Nostalgia, nostalgia Caniggia
Mettiamo un attimo da parte il vero significato di ‘nostalgia’; quella roba sullo “stato d’animo corrispondente al desiderio o alla malinconia di quanto è trascorso o lontano nel tempo”, che potete trovare sul dizionario. Cerchiamo di dare una nuova definizione basata sull’osservazione della realtà di tutti i giorni, ovviamente applicata al mondo dei mezzi di comunicazione di massa, cinema e serie televisive, che sono parte consistente degli argomenti trattati su Outcast.
Dando una rapida occhiata alle prossime uscite, a ciò che ha avuto successo al botteghino (o in termini di ascolti) e a tutto quello che ha generato più buzz sui social network, negli ultimi anni si potrebbe dire che la ‘nostalgia’ è soprattutto un fattore economico; la leva attraverso la quale Hollywood oggi solleva il mondo. Ed è una leva che basa la sua esistenza su un ragionamento piuttosto semplice, elaborato attraverso due domande: chi ha un portafoglio pieno di soldi e nessuna paura di usarli? Le persone appartenenti alla fascia d’età fra i trenta e i quarant'anni. Qual è il periodo in cui hanno vissuto l’infanzia e dal quale il loro immaginario collettivo attinge a piene mani? Gli anni Ottanta. A voler essere precisi, si tratta di un lasso di tempo che va dalla fine degli anni Settanta agli inizi dei Novanta, ma può far comodo mettere tutto nello stesso cestone.
Siamo bombardati dagli anni Ottanta, ogni giorno, da ogni direzione. I poster della nuova stagione di Stranger Things che fanno il verso ai film di quel periodo lì, il NES e lo SNES Mini, la colonna sonora di Guardiani della Galassia, Star Wars, il trailer di Player One, il successo di Kung Fury, il logo di Thor: Ragnarok, il seguito di Blade Runner, il nuovo It (che trasla l’infanzia dei losers dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta), le pagine di Facebook sulla nostalgia calcistica, il Winner Taco, le scarpe Nike autoallaccianti e l’Hoverboard Mattel di Ritorno al futuro - Parte 2. Apparteniamo a una generazione che ha iniziato ad essere nostalgica ancor prima di invecchiare, ossessionata e galvanizzata dall’idea di rivivere una seconda infanzia. Parafrasando il buon Nabucodorozor, sembra quasi che, dagli anni Ottanta, non ci sia stato praticamente più nulla in grado di sembrare davvero nuovo e di segnare i tempi. Ed è inutile star lì ad agitare il pugno contro il cielo pretendendo qualcosa di diverso: se le major e alcune emittenti televisive sbavano dietro a ogni possibilità di mercificazione della nostalgia, lo fanno solo perché esiste una domanda enorme di prodotti sui generis. Lo dico senza la spocchia di aver fatto una scoperta sensazionale, né tantomeno con la punta di sdegno che caratterizza i rant sull’argomento. Pura e semplice osservazione della realtà.
Ma bisogna fare un distinguo: tra quelli che, ad esempio, scrivono il copione de Il Risveglio della Forza mettendo in bocca a Harrison Ford tutte le battute iconiche di Han Solo perché uno studio di settore ha evidenziato che il pubblico vuole questo e chi è invece genuinamente nostalgico. Per quanto mi riguarda, trovo del tutto normale che ogni tot anni, senza soluzione di continuità, buona parte degli autori appartenenti alla contemporanea generazione di trentenni/quarantenni inizi a rielaborare i fenomeni culturali della propria infanzia. I primi esempi che mi vengono in mente sono alcuni tra i primi lavori dei registi della new wave hollywoodiana: American graffiti, I ragazzi della 56° strada e Rusty il selvaggio. O Grease, Stand by me, Happy Days. Tutta roba che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, fotografava in maniera più o meno idealizzata gli anni Cinquanta. Ritorno al futuro di Robert Zemeckis fu un successo straordinario, probabilmente perché ebbe la sagacia (volontaria o involontaria, poco importa) di parlare a un pubblico trasversale, immergendo un personaggio con cui i giovani potevano empatizzare (un adolescente americano perfettamente a suo agio nell’epoca reaganiana) in un contesto nostalgico che si rivolgeva perlopiù agli adulti.
Da sempre siamo intrappolati in un loop nostalgico che si ripete a fasi alterne. Rispetto al passato, però, oggi abbiamo due elementi che hanno rimescolato le carte in tavola. Primo, non solo l'offerta è aumentata a dismisura, quasi al punto di saturare il mercato (e infatti alcuni revival hanno fallito miseramente), ma sono anche aumentati gli investimenti nella pubblicità che fa leva sulla nostalgia. Secondo, internet fa da cassa di risonanza, tanto all’advertising quanto alle infinite discussioni sulla mancanza di idee dei creativi, amplificando la sensazione che si parli solo di anni Ottanta.
Quindi, capisco il punto di vista di quella minoranza (rumorosa) di persone che ritengono che nessuna epoca come la nostra sia tanto ossessionata dal suo passato recente, e che stiamo vivendo un inferno di estetica pixel, luci al neon, bambini in sella a biciclette che fanno cose e synth pop. Ma non lo condivido.
Vi dirò di più: a mio avviso stiamo vivendo l’età dell’oro del cinema e delle serie TV. Non c’è mai stata un’offerta così corposa e variegata, il livello medio delle produzioni non è mai stato così alto e i contenuti non sono mai stati così accessibili in maniera del tutto legale. Non venitemi a dire che il fatto che tutto sia immediatamente disponibile demolisce la selezione della memoria e appiattisce il senso critico. È una cazzata, perché così come proliferano i contenuti, c’è una parallela proliferazione di voci e di modi per documentarsi, per farsi un’idea di cosa meriti la nostra attenzione e cosa no. Bisogna solo avere la pazienza (e la voglia) di farlo.
Se ci si lascia cullare dalle onde generate dal marketing, si ha l’impressione che si stia raschiando il fondo del barile della nostalgia (o che vengano prodotti solo cinecomic), ma se ci si sforza un po’, non serve nemmeno sporcarsi troppo le mani per scavare e trovare qualcosa che faccia al proprio caso. Prendiamo il 2017 cinematografico: uno sguardo distratto alla top ten degli incassi farebbe pensare che ci sia spazio solo per i supereroi della Marvel e della DC, per i (nostalgici) remake live action dei classici Disney dei primi anni Novanta e per Fast & Furious, uno fra i pochissimi eredi del machismo action fine anni Ottanta che, per quanto abbia intrapreso una strada diversa da quella degli esordi, nacque come rimasticatura di un mito del 1991 (Point Break), quindi con qualcosa di nostalgico nel sangue. Basta però scorrere oltre la decima posizione per rendersi conto di quanto detto poco sopra. Ce n’è davvero per tutti i gusti: c’è la fantascienza di alto profilo (Arrival), c’è il road movie crepuscolare mascherato da cinecomic (Logan), c’è l’action fresco e ipercinetico (John Wick 2 - Capitolo 2 e Atomica bionda), c’è l’heist movie dalla verve sperimentale (Baby Driver), c’è il filmone di guerra (Dunkirk), c’è l’horror con il sottotesto politico-satirico (Get Out) e il thriller dai risvolti psicologici (Split). Chi muove i fili di Hollywood, dopo anni di soli tentpole, sta riscoprendo i film a basso e medio budget, che (paradossalmente) offrono più spazi di manovra in termini di creatività e generano profitti più consistenti di, chessò, un sequel/revival di Independence Day. Se proprio non bastasse il cinema americano mainstream a soddisfare la vostra fame, forse vale la pena di guardarsi attorno e rivolgersi al cinema indipendente, o a quelle etichette che importano il film asiatici, o ai produttori francesi, che ogni anno sfornano qualche pezzo da novanta niente male (quest’anno Elle guarda tutti dall’alto verso il basso). Oppure al nuovo cinema di genere italiano, che pian pianino sta risorgendo dalle proprie ceneri.
La verità è che, tra prodotti cinematografici e televisivi, c’è talmente tanta roba che risulta difficile stare dietro a tutto. Se solo decidessi, finalmente, di recuperare tutti i serial che mi sono segnato sul taccuino, avrei tutte le serate programmate da qui a primavera inoltrata. Piuttosto che brontolare, rimpiangere i bei tempi andati e lamentarsi del fatto che non ci sia nulla che valga il prezzo del biglietto, come fanno molti per pigrizia, bisognerebbe accettare l’idea di perdersi qualcosa, selezionare e imparare a rivolgere la propria attenzione a qualcosa di diverso dai blockbuster, ora più che mai dominati dalle logiche del massimo risultato con il minimo sforzo. E bisognerebbe anche accettare con più serenità l’esistenza di prodotti 'nostalgici’, che non sono necessariamente ‘brutti’ o ‘banali’. La coltre di strizzatine d’occhio e citazioni rischia di offuscare la vista del detrattore che si ferma al giudizio tranchant, ma un serial come Stranger Things può essere una panacea per chi soffre di allergia alle tirate di gomito.
Stranger Things è quella roba che fa il verso ai film che guardavamo da piccoli in VHS e lo fa senza freni inibitori. Inutile girarci attorno: la nostalgia è la ragione principale del suo successo straordinario, se non avesse avuto quella patina anni ottanta non avrebbe avuto la stessa risonanza mediatica. Ma anche Super 8 di J.J. Abrams era nostalgico, eppure non è riuscito a fare breccia nemmeno nel cuore di chi l’ha apprezzato. Stranger Things c’è riuscito perché, come Ritorno al futuro, si rivolge a un pubblico trasversale. Per quanto sia una rimasticatura al quadrato di tante cose già viste altrove un milione di volte, è una rimasticatura di qualità. Chi se ne frega se non è originale: è una storia interessante, raccontata con competenza, passione, cuore e quel pizzico di coraggio che spesso manca a produzioni ben più blasonate, sfiorando con delicatezza argomenti non banali, dal bullismo all'abbandono e alla malattia. Un prodotto di pregevole fattura che mette lo sviluppo dei personaggi e dei rapporti che intrecciano davanti al poster de La cosa e ai riferimenti a I Goonies. Ci sono anche quelli, per la gioia dei cacciatori di easter egg, ma è una serie perfettamente fruibile anche da chi di queste cose se ne frega. Stranger Things è l’emblema di come si possa usare la nostalgia nella maniera giusta, senza dover rinunciare ai benefici pubblicitari che porta con sé il far leva sui ricordi del proprio target di riferimento. Ma è anche una lezione importante sul fatto che l'originalità non è un parametro di valutazione poi così importante.
Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.