Outcast

View Original

It: biciclette, sangue, ragazzini e braccia mozzate

Ogni tanto ci tengo ad aprire con un po' di sano maniavantismo, così, per mettere le cose in chiaro. Quindi, procediamo. Da ragazzino sono stato un discreto lettore di Stephen King, ma col cambio di millennio l'ho progressivamente perso di vista, finendo per leggere solo qualcuna delle sue uscite successive (per esempio Cell e Doctor Sleep). Sempre da ragazzino, mi sono divertito con i cinquantamila adattamenti cinematografici dei suoi romanzi, pur consapevole che quelli davvero belli fossero pochi (che so, Shining, uno fra i miei film preferiti). Di recente m'è capitato di rivederne qualcuno al cinema e ho avuto l'impressione che fossero comunque migliori di tanta palta odierna. It, il libro, l'ho letto durante una lunga estate calda trascorsa in Abruzzo senza nulla da fare, nel giro di due settimane che, in preda a un attacco di bulimia letteraria, mi hanno visto leggere per intero anche Il signore degli anelli. Entrambi mi sono piaciuti, di entrambi ho trovato il finale molto malinconico. Ricordo però molto poco di It: la sensazione sul finale, appunto, la bellezza dei due confronti nella casa, entrambi coinvolgenti e inquietanti, e il fatto che non avevo amato la battaglia conclusiva e le divagazioni troppo assurde a base di tartarughe. It, la miniserie televisiva, la guardai nella mia cameretta a milano, dopo averla noleggiata in VHS. Ricordo che alcune cose mi spaventarono un pochino, ma niente di che; ricordo che Tim Curry era strepitoso; ricordo che la parte da bambini era gradevole; ricordo che la parte da adulti era bruttarella. Ho l'impressione che, se la riguardassi oggi, mi farebbe cacare. E direi che è tutto quel che volevo premettere. Ah, no: i pagliacci non mi fanno paura. Poi, certo, un pagliaccio assassino e/o mostruoso, volendo, può farmi paura, ma questo vale per qualsiasi parola si sostituisca a "pagliaccio" nella frase. Tipo, che ne so, anche "baguette".

It è arrivato nei cinema italiani con un mese bello pieno di ritardo rispetto al resto del mondo. Si è portato dietro un carico di aspettative enorme, la consapevolezza di aver incassato uno sfracello e sfondato ogni record dell'horror cinematografico o quasi, la certezza di un seguito per il quale molti vorrebbero Jessica Chastain e un bel corredo di recensioni per lo più positive, anche italiane, dato che l'embargo è scaduto la scorsa settimana. Io il film l'ho visto appunto un mese fa, quando è uscito in Francia, ma ne scrivo adesso e, beh, a parte queste chiacchiere inutili e tutto questo girare in tondo, cosa posso dire che non sia già stato detto? Probabilmente nulla, ma insomma, ormai ho iniziato, tanto vale arrivare in fondo e spiegare come mai, se lo chiedete a me, It sia un bel film e un horror discreto, con alcuni aspetti entusiasmanti, che fa il suo dovere e funziona senza compiere miracoli ma meritandosi il successo. E se dovesse poi fare da ennesimo tassello nel ritorno di un cinema americano "grosso" che non si vergogna di sanguinare, eh, io certo non me ne lamenterei.

A dirigere il film ci ha pensato Andy Muschietti, che dopo l'apprezzabile esordio con La madre ha preso in mano It, s'è invischiato in un possibile Shadow of the Colossus e sta lavorando su Locke & Key, candidandosi quindi allo stesso tempo come idolo e nemesi di tutti i nerd del pianeta. Per il momento siamo fermi a It, che, si diceva, è andato bene, quindi non ci si può lamentare. Il suo è un adattamento che da un lato rinuncia agli elementi più tosti da tradurre in immagini, fra le divagazioni più fantastiche e metafisiche (che però magari vedremo nel secondo capitolo) e la scena di sesso di gruppo (che ovviamente non potevamo aspettarci), ma dall'altro insegue la fedeltà alla fonte, proponendo un Pennywise molto vicino a quello del romanzo (o così mi dicono: io non me lo ricordo) ma per questo anche molto lontano dalle scelte forse più interessanti che segnarono quello di Tim Curry. Però, insomma, è anche vero che non avrebbe avuto molto senso andare a confrontarcisi direttamente e, forse, deviare verso il romanzo era l'unica decisione possibile. Fatto sta che Bill Skarsgård compie comunque un gran bell'opera di caratterizzazione, soprattutto lavorando tantissimo sulla voce e tirando fuori un pagliaccio con minore dissonanza fra estetica e intenti, ma comunque riuscito. Il suo è un Pennywise cupo, aggressivo, brutale, sanguinario ma che comunque trova una sorta di forza subdola nell'interpretazione dell'attore [inserite qui una parentesi sul fatto che, per quanto bravo possa essere il doppiatore italiano, fatico a credere che quel tipo di lavoro possa essere reso a dovere, col risultato di ottenere un cattivo ancora più generico].

L'elemento della violenza, per altro, è tutt'altro che secondario. It abbraccia il suo rating per adulti e propone finalmente un horror di alto profilo con protagonisti bambini che non si fa problemi a maltrattarli, quei bambini. Può sembrare poco, ma si tratta tutto sommato di una novità e di un elemento che definisce in maniera significativa l'orrore raccontato da Muschietti. La scena iniziale, che mostra il piccolo Georgie aggredito da Pennywise, non si abbandona a dissolvenze tattiche, non rinuncia al sangue e alla sofferenza, apre il racconto in maniera forte e straziante, come la serie televisiva non poté permettersi di fare. Magari è poca cosa, magari no, magari (sicuramente) io la vivo anche attraverso il filtro di un padre con in casa una bambina di due anni, pienamente consapevole dell'ingenuità, della natura fisicamente ed emotivamente indifesa dei bambini, ma quel primo impatto con Pennywise mi ha colpito molto. Il rovescio della medaglia, va detto, è che tutte le altre sequenze horror, per quanto spesso fantasiose, coreografate in maniera creativa e, si diceva, senza trattenere la violenza, non colpiscono con altrettanta forza. Se It funziona, e funziona, non è l'orrore il motivo principale.

L'altra scelta forte di adattamento vede spostare le vicende dei bambini dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta (e, quindi, la parte da adulti passerà dagli eighties a oggi). Si tratta di una scelta magari un po' paracula, perché sappiamo bene quanto tirino gli anni Ottanta di questi tempi, ma tutto sommato inseribile nel desiderio di attualizzare un racconto che, in fondo, King pubblicò in pieni anni Ottanta, con dei protagonisti adulti suoi contemporanei (e d'altronde Muschietti è del '73). Il cambio d'epoca si porta dietro conseguenze anche nelle forme in cui appare il maligno, che cerca di sfruttare i timori dei giovani protagonisti e, quindi, attinge giocoforza a un immaginario diverso rispetto a quello che poteva perseguitare i bambini degli anni Cinquanta. Sono tutte scelte comprensibili e bisogna dire che l'immersione nell'epoca viene portata avanti in maniera intelligente, senza scivolare mai nella nostalgia stucchevole e, anzi, trovando anche soluzioni divertenti, come quella che vede due personaggi comunicare attraverso i testi dei New Kids on the Block [inserite qui una parentesi sul fatto che questa cosa è sicuramente - inevitabilmente - andata persa nell'adattamento italiano].

In tutto questo, per quanto sia comprensibile e sensata la scelta, devo dire che le varie incarnazioni di Pennywise mi sono sembrate poco riuscite, spesso banalotte, di rado davvero inquietanti. Sul piano dell'orrore, più o meno subdolo, ho trovato più efficaci Skarsgård stesso (fantastica la scena in garage!) e, soprattutto, i piccoli dettagli di contorno, certe idee azzeccatissime buttate lì quasi a far da sfondo, tipo la signora anziana che ride sfocata durante il crescendo della scena in biblioteca. Ma d'altra parte, e si torna lì, non è l'orrore il punto forte di questo It. Mi aspetto forse che possa esserlo in misura maggiore nel seguito, ma qui conta soprattutto la maniera riuscitissima in cui Muschietti porta avanti una classica avventurona horror di formazione. In fondo, It è uno Stranger Things meno paraculo, più sanguinario e forse più ficcante nello sviluppare i rapporti fra i personaggi e la loro evoluzione. Ma il modello di riferimento è lo stesso, quello dei film per ragazzi anni Ottanta che sapevano provocare qualche brivido ma non si dimenticavano mai di mantenerti in un "luogo" rassicurante.

E del resto quel modello si inserisce a perfezione in ciò che è di fatto il confronto fra la creatura e i bambini protagonisti, vittime facili quando isolati e preda del terrore, antagonisti temibili quando si rendono conto che non c'è nulla di cui aver paura e che la forza della vittoria arriva dal coraggio di affrontare l'ignoto nascosto fra le ombre. E lette in questa chiave, le scene horror assumono tutta un'altra forza, che non è quella dello spavento o dell'inquietudine, più il racconto della crescita di un gruppo di bambini che deve affrontare le proprie sfide personali. Anche per questo, la vera vittoria del film di Muschietti sta nella potenza del gruppo, nel cast azzeccatissimo, in come sono ben caratterizzati quasi tutti i protagonisti, in quanto si evolvono i rapporti fra di loro, nella maniera in cui attraverso loro si getta rabbia e odio verso le contraddizioni della società adulta e nel cuore che si scalda trascorrendo un paio d'ore assieme ai ragazzini. E, come in Stranger Things, pur all'interno di un cast azzeccatissimo, svetta la presenza femminile, con una Sophia Lillis clamorosa per forza, carisma, personalità, bravura. In effetti ce la vedrei bene, Jessica Chastain.

Questo articolo non fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", o forse sì. Nel dubbio, la trovate riepilogata a questo indirizzo