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Il gioco di Gerald non finisce benissimo

Il gioco di Gerald si inserisce nel gruppone, ultimamente piuttosto nutrito, dei progetti fortemente voluti e inseguiti per anni e anni da un regista che ci teneva proprio guarda in una maniera che non ti dico. La leggenda narra che Mike Flanagan, fin dagli esordi, girasse per Hollywood con il libro di Stephen King sotto braccio, cercando in tutti i modi di convincere qualcuno a fargliene dirigere un adattamento. Mentre inseguiva il suo sogno, il caro Mike ha deciso di esordire svelandosi come nuovo grande talento dell'horror con Oculus, per poi firmare altri tre film tutti interessanti (fra cui questo e questo), tutti ben diretti, tutti con qualità innegabili, tutti largamente imperfetti e non all'altezza del suo esordio. Evidentemente, però, il credito accumulato fino a quel punto gli ha permesso di entrare nel sempre più popolato club dei registi a cui Netflix ha detto “Ma certo, caro, noi ci mettiamo i soldi, tu fai un po' quello che vuoi.” E “Quello che vuoi” è diventato un adattamento piuttosto fedele nella sostanza, intelligente nel modo in cui reinterpreta determinati aspetti del libro, forse troppo fedele riguardo ad altri.

Che Stephen King abbia storicamente problemi con i finali dei suoi romanzi è un po' un cliché ma, in quanto tale, nasce da un fondo di verità. Il gioco di Gerald, nello specifico, può vantare un finale che mi sentirei di definire “porcheria” senza grandi timori di smentita. E purtroppo Flanagan, da amante senza vergogna del libro, ha deciso di conservarlo. Quindi, insomma, nell'avvicinarsi a questo film è bene sapere che gli ultimi dieci minuti sono allo stesso tempo forse il meglio che si potesse fare nel raccontare quel finale per immagini e, ecco, una porcheria, fra lo spiegone che s'imbizzarrisce all'improvviso e le pacchianate intollerabili che arrivano subito dopo. La buona notizia sta nel fatto che, per quanto il finale lasci indubbiamente un pessimo sapore in bocca, fino a quel punto il film è davvero buono e merita la visione.

Flanagan, dicevo, trova la chiave giusta per reinterpretare un romanzo sempre considerato inadattabile, a causa del suo essere brutalmente basato sui monologhi interiori della protagonista (e del finale orrendo, certo). Sola, ammanettata al letto, disperatamente alla ricerca di un modo per cavarsela, senza altri personaggi con cui confrontarsi. Invece di abbandonarsi a una facile e piatta voce fuori campo, Flanagan propone una sorta di conversazione a tre con la coscienza buona e quella cattiva, delle varianti sopra le righe della protagonista stessa e di suo marito. Un'idea efficace, che poteva risultare pacchianissima e invece funziona a meraviglia, grazie alla scrittura solida, alla regia efficacissima e alle buone interpretazioni, capaci di variare a seconda della necessità fra il lavoro sulle sfumature e le esagerazioni. Insomma, molto bene. Aggiungiamoci l'ottima capacità nel gestire la tensione e la scelta azzeccatissima di ridurre al minimo l'accompagnamento musicale e viene fuori un film davvero riuscito, che non si limita al cavalcare il soggetto orrorifico ma sfrutta anche a dovere i temi che già nel libro ne venivano fuori. Peccato solo che Flanagan non sia altrettanto bravo nel maneggiare il potenziale drammatico della vicenda e che, si diceva, il finale sia osceno. Ma insomma, si sono visti adattamenti kinghiani ben peggiori, per altro da romanzi sulla carta molto più “facili”.

Il gioco di Gerald è disponibile su Netflix da domenica 29 settembre. Al cinema scordatevelo, a meno di festival estemporanei.