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Ho provato a smontare The Square, ma alla fine è stato lui a fare a pezzi me

Dopo Forza maggiore, francamente non sapevo davvero cosa aspettarmi da The Square, il quinto lungometraggio del cineasta svedese Ruben Östlund (che ne ha curato sia la scrittura che la regia), premiato con la Palma d'oro all’ultimo Festival di Cannes e in lizza per i prossimi Oscar. Non sapevo cosa aspettarmi perché, nonostante i premi e il buon riscontro di critica, il film precedente mi aveva sì spiazzato per via dell’innesco, pure incantato col suo rigore estetico, ma non mi aveva convinto fino in fondo. Di solito riesco a entrare in sintonia con un film per due ragioni che possono serenamente mescolarsi e coesistere: o mi colpisce a livello emotivo (e in questa categoria riesco a far convivere serenamente il primo Rambo con Fantozzi, La La Land e mezza filmografia di David Lynch), oppure mi stuzzica sul piano dei simboli, dell’interazione, sfidandomi a smontarlo e a interpretarlo come un gioco (penso a un film come Nella casa, di François Ozon, e all’altra metà della filmografia di Lynch). Ecco, Forza maggiore non è riuscito a farmi scattare nessuno dei due meccanismi: non sono entrato in sintonia con la sua dimensione narrativa deliberatamente irrisolta e ho trovato un po’ troppo sfilacciato l’apparato simbolico. Oh, problemi miei, ché comunque i film brutti sono altri.

Con The Square, Östlund cambia totalmente ambientazione, passando dalla famigliola in vacanza sulle Alpi francesi al mondo dell’arte contemporanea, puntando lo sguardo su un gruppo di personaggi che gravitano attorno al narcisista e superficiale Christian (il cognome non ci è dato saperlo), curatore di un museo d’arte contemporanea, impiantato nel Palazzo Reale di Stoccolma a seguito dell'abolizione della monarchia.

La miccia della vicenda, in questo caso, viene accesa dalla decisione di acquisire ed esporre negli spazi del museo una nuova installazione artistica dedicata al tema della fiducia: uno spazio quadrato - The Square, appunto - definito “un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri”.

Proprio questo quadrato, programmaticamente, diventa - sia per tesi che per antitesi - la principale chiave di lettura del film: un luogo del genere, a livello concettuale e puramente geometrico, si scontra con le istanze della natura e del caos.

In quest’ottica, The Square rappresenta una variazione sul tema - e contemporaneamente un approfondimento - di Forza maggiore: laddove una valanga invadeva le architetture e le geometrie create dall’uomo, obbligando i personaggi a fare i conti con la natura dei propri istinti, qui i concetti di spazio e di limite vengono esplorati praticamente da ogni punto di vista attraverso un meccanismo a freddo, che, ondeggiando spietatamente fra toni drammatici e sardonici mette in moto tutta una serie di ingranaggi, in fila dal più piccolo al più grande. In quest’ottica The Square, più che un film, è un’installazione. Anzi, meglio: una macchina, per dirla con Artaud.

L’opera di Östlund, utilizzando la chiave dello spazio per indagare sul rapporto tra uomo, arte e natura, non è più simpatica di una squadra o di un goniometro, e questo può essere sia un vantaggio che un problema a seconda del sentire di chi guarda, fermo restando che la tesi del film, diversamente da quanto avviene in Forza maggiore, è chiara: un luogo ideale come The Square non esiste e non può esistere.

Nel corso del film, spazi e confini - siano essi fisici, sociali, sessuali o di qualsiasi altro tipo - vengono esplorati per addizione di esempi: già durante il dialogo iniziale tra il vacuo curatore e la giornalista Anne (Elisabeth Moss; due o tre anni fa vi avrei detto “quella di Mad Men” ma ormai la sua carriera è bella che decollata) si consuma uno scontro, un’invasione di campo dialettica. Christian prova a mettere a disagio Anne utilizzando un linguaggio volutamente artificioso per delimitare il suo spazio di potere (in questo caso professionale), ma finisce col dare al regista l’occasione per mettere in ridicolo l’ambiente dell’arte contemporanea (ben noto a Östlund, visto che per certi versi vi appartiene) che - come mi ripete spesso un amico che di mestiere fa il curatore - «una chance la dà a tutti» proprio perché è difficile da definire, circoscrivere e “misurare”. Pochi sono gli artisti in grado di fare la differenza, ancora meno gli appassionati in grado di apprezzarla: tutto quello che avanza è solo un carrozzone di marketing relazionale e paraculaggine.

Al di là della conversazione iniziale, i conflitti spaziali all’interno nel film sono praticamente infiniti, e si incastrano l’uno dentro all’altro come le rigide architetture che lo infestano. Anche i dettagli apparentemente più insignificanti possono generare disagio: una normale chiacchierata si trasforma in un’esperienza perturbante semplicemente attraverso la gestione della cinepresa (che taglia fuori un personaggio, “sottintendendolo”) e la disposizione degli attori vagamente innaturale. Un uomo, mentre aspetta un amico in un’auto parcheggiata, diviene vittima dei tentativi di invasione di alcuni bulli quasi per una sorta di contrappasso, considerato che l’amico in questione, nel medesimo istante, sta a sua volta “invadendo” gli spazi privati di un condominio per farsi giustizia di un furto subito in precedenza (altra violazione, in questo caso ravvicinata, intima).

Ma è soprattutto all’interno del museo che si consumano i conflitti più evidenti, siano essi tra professionalità diverse, tra ragioni di marketing e di contenuto o tra i limiti della morale, dei media e della libertà di espressione artistica. Clamorosa, in questo senso, la scena della riunione di lavoro che viene sovvertita dall’intromissione di un bebè; lo stesso bebè arriva perfino a influenzare il punto di attenzione dello spettatore, espandendo l’indagine spaziale anche al di fuori dello schermo.

Basta la presenza di un bebè per interferire con la prossemica dei personaggi in scena e per distrarre lo spettatore.

Anche le opere esposte negli spazi dal museo subiscono variazioni di senso a seconda delle circostanze o del ruolo di chi le pratica: durante gli orari di apertura ai visitatori, è proibito toccarle o scattare fotografie, ma a porte chiuse gli addetti alle pulizie hanno campo libero.

Durante un vernissage, un gruppo di radical chic dall’aria elegante e sofisticata sceglie di sedersi sul pavimento o sui gradini (pulitissimi) del museo per assecondare l’atmosfera falsamente informale che fa il paio col monologo di Christian. Qualche scena più avanti, nel corso di una festa scatenata, la violazione del museo è addirittura sfacciata e si consuma su più livelli: in primo luogo, banalmente, è bene ricordare che la struttura si innesta sul precedente Palazzo Reale, parassitandolo. Le stesse stanze di corte vengono aperte dal vanitoso curatore per accontentare gli ospiti, ma anche per permettergli di ostentare il proprio potere, per rompere gli schemi formali. Infranti i tabù spaziali, Christian può finalmente concedersi delle licenze con le dipendenti e con le invitate: il flirt davanti alla toilette è un balletto di apparenti cortesie che adopera come perno un semplice divanetto. The Square si gioca raramente le migliori sottigliezze attraverso i dialoghi, preferendo lasciar parlare le azioni, i gesti e le composizioni. Tutto ha una carica simbolica: dagli arredi ai quadri, fino ai volti riflessi nei display degli smartphone.

Anche il sesso, quando presente, viene gestito in maniera innaturale: gli spazi deputati all’amore sono rigorosamente delimitati, e al loro interno vigono regole ed etichette. Ci sono invasori e padroni, mentre l'istinto animale, in forma di astratto personificato, viene letteralmente chiuso a chiave fuori dalla camera da letto. Le copule sono meccaniche, controllate (anche attraverso il preservativo, ostentato a più riprese). La regia si premura di “separare” gli amanti attraverso le inquadrature. La stessa penetrazione diventa oggetto di una conversazione che sottintende la negoziazione dello spazio.

Ma la vera "valanga", il momento più potente del film - che sottolinea col pennarello grosso la posizione del regista - è quello dedicato al performer “animalesco”, interpretato in maniera assolutamente eccezionale da Terry Notary, coreografo e attore per il motion capture specializzato nella resa di creature e animali selvaggi (da L'incredibile Hulk, ai film del nuovo corso de Il pianeta della scimmie, passando per la trilogia de Lo Hobbit ). A livello diegetico, la performance è l’unica autentica opera d’arte presente nel film. Non a caso l’indagine sullo spazio è alla base delle arti performative: nei lavori di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, ad esempio, lo spazio di scena viene definito pertinentemente “habitat”.

Liberato proprio nel bel mezzo di una cena di gala, l’uomo/bestia prende la sua arte talmente sul serio da squarciare il velo di bon-ton degli intellettualoidi azzimati seduti in sala, costringendoli a loro volta ad abbracciare (con evidente gusto) i propri istinti primordiali per esigenze di sopravvivenza. Ha senso: la vera arte, la performance in particolare, è tutt’altro che rassicurante. È pericolosa, non negoziabile; non riflette sui limiti: li rompe e basta. È qualcosa di più simile alla camminata sul filo di Philippe Petit (OK, ho appena rivisto The Walk) che a certe fregnacce di design che fanno da pretesto ai vernissage con buffet.

La performance "animalesca" di Terry Notary si mangia tutto il film.

Come ho detto, Ruben Östlund attraverso The Square espone e sostiene una tesi ben precisa: nessuno spazio può essere neutro o intrinsecamente buono. Un quadrato non può tenere testa al caos naturale, perché è una figura artificiosa; allo stesso modo, le regole e le leggi create dall’uomo possono reggere solo entro certi limiti, passati i quali scricchiolano. Ogni rapporto si basa su negoziazioni, prevaricazioni, sostituzioni. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Il museo si sostituisce al Palazzo Reale. Il nuovo si sostituisce al vecchio, ma mai in maniera indolore. Uscendo dal linguaggio comune, in un mondo animale come quello evocato dal performer o dallo spettatore afflitto da sindrome di Tourette, i segni e i limiti cambiano. Nel silenzio di un museo, un telefono che squilla potrà al massimo fare arricciare qualche naso, ma può diventare pericolosissimo in una giungla abitata da bestie feroci.

Ho visto The Square al cinema un paio di sere fa, giocoforza in lingua italiana (per quel che vale: il doppiaggio mi è parso leggermente superiore alla media di questi ultimi anni), e mi è piaciuto da matti (da segnalare che in originale gli attori recitano passando da svedese a inglese nel bel mezzo delle scene NDgiopep che si adegua al tono del film e sottolinea altezzosamente di averlo visto sottotitolato). Il film di Ruben Östlund è complesso, stratificato e visivamente eccezionale. Se potessi obbligarvi con la forza a guardarlo, lo farei. Ma lo spazio delle convenzioni e della legalità mi concede al massimo di consigliarvelo caldamente: fate voi.