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Il Milano Game Festival val bene una messa

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La prendo alla larga: durante i primi anni Novanta, ero un ragazzino in fissa col C64, l’Amiga e le riviste di giochini, e con gli amichetti di scuola, una volta all’anno, si partiva in treno da Como, quasi sempre a settembre, quasi sempre di domenica, per andare allo Smau o al SIM HI-FI: fiere meneghine dedicate all’elettronica e a tutto quel che intersecava, videogiochi compresi. Il clima era chiassoso, la musica sparata: si provavano cartucce in anteprima, cabinati (ricordo un glorioso Atomic Robo-Kid), avventure grafiche su PC 486 che non ci potevamo permettere e cose così. Poi, naturalmente, c’erano in giro i redattori di Zzap!, TGM o K: ragazzini poco più grandi di noi, qualche volta addirittura coetanei, ma già in odore di santità.

Ora, non mi spingerei a dire che nelle suddette fiere i videogiochi avessero un ruolo marginale, perché in fondo trascinavano fuori di casa un buon numero di visitatori; tuttavia venivano inscritti in un contesto tecnologico e celebrati soprattutto sul piano della tecnica, piuttosto che per i contenuti. Oggi, in Italia, lo spirito di quelle manifestazioni è stato ereditato - nel bene e nel male, e con tutte le differenze del caso - dalla Milan Games Week e consorelle varie, che condividono con i vecchi Smau spazi e target, sia sul piano anagrafico che di approccio al medium.

Qualche giorno fa, con parecchi anni in più sul groppone, ho parcheggiato la macchina a fianco dell’Università IULM, sempre a Milano, per visitare la prima edizione del Milano Game Festival, che ha avuto luogo dall’8 al 12 settembre scorsi come parte della XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano. Il festival è stato diretto dal game designer e docente Pietro Righi Riva in concerto con lo studio indipendente Santa Ragione (composto dallo stesso Righi Riva, da Nicolò Tedeschi e dal “terzo uomo” Paolo Tajè).

Ecco, in comune con le fiere di vent’anni fa, il Milano Game Festival non aveva praticamente nulla. I visitatori, in ordine rigoroso, venivano accompagnati dagli anfitrioni in un ambiente di penombra, rilassato e silenzioso, come a far memento che il tempo è passato per i giocatori, certo, ma anche per i videogiochi, che hanno smesso da un pezzo di essere un riflesso della tecnologia e hanno maturato soprattutto contenuti, diventando esperienze da celebrare sul piano umanistico. Umanistico è, appunto, il taglio del festival, costruito attorno a un concept originale, solido e davvero centrato: cinque serate dedicate ad altrettante esperienze videoludiche dalla vocazione artistica, radicale e indipendente, alcune già disponibili sul mercato, altre di prossima uscita. Lo spazio del festival è stato pensato come un teatro, un cinema, con un numero limitato di postazioni di gioco accessibili solo su prenotazione (che di fatto bastava a selezionare il pubblico più disposto). In ciascuna serata veniva presentato e proposto un unico gioco - lo stesso per tutti i visitatori - da gustare da soli o in compagnia di un amico per due comodissime ore, dopodiché gli autori e gli organizzatori erano a disposizione per fare due chiacchiere, davanti a bicchieroni di limonata fresca offerta dalla casa.

Nell’ordine, i giochi che hanno riempito il festival sono stati: l’avventura sottomarina ABZÛ, di Giant Squid; il puzzle Gorogoa, di Jason Roberts; l’adventure Night in the Woods, sviluppato dallo studio Infinite Fall, con alla testa il canadese Alec Holowka; il bellissimo action/adventure procedurale (anche se l’etichetta calza stretta) Future Unfolding, del team berlinese Space of Play, e a chiudere l'inquietante horror in prima persona The Town of Light, lontano parente di Gone Home sviluppato dagli italiani LKA. Ciascun gioco veniva preceduto da un quarto d’ora di “corti d’autore” (Thirty Flights of Loving, Venti Mesi, Fugl, GNOG, Donut Cunty), sulla falsariga dei festival cinematografici.

Tornando al format, confesso che all’inizio nutrivo qualche scetticismo: in genere tendo ad essere abbastanza “timido” riguardo le abitudini di gioco, e temevo una situazione un po’ troppo intima e invasiva. Mi sbagliavo di grosso. Come dicevo, l‘atmosfera del festival si è rivelata sì intima, ma nel modo giusto: rilassata e agevole sotto ogni aspetto. Lo spazio di gioco era teatrale nel senso più classico del termine, un luogo sacro che per cinque serate ha ospitato una vera e propria “messa”, se mi si passa l’analogia. La scenografia del festival rimandava a una foresta astratta, era di fatto un set, un habitat essenziale costruito per sottrazione. Un luogo pensato per esaltare gli aspetti rituali del game design attraverso una liturgia officiata da organizzatori e autori. Il che mi è parso francamente pertinente, dal momento che i videogiochi - pur mutuando il grosso dell’estetica dalla televisione e dal cinema - su un piano strutturale e di senso sono profondamente vicini al teatro, e come il teatro fondono efficacemente il mito/narrazione con il rito/gameplay: non è un caso che molti designer siano parecchio ferrati sull’argomento (penso a Lorne Lanning, Èric Chahi, o più sorprendentemente al Game Director di Turn 10, Dan Greenawalt, un uomo ossessionato dai racing che ha studiato Religioni Comparate al Colorado College).

Tutte queste considerazioni potranno sembrare astratte, pretenziose o cervellotiche, e magari in parte lo sono: sovrainterpretazioni pilotate dal mio pallino per il mito. Eppure rispecchiano con onestà le sensazioni che il festival mi ha restituito, e parte della loro intenzionalità mi è stata comunque confermata dal direttore Pietro Righi Riva e dalla bravissima scenografa/architetto/regista Adela Bravo Sauras, che ha curato tutti ambienti ispirandosi al teatro e alla performance art.

Essendo figlio del teatro, l’habitat del Milano Game Festival ha finito col maturare esso stesso una fortissima carica ludica. Lo spazio scenico è stato, a tutti gli effetti, l’unico gioco presente per tutte e cinque le serate. Un gioco extra, fuori menù, una specie di enigma in grado di catalizzare un po’ tutte le aspirazioni dell’evento: uno spazio interattivo, con suoni, forme, colori, odori e sapori, costruito in prospettiva lievemente labirintica, così come labirintico e problematico sa essere il level design dei videogiochi e, similmente, il “level design” dei riti iniziatici. Le stesse postazioni di gioco erano limitate da un perimetro sacro immerso nelle foglie, e a fianco di ciascun controller sbucava un limone fresco appena raschiato sulla buccia, per sprigionarne il profumo. Forse (e qui la sparo grossa) il limone incarnava proprio l’eucarestia di questo particolare rituale ludico, dal momento che, serata dopo serata, veniva “torturato” attraverso l’olfatto e il tatto dei visitatori, e infine consumato collettivamente - sacrificato - in forma di limonata. Ribadisco, magari le mie interpretazioni sono troppo spinte, ma dubito che la scelta di infilare un elemento così forte e simbolico in uno spazio tanto essenziale sia stata esclusivamente estetica. Anzi, a ripensarci ora, a bocce ferme, credo che il limone/eucarestia sia proprio la chiave di lettura più affascinante per il Milano Game Festival: un rito di morte e resurrezione del videogioco in nome della ridefinizione del medium. Una ridefinizione che la cultura dello sviluppo indipendente insegue da anni, come una specie di Santo Graal.