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Cinereietti #1 - Sono la bella creatura che vive in questa casa

Cinereietti è lo spazio dedicato a chi vuole difendere testardamente l'indifendibile o quantomeno l'indifeso. Film bistrattati da critica e/o pubblico, eccessivamente criticati, presi a pesci in faccia da gente che magari ha pure ragione... ma magari no. È una rubrica all'insegna del bicchiere mezzo pieno e del "Non avete capito niente, ora ve lo spiego io". Insomma, è la cassa di legno su cui salire per predicare col megafono in mezzo al parco.

Dopo l’esordio col surreale The Blackcoat's Daughter, Oz Perkins, figlio del ben più noto Anthony, marca nuovamente il suo territorio, proponendoci una pellicola austera, barocca, intrisa di malinconia e inquietudine. I Am the Pretty Thing That Lives in the House tradotto col meno elegante, ma quantomeno decoroso, Sono la bella creatura che vive in questa casa, è incentrato sulle vicissitudini di Judy, un’infermiera timida e insicura interpretata dalla fascinosa ed eclettica Ruth Wilson. L'attrice inglese, nota soprattutto per le sue mefistofeliche performance, riesce qui a riscriversi totalmente, mettendo in scena - e tenendola in piedi per l'intera pellicola - una fragilità emozionale davvero degna di plauso.

Immobile e silenziosa.

Assunta come badante di una vecchia scrittrice di libri horror, Iris Blum, la ragazza si ritroverà a lavorare in una casa "congelata" ai primi del '900, in mezzo a un verdissimo nulla. L’insistenza della proprietaria nel chiamare Polly la giovane infermiera, è solo il primo sibilo di una serpe emotiva, pronta a insinuarsi e intaccare la sanità mentale della protagonista. Con questa manciata di note, Perkins è riuscito a creare una melodia macabra e seducente, che vive e raggela grazie a quello non mostra, e pone l'accento su interminabili e logoranti inquadrature fisse.

Prodotto da una Netflix sempre più aggressiva e lungimirante, l'opera di Perkins mette subito le carte in tavola, proponendo una sceneggiatura quasi didascalica e un incedere narrativo di una lentezza esasperante. Per quanto l'impronta del regista sia autoriale e coraggiosa, la sua scelta taglierà inesorabilmente fuori una generosa fetta di pubblico, che si allontanerà indispettito dal ritmo "subacqueo" del film.

Una delle innumerevoli immagini statiche che rappresentano l'estetica del film.

Etichettato come thriller, la pellicola rifugge ogni catalogazione, spaziando dal dramma introspettivo all'opera impressionista. Sulla scia di capisaldi come The Turn of the Screw (Giro di Vite di Henry James), Perkins ammanta la sua creatura di un'aura vittoriana, austera e claustrofobica, cristallizzata nei primi piani degli attori e diluita da un incedere volutamente bradipo. È facile cedere alla noia approcciandosi con aspettative errate ad I Am the Pretty Thing That Lives in the House: lo spettatore deve essere consapevole delle intenzioni del regista, che spinge il minimalismo visivo della sua opera fino ai limiti di una slideshow a tinte fosche.

Ruth Wilson riesce a sorreggere da sola l'intera pellicola.

Privo di piani sequenza, girato per il 99% del tempo in interni e ostinatamente inchiodato a lunghe inquadrature statiche, il film, senza esagerazioni, è una specie di visual novel dal sapore occidentale. La natura didascalica della narrazione è messa in risalto anche dai monologhi della protagonista, che ci parla direttamente come fossimo un suo invisibile diario. Judy ci mette a conoscenza delle sue impressioni, dei suoi timori, e gioca "inconsapevolmente" con la quarta parete, anticipando - spiazzandoci - eventi cui assisteremo solo in seguito.

A tenere in piedi l'intera baracca è Ruth Wilson: con quella sua bellezza puntuta e luciferina ci ha spesso abituato a ruoli ambigui e sensuali. Qui, invece, mostra un fascino sbattuto e stanco, una recitazione vivida ma rassegnata, con guizzi di assoluta maestria nei momenti di tensione e paura: è chiaramente d'obbligo la visione in lingua originale. Con una fotografia e una regia che praticamente si sovrappongono, il film alterna notte e giorno con un gusto estetico minimale e algido. Il nero impalpabile e il marrone terroso dei momenti bui si alternano ai bianchi sparatissimi e quasi onirici delle scene illuminate, in un saliscendi sempre più spossante, per noi quanto per la protagonista.

I Am the Pretty Thing That Lives in the House è un'opera acerba, lenta, forse anche un po' presuntuosa e autocompiaciuta nel suo voler essere "diversa" a tutti i costi. Nonostante ciò, Perkins ci ricorda ancora una volta come il vero, autentico orrore (così come la gioia), non si palesi tanto in un evento in sé, quanto nel carico emozionale che lo ha preceduto.