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La ruota delle meraviglie è una vera meraviglia

La cosa che probabilmente più invidio a Woody Allen - oltre al talento, chiaro - è che arrivato a ottantadue anni, il regista newyorkese può permettersi di adoperare il set per ricostruire il proprio passato e nel caso rimodellarlo, o addirittura per resuscitare in via temporanea le varie “età dell’oro” che si è perso.

Perché OK, se da un lato la cinematografia di Allen ha abbracciato un taglio parzialmente autobiografico già a partire dalla seconda metà degli anni Settanta con Io & Annie, è pur vero che da Radio Days in avanti, e proseguendo con i vari Accordi e disaccordi (1999), Midnight in Paris (2011) o il recentissimo Café Society (2016), ha aggiunto all’esplorazione del presente l’evocazione del passato, appoggiandovi sopra di volta in volta le sue tematiche favorite, quali il rapporto con la creatività e col mondo dello spettacolo, l’osservazione dei sentimenti umani e la nostalgia.

In quest’ottica, La ruota delle meraviglie si inserisce magnificamente nel circolo tragico e nostalgico di Allen, rappresentandone la piena quadratura.

Il film è quasi completamente ambientato tra le giostre e lo zucchero filato della Coney Island degli anni Cinquanta, la stessa dove il regista originario di Brooklyn ha passato la propria infanzia. In effetti, si tratta di una vera e propria madeleine di Allen inzuppata nelle sue passioni: quella per il cinema e per il teatro, sì, ma soprattutto nella tanto amata tragedia greca e relative rielaborazioni in chiave melodrammatica, realistica e psicoanalitica di certa drammaturgia americana. Penso soprattutto allo Eugene O'Neill de Il lutto si addice ad Elettra, per il fantasma dell’incesto che spunta da un paio di dialoghi (e perché, più banalmente, viene citato in scena), o a Tennessee Williams, già omaggiato nel 2013 attraverso Blue Jasmine.

All’ombra della ruota panoramica di Coney Island, o lungo la spiaggia illuminata in modo strabiliante da Vittorio Storaro (già collaboratore di Allen nel precedente Cafè Society e “colpevole” di aver traghettato il cocciuto regista verso la fotografia digitale), si consuma il dramma di un gruppo di personaggi legati da vincoli di sangue, dalla solitudine o dall’amore. Come nelle tragedie greche, il loro destino viene guidato quasi completamente dal fato e gli unici arbitrii concessi sembrerebbero essere la menzogna o l’inazione.

La scintilla della storia si accende nel momento in cui la giovane Carolina (Juno Temple), ragazza ingenua ma di buon cuore, riaffiora nella vita del padre Humpty Rannell (Jim Belushi) e della matrigna Ginny, interpretata da una strepitosa Kate Winslet, perfetta nel ruolo di quarantenne depressa, ansiosa e lunatica; un’ex-attrice mai veramente sbocciata che si consola “recitando il ruolo di una cameriera” in un ristorante.

Kate Winslet è clamorosa, da Oscar.

Le due donne attraversano il film da protagoniste assolute; la loro stessa presenza determina in un modo o nell’altro, volontariamente o meno, il comportamento degli altri personaggi in scena.

Purtroppo, non ho avuto la possibilità di guardare il film in lingua originale, e proprio per la rilevanza ricoperta dalla recitazione, le mie considerazioni sul cast sono perlomeno incomplete. Mi limito a registrare che anche solo a livello dinamico e di presenza scenica, l’interpretazione della Winslet è il fiore all’occhiello della pellicola: in certe sequenze, la tensione e l’ansia che riesce a trasmettere sono talmente fuori scala da debordare dallo schermo per investire il pubblico in sala. In quei momenti, lo spettatore si dimentica di essere seduto in un cinema e viene assorbito completamente dalla costruzione teatrale de La Ruota delle Meraviglie. Si possono quasi avvertire le vibrazioni dell’attrice in scena, così come il timore che da un momento all’altro possa notarci e ricambiare furiosa il nostro sguardo. Tra l’altro, proprio per questa tensione sparata a mille, in un paio di scene ho avuto persino paura che alla Winslet partisse un embolo proprio lì, davanti a me.

La dimensione emotiva dell’opera viene esaltata anche dalla regia, che registra ogni minima emozione dei personaggi attraverso uno sguardo piuttosto ravvicinato. All’opposto, la scenografia, con i suoi spazi domestici e la fotografia impressionista, serve la dimensione più teatrale dell’opera: i toni cromatici degli ambienti variano a seconda delle emozioni dei personaggi, mentre la luce ne illumina il viso, quasi a voler dare loro il turno di battuta.

La fotografia di Vittorio Storaro serve alla perfezione la dimensione teatrale del film.

Per questa carica da pièce e per mille altre ragioni, La ruota delle meraviglie è forse la tragedia più riuscita e completa diretta da Woody Allen fino ad oggi, e questo nonostante un tono generale decisamente meno ombroso rispetto a un Match Point. Tra le giostre e le strade di Coney Island, risuonano sempre dei brani jazz un po’ frizzantini; alla radio passa You Belong To Me mentre i colori sparati, le luci e il registro apparentemente leggero di alcuni personaggi entrano in dissonanza col dramma di sottofondo, straniando lo spettatore. Per quanto, ad esempio, l’Humpty di Jim Belushi sembri sceso da una carrozza del tram chiamato desiderio, l’innata simpatia e una certa goffa ruvidità sprigionata dall’attore non lo rendono mai completamente tragico.

Sempre parlando del cast, ho trovato notevole anche il giovane Jack Gore, il cui Richie - il figlio di Ginny avuto da una precedente relazione - rappresenta l’alter ego più ovvio del regista, nonché suo probabile coscritto: un ragazzino dai capelli rossi che reagisce all’isteria familiare appiccando piccoli incendi o rifugiandosi nei cinema ogni volta che le cose si spingono un po’ troppo oltre.

Tra la collaborazione con David Lynch e quella con Woody Allen, il 2017 è stato un grande anno per Jim Belushi.

La voce del “corifeo” è invece affidata a Justin Timberlake, perfetto nella parte del bagnino Mickey: un giovane pseudo-intellettuale che sorveglia gli eventi dall’alto della sua postazione in spiaggia, salvo scendere di tanto in tanto per soddisfare la sua vanità e i suoi capricci di seduttore. Mickey è a tutti gli effetti un outsider rispetto ai tanti proletari che abitano il resto del film; quasi una divinità annoiata e superficiale che si diverte a gettare caos tra i mortali. Fa il bagnino, OK, ma per aiutarsi col college; vive in un appartamentino da due soldi, OK, ma al Greenwich Village. Gioca a fare il beatnik, ma è giovane, bello, istruito e chiaramente destinato a un’ascesa sociale negata agli altri personaggi.

Fino a mezzanotte baywatch. Poi a mezzanotte stacca e fa il corifeo.

Eppure, nonostante Mickey risponda ai peggiori cliché dell’intellettualoide tanto superficiale quanto pretenzioso, il regista lo guarda tutto sommato con bonarietà. In effetti, a farci caso, Allen non condanna nessuno dei suoi personaggi, gangster compresi, preferendo porsi nei loro confronti con pietà e sincera compassione, mentre attraversano, mossi da destino e passioni, tutti i topoi della tragedia: l’amore, la gelosia, la vendetta e la morte. Come i cavallini di legno di una giostra del luna park, girano in tondo incatenati al loro destino immutabile. Le loro azioni sono inevitabili, eppure proprio nel cercare di rifuggirle, nel desiderio di riscatto, si consuma il dramma di Ginny e della sua famiglia disfunzionale.

Per tagliare: con almeno un’interpretazione da Oscar - mi riferisco ovviamente a quella della Winslet - e una messa in scena sontuosa, La ruota delle meraviglie è uno dei migliori Allen dai tempi di Match Point, nonché probabilmente l’opera che riesce a condensare meglio di tutte la poetica del cineasta newyorchese.

Ho visto La ruota delle meraviglie il giorno stesso dell’uscita in sala, in lingua italiana. Il film, come ho detto, mi è sembrato davvero molto buono, e il doppiaggio in sé non è dei peggiori. Tuttavia, considerata la rilevanza della recitazione nel definire la qualità d’insieme dell’opera, vi consiglierei se possibile di recuperarla in lingua originale (io stesso conto di farlo, quando possibile, attraverso l’apposita rassegna di UCI Cinemas).