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Racconti dall'ospizio #83 - The Curse of Monkey Island mi ha lasciato devastato, mutilato e sforacchiato

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Io non ricordo un sacco di cose. Fatico a cristallizzare nella memoria gli eventi che, col senno di poi, vorrei rivivere in maniera più nitida quando faccio il vecchio barbogio o, semplicemente, quando mi chiedono dei vecchi ricordi felici. Per dirne una, mi ricordo perfettamente la circostanza e il luogo in cui ho ricevuto il Game Boy, primo mattone con cui è stata deflagrata la finestra della mia produttività e della mia vista per gli anni a venire, ma non riesco a ricordarmi assolutamente che anno fosse. Per di più, è anche difficile ricordare quale fu il mio primo videogioco tra quelli che effettivamente mi arrivarono con la console: Super Mario Land (che con la senilità è diventato “quello di Yokoi”), R-Type e l’immancabile Tetris. Un trio che, come mi disse Babich quando parlai con lui della mia formazione videoludica, “comunque bene!”.

Il fatto ancora più strano, tuttavia, è che la mia risposta automatica a “qual è stato il tuo primo videogioco?” è, inconsciamente, “Monkey Island”. E ovviamente è una bugia: non solo ci sono quei tre lì ad avermi svezzato, ma il Monkey Island che mi viene in mente non è neanche The Secret of Monkey Island di Gilbert, Schafer e Grossman. No, il “mio” Monkey Island è The Curse of Monkey Island… il che spiega perché, quando giopep mi ha scritto il nome intero, io ho chiesto “Il terzo?”.

Non ricordo l’anno in cui ho giocato per la prima volta a Monkey Island (The Curse of). Probabilmente, però, era vicino a quel 31 ottobre del 1997 in cui uscì: ero un bambino, e come tutti i bambini ero poco più di un pacco postale che i miei genitori portavano con loro, di destinazione in destinazione. Mio padre aveva spostato da poco la sua attività di IT/supporto tecnico/smanettone in un ufficio molto più grosso del precedente e mia madre aiutava spesso a sistemare in giro. Mia sorella, che lavorava lì, si ritrovava quindi a dover gestire un piccolo rompicoglioni annoiato… il che, fortunatamente per lei, non era così impossibile, considerando che c’era uno stuolo di computer a disposizione. Esaurita la tavolozza di Paint e umiliato Kim Jong-un a Campo minato (Prato fiorito my ass!), però, la voglia di fuggire da quell’ufficio tornava a bussare. Una sorta di spirito vudù che mi metteva in guardia, dandomi i primi assaggi di quello che poi, una volta finite le scuole, sarebbe stato il tormento che mi avrebbe accompagnato per anni.

Per un curioso caso del destino, tra le scatole di Autocad, i programmi “seri” da vendere ai clienti e tutto il marasma di floppini che riempivano i mille scaffali, in quell’ufficio c’erano anche due giochi per PC dall’origine sconosciuta. Uno era un cacatone edutainment brutto fin dalla confezione, che per altro non ricordo sia mai partito su nessuna configurazione disponibile; l’altro, già dalla scatola, era in grado di portarmi altrove, grazie a un’illustrazione dagli echi cinematografici e un uso dei colori che non apparteneva a niente che avessi visto nel corso della mia breve vita. Noncurante che fosse lì per essere venduto o meno (“vorrei due copie di Autocad, Microsoft Office e anche un’avventura grafica!”), un bel giorno la voglia di fuggire si fece più forte dell’eventuale cazziatone, e quella scatola di The Curse of Monkey Island divenne la *mia* scatola di The Curse of Monkey Island, un cimelio che conservo ancora oggi. Un comportamento degno di un temibile pirata, se escludete la parte in cui mi sono fatto aiutare da mia sorella per installare il gioco.

All’epoca, nonostante sulla scatola ci fosse un simpatico/orrendo bollino “Monkey Island 3!” a volermi suggerire qualcosa, non mi resi conto di stare giocando a un terzo capitolo vagamente apocrifo di una serie leggendaria (in tutta onestà, all’epoca non sapevo neanche cosa significasse apocrifo). E questo perché, oltre al fatto di essere un bambino dalle conoscenze relative, The Curse of Monkey Island era scritto e messo in scena in modo da essere godibile e piacevole anche per tutti quelli che non conoscevano ancora Guybrush Threepwood, né tantomeno quello che gli successe su Mêlée Island.

E, a conti fatti, per me è stato talmente godibile e piacevole che ho giocato a The Curse of Monkey Island un numero insensato di volte. La splendida colonna sonora tropicale, quello stile grafico che mutuava le forme e i tratti da Grim Fandango (“Chiedimi di Grim Fandango!”) e sembrava un cartone animato, la comicità sbilenca di tutti i piccoli dettagli, un adattamento/doppiaggio italiano rivedibile ma allo stesso tempo perfetto: non c’era niente di meglio di una colorata avventura caraibica per fuggire da un grigio ufficio genovese, e non a caso mi ci rifugiavo non appena potevo. Ho finito il gioco prendendomi il mio tempo, scontrandomi dolcemente per la prima volta con quella che, solo decenni dopo, avrei scoperto chiamarsi “moon logic”. E appena avevo bisogno di fuggire, tornavo a Monkey Island, ripetendo tutto ancora e ancora, fino a rendermi conto che quei momenti di escapismo mi stavano effettivamente formando per la vita: sulla scrivania ho un teschio anatomico di nome Murray, quando parlo mi trattengo dallo sbracciare come Stan, io e mia sorella comunichiamo attraverso le rime della battaglia di insulti e, soprattutto, ancora oggi mi chiedo se la roccia di Skull Island rappresenti un’anitra o un coniglio. "Tua zia troverebbe il paragone alquanto ardito."

Dopo aver recuperato gli altri due Monkey Island nel corso degli anni, è stato poi lampante come The Curse of non fosse altro che un bignamino, un concentrato di citazioni e ammiccamenti che cercavano di far continuare a camminare un bambino che, a conti fatti, si è perso nei meandri di un parco giochi e non riesce a ricongiungersi con i suoi genitori. Ma, allo stesso tempo, Monkey Island è evidentemente un progetto realizzato con un amore e una passione che difficilmente si trovano in questo tipo di progetti, grazie a un team di sviluppo evidentemente reduce da/cresciuto con i due titoli che hanno iscritto la serie nella storia dei videogiochi. Il che, per altro, lo rende tutto sommato piacevole ancora oggi, anche al netto del fatto che la grafica cartoon tende a slavarsi un po’ troppo sui pannelli HD, e non c’è accelerazione SCUMM™ che tenga. Anzi, vi dirò di più: rigiocandoci di recente, come vedete nei video che accompagnano questa carrettata di fatti miei, ho scoperto UN SACCO di cose che mi ero perso durante le mie sortite. Pappapisciu!

Per cui, sì, "è più lunga di così", non è che a me The Curse of Monkey Island “piace”. The Curse of Monkey Island è il primo videogioco della mia vita honoris causa, quello che molto più di altri mi ha definito, mi ha dato un vocabolario, un qualcosa a cui aggrapparmi quando ne avevo bisogno a seconda delle evenienze: che fosse una situazione senza uscita (“Guarda! Una scimmia a tre teste!”) o un pomeriggio noioso, i Caraibi videoludici sono sempre stati lì per me, e dopo vent'anni comincio a rendermi conto di quanto sia stata una fortuna molto più grande di Big Whoop.