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Racconti dall'ospizio #72: La Madeleine Dragon's Lair

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Mi sono sempre chiesto quale sia il senso preferito della nostalgia, se il gusto o l’udito. Anche il tatto e l’olfatto se la giocano bene, eh? Ma non è che devo scomodare Proust, per capire che un certo tipo di schiacciata mi ricorda quella che compravo al forno che stava vicino alla casa dove i miei passavano le vacanze estive.

Un forno che si trovava a due passi da un bar in cui per la prima volta ho visto Dragon’s Lair, ed è qua che l’udito cala l’asso della nostalgia canaglia.

Sì, perché se il gusto è tutto sommato qualcosa di difficile da replicare alla perfezione, col sonoro vai sul sicuro. Il lamento di un personaggio che subisce il K.O. a Street Fighter, il tema musicale di Bubble Bobble, il verso di Haggar quando ruota su sé stesso in Final Fight o lo “SHUTO!” di quando PES si chiamava Winning Eleven sono quelli, immutati nel tempo di un file audio che cambia il suo formato.

Tra le ancore sonore più potenti della mia vita c’è senza dubbio l’introduzione di Dragon’s Lair, è un ancora dalla catena così spessa che quando dico “Dragon’s Lair” nella mia testa continuo automaticamente con “The fantasy adventure when you become a valiant knight” (anche se ammetto che son tutte cose che ho imparato dopo, all’epoca era già tanto se capivo “Your quest awaits”). E automaticamente mi vengono in mente anche i gemiti di quando Dirk viene attaccato dai pipistrelli, il rumore delle scariche elettriche di quando viene fritto, i versetti di Daphne, l’urlo di quando cade... per un gioco altamente visivo, esser ricordato attraverso i suoni è senza dubbio un paradosso.

Di solito questi raccontini nostalgici possono andare avanti in due modi: o ci mettiamo qualche interessante nozione, tipo che alla fine, per risparmiare, le voci di Daphne e di Dirk sono di membri dello staff di sviluppo, o che incassò trentadue milioni di dollari nel primo anno di vita dopo esserne costato “solo” uno e che Don Bluth si ispirò alle forme di alcune modelle di Playboy per Daphne (il che spiega tantissime cose su quelle strane sensazioni che ti dava mentre si contorceva a mezz’aria). Sensazioni che ovviamente venivano archiviate perché in quel momento ti servivano solo soldi per giocare e le ragazzine erano solo esseri simili a te che giocavano a cose noiose.

L’altro modo di uscirne è raccontarvi cos’era per me, sperando che fosse così anche per voi, seguendo quel lungo filo invisibile che accomuna gli appassionati di qualcosa.

Dragon’s Lair era semplicemente il futuro, lo era sia metaforicamente che realmente. Racchiudeva dentro di sé il fascino di un settore che voleva assomigliare tantissimo ai film, ma non sapeva ancora come fare. In un’epoca di pixel e tanta immaginazione, ci solleticava la ghiandola pineale con la prospettiva di poter controllare l’esito di un cartone animato.

Lasciamo perdere che a livello puramente ludico fosse una cosa poverissima e che costasse pure tanto.

Ecco, Dragon’s Lair, forse, rappresenta una fra le prime vittorie dell’estetica sull’etica videoludica. Era una roba poverissima che con qualunque altra veste visiva avremmo probabilmente schifato, ma messa in quel modo sembrava aprire la porta su mondi che non pensavamo potessero esistere. Ecco perché in fondo anticipava un futuro reale, quello in cui ci saremmo preoccupati più del numero di poligoni che della natura del gioco che andavamo a comprare.

Ma cosa potevamo saperne, noi? Eravamo giovani e dentro le avventure di Dirk, da noi rinominato, con estremo sadismo e amore per la cacofonia, “Baldanzotto”, vedevamo le potenzialità di un mondo che stava esplodendo sotto i nostri piedi, facendoci decollare in luoghi in cui fino a quel momento non ci avevano portati né i libri né i film.

È stato anche uno dei primi giochi pensati non solo per essere giocati, ma per essere guardati, tanto che il cabinato aveva un secondo schermo sopra, per consentire al popolo della sala giochi di gustarselo con calma, mentre il diciottenne di turno, con le tasche piene di gettoni, cercava di finirlo.

Di solito, infatti, giocarci non costava le canoniche 200 o 400 lire, ma si arrivava tranquillamente alle 600, con punte di mille lire nelle sale giochi più esose. E visto che o lo imparavi a memoria o morivi subito, per diventare bravi bisognava spendere cifre che all’epoca avrebbero garantito molti palloni Super Tele, parecchie figurine e probabilmente anche un Transformer di quelli piccoli.

Che poi, a livello narrativo non si può veramente fare a meno di Dragon’s Lair: una principessa, un drago, un castello e un cavaliere. Per il resto, bastava pescare a piene mani da Tolkien, una spruzzatina di leggende popolari, qualche tentacolo, un paio di ragni giganti ed era fatta. C’è un certo fascino, nell’iniziare una storia in media res, perché poi lo spettatore riempie i dettagli da solo. All’epoca mi capitava di chiedermi se Dirk fosse soltanto una persona incaricata di salvare Daphne, cosa sarebbe successo dopo, perché il drago l’aveva rapita.

Ancora onestamente una risposta non l’ho trovata e non penso neanche ce ne sia bisogno. Dragon’s Lair, poi si è rivelato essere una fra le tante cose del passato che sono belle finché restano lontane. Tuttavia, ogni tanto, quando fuori è grigio e la giornata non mi sorride, vado su YouTube e metto l’introduzione.

Lead on adventurers, your quest awaits!

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.