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Good Time: panico e colore

La forza che percorre tutto Good Time, dall'inizio alla fine, è quella di un panico scombinato, isterico, coloratissimo, frenetico e teso, un vortice di errori, scelte discutibili e sfiga che trascina sempre più verso l'inevitabile conclusione. Robert Pattinson, scavato in volto, sporco, perfettamente in parte e bravissimo, è un poco di buono, si arrangia sfruttando e manipolando chiunque gli capiti davanti e si lancia in imprese forse fuori dalla sua portata. La storia si apre con una rapina scalcagnatissima eseguita assieme al fratello ritardato mentale, che finisce in rovina, porta il più sfigato dei due in prigione e costringe Robertino ad ingegnarsi per capire come farlo uscire. Spoiler: non ne azzeccherà una. Messo già così, sembra il soggetto per una commedia demenziale dei fratelli Farrelly, ma Good Time, che è invece dei fratelli Safdie, è un thriller teso e coinvolgente, che non molla un secondo e avvolge col suo look tutto particolare.

Sembra di guardare un Nicolas Winding Refn che si è rotto i coglioni di stare fermo, si è caricato l'attrezzatura in spalla e ha deciso di correre tutto il tempo come un disperato. Good Time è un tripudio di musica elettronica e neon ma non è per nulla interessato alla composizione perfetta dell'inquadratura allargata e al ritmo lento. Anzi, è tutto un inseguire il suo protagonista in costante movimento, standogli sempre addosso, respirandogli sul collo con primi piani oppressivi che ti trascinano nel panico della situazione. È una corsa disperata all'insegna dell'improvvisazione, dell'arrangiarsi, dello sbattere continuamente la testa contro il muro, alzare lo sguardo con la fronte che sanguina, arrampicarsi e scoprire che dall'altra parte c'è un muro ancora più alto. È un'ora e mezza di sfiga autoinflitta a cui è impossibile sfuggire.

E Robert Pattinson ci sguazza come un porco nel fango, si mangia il ruolo e tutto ciò che gli sta intorno, rimbalzando a meraviglia sul cast di contorno, esprimendo con quegli occhi scavati tutta la forza di quello che poi è il classico uomo alla ricerca di una vittoria nella palta della sconfitta che si è costruito con le proprie mani. La sua è un'interpretazione clamorosa, che esprime dal primo istante tutta la forza di un uomo incapace di sfuggire ai propri errori ma anche di arrendersi agli stessi, costantemente impegnato a inventarsi qualcosa di nuovo per (provare a) mettere le cose a posto. Una corsa infinita, una fuga senza speranza e un film dalla messa in scena clamorosa, che si ciba del suo protagonista, lo mastica e lo sputa in un tripudio di colori e suoni sanguinari. Che bellezza.