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Thor: Ragnarok prende tutti a calci in culo

Son finito a guardare Thor: Ragnarok due sere fa, per caso. Anzi no, non per caso: ero in cerca di ispirazione per un articolo che al momento non ho ancora scritto, e che Dio solo sa se riuscirò effettivamente a scrivere (perlomeno a scrivere come si deve, ché qualche fregnaccia di sicuro mi salta fuori).

Resta che sono entrato in sala senza alcuna aspettativa, senza nemmeno aver controllato il nome del regista, senza aver visto uno straccio di trailer, senza aver mai letto un fumetto di Thor in vita mia, e soprattutto senza aver sbirciato in giro qualche recensione (fatta eccezione per una manciata di pareri - perlopiù negativi - comparsi nella mia bolla social).

Thor sta per piantare un casino pazzesco.

Uniche frecce al mio arco moscio: ho visto più o meno tutti i film dell’universo cinematografico Marvel e almeno un paio di serie in aggancio, quindi diciamo che ero stronzo, OK, ma non proprio l’ultimo degli stronzi in sala. Sapevo perlomeno da dove sarebbe partita la storia, con un Loki travestito da Odino seduto sul trono di Asgard, un Odino finito chissà dove (spoiler: è sulla Terra), un Hulk dato per disperso dopo i fatti di Sokovia del secondo Avengers e cose così.

A sparpagliare tutte queste carte già di loro belle che sparpagliate, e ad accendere la miccia del film, ci si mette con impegno Hela (Cate Blanchett), primogenita di Odino e sorella maggiore di Thor e Loki, nonché – e sticazzi – dea della morte della tradizione Marvel-norreniana. La tizia in questione, dopo la dipartita di Odino, è decisa a rifarsi dell’esilio, a impossessarsi del trono di Asgard e ad espandere il suo dominio anche al di fuori dei Nove Mondi. Thor e Loki, sulle prime, non sono tanto d’accordo con la sorellona, ma lei fa spallucce, e in un paio di mosse si sbarazza facilmente dei due, sparandoli dall’altra parte dell’universo. Il resto è spoiler.

Loki sta per piantare un casino pazzesco.

Ora, dico subito che, al netto di qualche momento di epica spiccia, il film parte un po’ stupidino, con Thor e Loki che bisticciano e fanno le faccette, un’incursione di Stephen Strange tanto per mettere la spunta alla voce “universo coeso” - un po’ forzata, ma comunque non sgradevole - e Jeff Goldblum che si diverte come un matto a fare il Gran Maestro tiranno con vocazione da showman. Eppure, e fermo restando che “stupidino” non significa mica scadente, il film in qualche modo funziona praticamente da subito, mette in pista un bel ritmo e tre o quattro scambi di battute riusciti, un po’ sulla falsariga sgangherata e ridanciana dei “cinepanettoni Marvel” iniziata (bene) con Iron Man 3, e proseguita (ancora meglio) con i due Guardiani della Galassia e Spider-Man: Homecoming.

Nel complesso mi è sembrato azzeccato anche il cast, che oltre al duo d’ordinanza Chris Hemsworth & Tom Hiddleston (che ormai sono davvero entrati in sintonia, e hanno l’aria di divertirsi come cretini) spalleggiati dai sempre ottimi Idris Elba e Anthony Hopkins, schiera una Cate Blanchett praticamente perfetta nel ruolo della “strega cattiva”, il già citato Goldblum, un Mark Ruffalo che gioca con i cliché del suo personaggio e del suo doppio (Hulk è la linea comica del film, ma una linea comica decisamente cazzuta); un tutto sommato decente Karl Urban (forse l’anello più debole della banda, ma non debole in senso assoluto), ma soprattutto una strepitosa Tessa Thompson nei panni di Valchiria, forse il personaggio più ispirato e meglio caratterizzato del film, nonché quello che si fa carico, in qualche modo, di costruire un ponte drammatico tra tutta la cazzonaggine e le risate della prima parte, e l’epica tamarrissima – ma pur sempre epica – della seconda.

Valchiria sta per piantare un casino pazzesco.

I personaggi, per quanto semplici, mi sono parsi scritti bene, caldi e vivi, così come semplice e solida è pure la tematica di sottofondo al film – il cambiamento individuale pur nell’appartenenza a un gruppo (a questo punto sarei tentato di lanciarmi in una spericolata analisi meta-cinematografica sulla direzione dei film Marvel, ma mi pare quasi di vederlo, l’angioletto di Eco, che mi fa di “no” col ditino suggerendomi di non sparare minchiate, una volta tanto).

Il cast dà proprio l’idea di stare al gioco e di partecipare alla tensione nel modo giusto, senza prendersi troppo sul serio, ma senza nemmeno prendere le cose sottogamba o di malavoglia. Non saprei bene come metterla ma, come dire, questo è il classico film in cui vorrei essere lì sul set a bere birra con la troupe; a ruttare e a ridere con gli attori tra uno sbattimento e l’altro.

Hela sta per piantare un casino pazzesco.

Quando in sala si sono alzate le luci da “fine primo tempo”, anziché andare in bagno (non mi scappava), ho preso il telefono per informarmi un po’ sul film, ché ormai ero completamente in sollazzo e non mi spiegavo la ragione dei pareri contrariati filtrati dalla mia bolla social di qui sopra («Diane: ricordami di cambiare bolla social»). Durante i cinque minuti dell’intervallo, ho fatto in tempo a scoprire che Thor: Ragnarok se ne sta seduto come un pascià su un pomodorometro di 98% (sicuramente non significherà tutto, ma qualcosa vorrà pur dire), e soprattutto che a tenere le redini della regia è stato il comico/attore/sceneggiatore neozelandese Taika Waititi, già dietro la macchina da presa del godibilissimo What We Do in the Shadows (questo spiega cazzonaggine e faccette), nonché di alcuni episodi della serie Flight of the Conchords. Pure gli sceneggiatori del film, a leggerli al volo su IMDb, mi sono sembrati ben referenziati: Eric Pearson (Agent Carter), Craig Kyle (veterano dei progetti collaterali Marvel, nonché co-autore non accreditato di Logan - The Wolverine) e Christopher Yost (altro veterano di robe Marvel a caso).

Si spengono le luci. Secondo tempo. Quasi non faccio in tempo a mettere via il telefono che il film mi esplode davanti agli occhi. Il ritmo, già buono, accelera e non si ferma più. Tutto quello che poteva diventare più grosso e cattivo diventa più grosso e cattivo. Situazioni e muscoli dei personaggi piano piano si gonfiano fomentando lo spettatore, coinvolgendolo attraverso delle sequenze d’azione chiare, belle leggibili e sempre molto partecipate.

Hulk sta per piantare - indovinate un po'? - un casino pazzesco.

Tendendosi verso il finale, tutto questo mix di umanità ed epica scatena un’esplosione coloratissima ed esagerata, che amalgama e risolve tutte le storyline dei vari personaggi, anche quelle apparentemente più insignificanti, dando un senso ad ogni dettaglio intravisto nel corso del film e schierando in passerella al momento giusto, uno dopo l’altro, eroi e cattivi in pose da ganassa, pompandoli con le musiche di Mark Mothersbaugh (tra le altre cose, collaboratore storico dell’Anderson di mezzo). Succede, in sostanza, quello che mia cugina, ai tempi delle medie, definiva “il casino”, ossia quando un film accelera ed entra in una fase di entropia, fino a scatenare un finale coi fiocchi. E una volta che Thor: Ragnarok ha passato quella soglia, è stato praticamente impossibile, almeno per me, evitare di scaldarmi, emozionarmi e persino commuovermi fino ai titoli di coda (e pure dopo, come vuole la tradizione).

Insomma, dal mio punto di vista, tutto bello e tutto giusto: domani magari me lo riguardo.

Come ho scritto all’inizio, sono entrato nella sala dove passavano Thor: Ragnarok senza troppa aspettativa, presupponendo che mi sarei trovato di fronte a un Avengers (problema mio: quel genere di Marvel non mi dispiace, ma mi emoziona poco), per scoprire invece il migliore dei Guardiani della Galassia. Nella mia hit parade dei “cinepanettoni Marvel”, lo infilerei addirittura al secondo posto, appena dietro Spider-Man: Homecoming (o forse addirittura al primo? Sono indeciso).