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I (nostri) migliori anni del videogioco: l’alba del 1985

Una fitta coltre bianca, primo affondo del generale inverno, rese più sopportabile lo squallore del mio quartiere, un’anonima accozzaglia di casermoni. Iniziò così il 1985, con una nevicata che la mia generazione porta nel cuore e forse non potrà mai scordare. All’epoca ero più analogico che digitale, mi sfuggiva il concetto stesso di videogioco, non avevo nemmeno idea di cosa fosse Nintendo. Le stesse otto lettere erano impresse sul Game & Watch di mio fratello, un adorabile scacciapensieri bordeaux composto da due schermi, piccoli monitor legati da una cerniera verticale. Una serie di nastri trasportatori, tanti pacchi da smistare e due buffi operai intenti a ripetere lo stesso movimento all’infinito: ci ho passato le ore, su quel gioco, tanto mi piaceva. Oggi che sono un po’ più maturo, in lui ci rivedo lo spaccato di un celebre centro di logistica e della sua presunta modernità, particolare che mi fa davvero riflettere. A prescindere, così sono entrato in contatto con Mario e Luigi.

All’epoca vivevamo in una bolla, non avevamo idea di cosa accadesse oltreoceano, se non attraverso i media tradizionali. La stampa specializzata tricolore muoveva i primi timidi passi e si specchiava in Videogiochi, apripista di un intero settore. Le console erano ormai un ricordo sbiadito, il mercato era dominato dagli home computer, nello specifico dal Commodore 64 e dallo ZX Spectrum. Nel Sol Levante c’era invece una console al comando, un sistema dal design compatto e dal software a cartucce. L’era del Famicom era iniziata nel 1983, a rilento e con qualche piccolo contrattempo, poi risolto brillantemente da Nintendo. Un anno più tardi, alla concorrenza restavano solo le briciole.

Forte dei risultati ottenuti in patria, Nintendo si fece progressivamente più ambiziosa e decise di puntare al mercato statunitense. Inizialmente la casa di Kyoto cercò il supporto di un intermediario, bussando alle porte di Atari, salvo poi ripensarci e agire in piena autonomia. L’esordio negli States avvenne il 18 ottobre del 1985, in un’area circoscritta alla Grande Mela: fu un test a dir poco cruciale, non solo per Nintendo. Con il suo design ruvido e spigoloso, il NES prese le distanze dal fallimentare passato delle console, risollevandone le sorti e scacciando così lo spettro del crash.

Qualche settimana prima, per la precisione il 13 settembre, Nintendo aveva dato i natali al suo titolo forse più rappresentativo. Super Mario Bros. non è un semplice gioco, è un’icona trasversale, il simbolo e il manifesto di un intero genere. La cura riposta nel level design, l’impeccabile sistema di controllo e l’inerzia del modello fisico sono i cardini di un capolavoro immortale, progettato da Shigeru Miyamoto e Takashi Tezuka. Una storia che per l’appunto è iniziata nel 1985, un anno a dir poco eccezionale, anche per quanto riguarda la scena arcade.

All’epoca non frequentavo le sale giochi, spazi lugubri e tetri, un mondo al quale mi sono avvicinato solo al termine delle scuole medie. E forse è stato un bene, perché mi sono risparmiato almeno un decennio di fumo passivo. Facezie a parte, sono dell’avviso che negli anni Ottanta gli shoot ’em up siano stati il genere d’elezione, vuoi perché tutto in Giappone è iniziato da lì, da quello Space Invaders assunto a fenomeno di massa, al punto da costringere la zecca di stato a coniare una quantità smisurata di monete da 100 yen, da dare in pasto agli affamatissimi cabinati. In realtà sembra che questa storia non sia altro che una leggenda metropolitana, ma alla fine non fa molta differenza: il gioco Taito è entrato a far parte dell’immaginario collettivo, generando una serie di cloni e variazioni sul tema. Con il passare degli anni, gli shoot ’em up hanno raggiunto la piena maturità, spingendosi oltre il limite delle schermate statiche. Gradius ne alzò l’asticella un po’ più in alto, con il suo scrolling orizzontale, le iconiche ambientazioni e la celebre barra dei power-up, presente nella porzione più inferiore dello schermo. La possibilità di plasmare a piacimento l’astronave, optando fra laser e pod, aggiunse un’ulteriore grado di complessità all’azione, incessante e senza un attimo di respiro.

Passando da Tokyo a Osaka, non posso di certo tralasciare Commando, celebre run and gun a scrolling verticale firmato Capcom. La prima scena del gioco sembra tratta da un film a pieno testosterone, una delle tante pellicole di genere che andavano in voga nel decennio: una giungla quasi sonnacchiosa, un elicottero che scende di quota e un soldato che si getta a terra, per poi mettersi in marcia. Super Joe da solo, contro un’intera legione armata fino ai denti. Per una strana coincidenza, il 1985 è anche l’anno di un altro Commando, il celebre film interpretato da Governator, ma non c’è connessione fra i due. Il gioco Capcom è un vero cult, poi convertito su tutte le piattaforme dell’epoca. Fra i tanti port, come molti, sono particolarmente legato alla conversione per Commodore 64, eccellente e impreziosita dalla superlativa colonna sonora firmata da Rob Hubbard.

Visto che non si vive di soli shoot ’em up, ecco che nello stesso anno Capcom cambia completamente genere e lo fa con grande maestria, con quello che diventerà il primo capitolo di una fra le sue saghe più amate. Un cavaliere dalla scorza dura – peccato che non si possa dire altrettanto della sua armatura - e la sua amata rapita dal demonio, questi gli ingredienti di un action dalle sfumature fantasy e dall’atmosfera superlativa. Non so dirvi il perché, ma il primo livello di Ghosts 'n Goblins mi affascinava e mi turbava allo stesso tempo, esercitava su di me un fascino unico. I brividi diventavano di terrore al cospetto di Red Arremer, il satanasso piazzato all’uscita del cimitero, il flagello di tantissimi avventurieri. Per poi tacere del boss, quel colosso saltellante a guardia della fortezza: tutti ricordi indelebili, quelli di un gioco memorabile. Anche qui, l’amarcord fa rima con la conversione per Commodore 64 firmata Elite, incompleta di alcuni livelli eppure fantastica, chiaramente se rapportata ai limiti del piccolo computer.

Conscia che il mercato casalingo era solo appannaggio di Nintendo, SEGA si focalizzò sulla scena arcade, recitando la parte del leone. Lì era una stella di prima grandezza, in quel settore quasi snobbato dalla casa di Kyoto. Perennemente ispirata, la grande S ha inanellato un successo dopo l’altro, mettendo a frutto il talento dei suoi game designer, primo fra tutti il geniale Yu Suzuki. Classe 1958, Yu entra a far parte dell'azienda nel 1983, nelle vesti di programmatore. Forte di un talento innato, dodici mesi più tardi viene promosso a project leader, un ruolo di grande responsabilità. Inizia così la stesura del suo primo capolavoro, un gioco destinato a fare epoca. Suzuki analizza al microscopio il mondo delle moto, rigorosamente con il casco in testa ben allacciato e le luci accese, anche di giorno. Ne assapora le pieghe in curva, non tralascia alcun dettaglio, annotando il tutto sul taccuino. Nasce così Hang-On, un gioiello di programmazione e design, passato alla storia per il suo cabinato idraulico, la riproduzione in scala di un bolide a due ruote. Ci si sedeva a cavalcioni lì sopra, inclinandosi sul lato, con l’illusione di essere in pista.

Nel 1985, Suzuki era alla prese con un secondo progetto, sviluppato quasi in parallelo. Le cronache ci parlano di uno sparatutto a tema militaresco, votato quasi al realismo, progetto abbandonato in corso d’opera, perché mal si sposava con le limitate risorse hardware a disposizione. Yu se ne fece una ragione e lo trasformò radicalmente, passando a un fantasy quasi surreale, fatto di colori vibranti e creature bizzarre. Al centro dell’azione collocò un biondo, lo armò di fucile e gli mise a disposizione un jet pack, con cui librarsi nell’azzurro SEGA. Tutto si riassume nel campionamento vocale ripetuto all’inizio di ogni partita, il celebre “Welcome to the Fantasy Zone! Get ready!” ben scandito dal cabinato. Space Harrier è un sogno a occhi aperti, un titolo dal carisma quasi impareggiabile, un’esperienza unica nel suo genere.

Si chiude così la mia cronistoria del 1985, un anno a dir poco eccezionale per il mondo videoludico, un periodo che ho vissuto ieri con l’innocenza di un bambino e oggi con la consapevolezza di un adulto. Sia chiaro, la mia resta una visione personale e volutamente nippocentrica, perché non posso tradire il mio credo. A prescindere da ciò, sono stati dodici mesi a dir poco straordinari, che vi invito a ripercorrere come più vi aggrada, magari via emulazione.

Il 1985 riassunto in maniera arbitraria e incompleta: The Bard's Tale, Commando, Gauntlet, Ghosts 'n Goblins, Gradius, The Oregon Trail, Space Harrier, Super Mario Bros., Ultima IV: Quest of the Avatar.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.