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Disquisizioni, di genere e non, in e su L'altra Grace

Purtroppo sulle pagine di Outcast nessuno ha ancora avuto modo di parlare di The Handmaid’s Tale, ovvero una fra le più riuscite serie TV arrivate sugli schermi in questo 2017 che si appresta a chiudersi. Ho amato The Handmaid’s Tale. Mi ha fatto scoprire Margaret Atwood, l’autrice dalla cui opera è tratta la serie; una scrittrice che sto imparando ad apprezzare sempre più e che spero di approfondire ulteriormente acquistando, magari a un prezzo onesto, L’assassino cieco (edito dalle nostre parti da Ponte delle Grazie), uno dei suoi scritti che più mi intrigano. La Atwood, comunque, è una scrittrice abbastanza prolifica, che da sempre riesce a dare una propria interpretazione in prosa alla lotta contro la disparità di genere, non scadendo mai in stucchevoli battaglie grammaticali, caratteristiche di casa nostra. E tutto ciò avviene, nei suoi romanzi, con caratteristiche ed elementi di contorno sempre diversi: se infatti in The Handmaid’s Tale assistiamo a un futuro distopico, in cui la donna viene ridotta a mero oggetto per fini riproduttivi, in Alias Grace ci troviamo di fronte ad un romanzo storico, ispirato a eventi realmente accaduti, in cui la figura femminile viene rappresentata quasi come antagonista, un essere subdotato a cui dare poco credito. Una visione trasportata egregiamente su schermo in L’altra Grace, titolo italiano dato alla seconda serie TV tratta da un’opera della Atwood ad approdare sugli schermi in questo 2017.

Purtroppo il nome della scrittrice canadese non è sinonimo di imprescindibilità. Se infatti The Handmaid’s Tale è una di quelle serie TV a cui dare obbligatoriamente una possibilità, L’altra Grace è ben lontana dal potersi definire un must del media d’appartenenza. Prodotta da una sinergia fra Netflix e CBC, network canadese free-to-air su cui la serie è andata in onda a cadenza settimanale a partire dalla fine di settembre, L’altra Grace, fin dai primissimi minuti, ti dà quella sensazione di telefilm Rai, facendoti sentire a metà fra lo snob e il cinquantenne piccolo borghese stanco da una giornata trascorsa in ufficio. Dalla fotografia, coi colori un po’ così, fino agli interpreti di contorno, anche troppo rigidi. Okay, forse è un po’ meglio delle robe che passano in Rai, e sicuramente di un altro livello rispetto alle fiction targate Mediaset, ma insomma.

La trama ruota attorno a Grace Marks, una domestica di origine irlandese, interpretata dalla fantastica Sarah Gadon, accusata di omicidio. Che non è poco, considerato che siamo nel Canada del 1843, quasi un secolo prima dell'istituzione del suffragio universale nel suddetto paese, e insomma, potete facilmente immaginare quale fosse la condizione femminile dell'epoca. Comunque, la pena decisa per Grace è l'ergastolo, che in quindici anni è stato scontato fra carcere e manicomio. Il vero plot twist risiede tuttavia nell’introduzione del dottor Simon Jordan (interpretato da un freddo Edward Holcroft), medico americano interessato ad analizzare cosa succeda nella testa di Grace. È insomma una sorta di Freud ante litteram, che tenta di scavare il più possibile all'interno dell’ambigua Grace, i cui intenti manipolatori fanno alzare la guardia sia allo spettatore che al medico stesso, dando così il là a lunghi flashback, grazie ai quali si ricostruisce la storia dell'assassina.

La servitù canadese nell'Ottocento. Mica male.

Una formula, questa dell’analessi a opera di uno psicologo, se vogliamo un po’ banale all’interno di un contesto narrativo come quello delle serie TV, ma che tuttavia funziona, facendo il suo dovere e riuscendo a scavare con perizia nella psiche e nel vissuto della protagonista. Il problema, piuttosto, è che ciò avviene senza nessun particolare vezzo stilistico, in modo forse un po’ anonimo. C’è qualche richiamo ad un certo tipo di oscurità ottocentesca che mi ha ricordato la Jane Eyre di Cary Fukunaga, però non c’è la stessa intensità, la stessa capacità di impressionare attraverso le immagini. In L’altra Grace l’obiettivo principale è quello di raccontare la storia, sofferta e ambivalente, di una ragazza bella e dalle mille possibilità, ma che ha buttato via la sua vita, soprattutto per colpa una società che l’ha costretta a mettersi su dei binari prestabiliti. In questo, la serie TV è pienamente riuscita, riuscendo a mischiare perfettamente elementi thrilling ad altri che, invece, raccontano molto bene le differenze di genere nel Canada dell’Ottocento. Se presa così, L’altra Grace è uno di quei prodotti che riescono a farsi godere dall’inizio alla fine. Se invece la si approccia come l’altra possibile serie TV capolavoro di Margaret Atwood dopo The Handmaid’s Tale, ci si potrebbe scottare.

L’altra Grace è comparsa sul Netflix italiano il 3 novembre scorso. Ho visto le sei puntate di cui si compone questa prima e unica stagione in una manciata di giorni, fra una tisana alla valeriana e l'altra. Quanto si sposano bene le tisane con queste serie ottocentesche? Tantissimo, vero?