi da ideare per le relazioni fra di loro, i meccanismi di dialogo, il sistema economico… Inoltre, venne portato avanti anche tutto un lavoro di studio con antropologi per ideare e sviluppare a dovere le varie tribù, che produsse una bibbia da centinaia di pagine su usi, costumi, religioni, simboli.
Dopo due anni di lavoro, ci fu un nuovo incontro con Sony, per fare il punto sul progetto. Del resto, mancavano sei mesi al termine dello sviluppo di Killzone: Shadow Fall e si avvicinava quindi il momento in cui il team principale avrebbe dovuto “spostarsi” su Horizon. I rappresentanti di Guerrilla andarono da Sony belli convinti… e si presero una bella dose di schiaffi (metaforici, s'intende). Il gioco era interessante, probabilmente adatto all'utenza di PlayStation 4 e promettente anche per come si sarebbe inserito nel portfolio di Sony, ma allo stesso tempo non sembrava in grado di accalappiare un pubblico sufficientemente ampio e c'era il timore che fosse troppo ambizioso, troppo complesso, forse irrealizzabile.
In Guerrilla non si aspettavano una risposta del genere e si resero conto di non essere stati bravi a rendere appetibile il loro progetto. Fu però uno schiaffo utile, perché diede loro la spinta giusta per mettere le cose a posto. Decisero di provare a sottoporre il concept a più gente, aprendosi ai focus test, prepararono i materiali assieme a Sony e si misero in gioco, con tutti i timori del caso: e se fosse andata male? La risposta fu interessante: il concept, i robot, l'ambientazione naturale, la contrapposizione fra tecnologia e tribù primitive piacevano, ma la narrazione era poco chiara e i robot non intimorivano, non davano l'idea di essere pericolosi. Fu il momento di rimboccarsi le maniche.
Venne ingaggiato un nuovo team di scrittori, fra cui John Gonzalez, che aveva grande esperienza di open world, e si misero al lavoro per rendere più minacciosi i robot. Ma c'era molto altro da sistemare. La grafica non rendeva giustizia all'immaginario visibile nei lavori di concept art, quindi tornarono a disegnare le armi per ottenere qualcosa di più vicino alle idee di partenza. L'idea di una protagonista donna e con quel tipo di caratterizzazione piaceva, ma il personaggio era troppo giovane, aveva un'aria da principessina Disney. Coinvolsero allora alcuni artisti esterni allo studio e riuscirono a tirar fuori una Alloy meno “glamour” e più ruvida, unendo il lavoro di più persone per darle vita.
L'idea era di avere pronta per il 2014 una “vertical slice” corposa, una porzione di gioco da due ore molto vicina, nella sostanza, a come sarebbe stato il gioco completo. Ma stavano ancora facendo fatica a mettere assieme il progetto, si avvicinava il momento di coinvolgere il resto dello studio ed entrare in piena produzione… come fare? Decisero di ridurre l'ambizione, ridurre la densità del mondo di gioco, razionalizzare la quantità di “cose” da spargere in giro per la mappa e accettare qualche compromesso. La mappa che avevano pianificato aveva delle dimensioni mostruose, palesemente fuori misura: a malincuore, la ridussero tantissimo, sulla base della “densità” che potevano permettersi, e si resero poi conto che non bastava ancora, dovettero tagliarla ulteriormente a metà.
Venne completamente rivoluzionata anche la storia. Per rendere più minacciosi i robot, decisero che gli umani non erano assolutamente riusciti ad addomesticarli. Eliminarono i cavalli, presenti in tutti i prototipi. Decisero che Alloy doveva essere una figura speciale, l'unica al mondo in grado di interagire coi robot in maniera specifica e domarli. Insomma, rivoluzionarono tutto, in termini di world building e narrazione, rispetto ai prototipi su cui avevano lavorato per anni. Non fu facile, ci furono parecchi contrasti, gente che si chiedeva cosa cacchio volesse all'improvviso 'sto direttore narrativo, ma alla fine vennero prese le decisioni giuste.
Non riuscirono a mettere assieme il “vertical slice” da due ore, ma assemblarono una demo da quindici minuti in tempo per l'E3 2015. Dopo cinque anni di lavoro, finalmente avrebbero mostrato al mondo la loro creatura. La demo era forzatamente scriptatissima, come quasi sempre accade: era tutto estremamente guidato, al punto che solo tre persone in tutto lo studio erano in grado di giocarci. La tensione era alle stelle: e se la gente vede i dinosauri robot e pensa che siano una cretinata? Per fortuna è andato tutto bene, un anno dopo hanno messo il gioco in mano al pubblico dell'E3 e ancora ha funzionato tutto alla grande, con un'ottima accoglienza.
Nel 2016 si è passati alla fase di playtesting del gioco completo. Venti persone, per cinque giorni, hanno assaporato l'intero Horizon: Zero Dawn e sono state seguite dal classico ambaradan di telemetrie, domande, analytics. I risultati? Brutali. Il gioco veniva valutato come non bilanciato, troppo difficile, pieno di bug, con meccaniche non divertenti. E allora di nuovo a rimboccarsi le maniche, eseguendo nuove sessioni di playtesting ogni due settimane, sistemando i problemi, seguendo il feedback e migliorando sempre più il gioco, fino all'ultimo momento, fino alla fase gold.
Dopo sette anni dalla concezione originale, Horizon: Zero Dawn è arrivato nei negozi, ha convinto la critica e ha surclassato Killzone, piazzando sette milioni e seicentomila copie in un anno. L'ha fatto, sottolinea Smets, con una protagonista donna. In Guerrilla Games non hanno mai dubitato della scelta di puntare su Aloy, ma è incredibile quanta gente esterna allo studio, negli anni, sostenesse che il gioco non avrebbe venduto bene per quel motivo. In questo senso, il successo del gioco è “utile” anche perché può dare fiducia a chi vuole fare qualcosa di diverso. Certo, bisogna stare attenti, pianificare: impiegare sette anni per sviluppare un gioco, puntando tutto su quel progetto, non è, forse, la strategia più saggia possibile. Se il grosso del tuo studio sta, nel frattempo, tirando avanti la carretta con un Killzone, beh, aiuta, ma è comunque un grosso rischio. D'altro canto, avere un team realmente innamorato del progetto dà una grossa mano, così come è importante avere il coraggio di abbracciare le opinioni e le prospettive che arrivano dall'esterno. Anche questa è una lezione impartita da Aloy.
Se volete leggere la lunga intervista che Angie Smets mi ha rilasciato dopo il suo intervento sul palco della Nordic Game Conference, la trovate a questo indirizzo.