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Accesso > possesso?

Fatto: lo scorso 28 febbraio, Microsoft, in retrovia rispetto a Sony e magari tribolata per l’arrivo di Switch, ha deciso di toccarla pianissimo annunciando Xbox Game Pass, un servizio di noleggio forfettario di giochi dietro obolo mensile (9.99€) che raggiungerà il mercato di 27 paesi già a fine primavera. Il sito Microsoft parla di oltre cento contenuti disponibili al lancio, pescati dalla libreria di One e 360, fermo restando che il servizio sarà disponibile solo per la console ammiraglia, appoggiandosi nel secondo caso sulla retrocompatibilità della stessa. Tra i giochi già sbandierati ci sono Halo 5: Guardians, Payday 2, NBA 2K16 e LEGO Batman, ma immagino che a ridosso del lancio salterà qualche altro bossolo grosso. Ai primi titoli, mese dopo mese, se ne aggiungeranno altri, e ogni tanto qualcosa pure sparirà. Microsoft ci tiene a puntualizzare che i giochi non saranno mandati via streaming, ma scaricati sulle console degli abbonati e fruibili anche offline (in questo caso per un massimo di trenta giorni).

Previsti inoltre sconti sui DLC dei titoli a fitto, e in caso si decida di abbandonare il servizio, i progressi e gli obiettivi resteranno appiccicati agli account dei giocatori. Purtroppo, l’abbonamento non fornirà anche i servizi offerti da Live Gold, che dovrà essere attivato in parallelo per godere dell’online (ma nemmeno sarà vincolante per accedere a Game Pass, va detto). Mentre state leggendo queste righe, il servizio è già in fase di testing/preview per gli insider con una prima build e una ventina di titoli Live Arcade.

Le forze del male.

L’annuncio di Microsoft, oltre a fomentare l’utenza e montare le premesse per Scorpio, ha fatto preoccupare gli investitori di GAME e GameStop, innescando conseguentemente qualche riflessione degli esperti. Tra le più interessanti in cui mi sono imbattuto segnalo questo articolo di gamesindustry.biz, i cui concetti chiave, per quanto semplici, non sono banali: nonostante gli allarmismi e il comfort del digital delivery che sta pian piano piegando le abitudini dell’utenza console, il retail fisico terrà botta ancora per un po’, fermo restando che le catene hanno già iniziato a diversificare il proprio business per limitare futuri e inevitabili danni (eSport, gadget, abbigliamento, accessori, etc.). Tuttavia, l’arrivo di Game Pass, ed eventualmente di altri servizi simili, potrebbe rappresentare un problema per il segmento dell’usato, che al momento è una delle principali fonti di entrate per i grossi rivenditori, nonché un tema piuttosto controverso per tutta una serie di ragioni. Basti dire che se oggidì l’usato viene spinto così tanto dalle catene è perché per loro rappresenta un guadagno liscio, mentre lascia a becco asciutto publisher e sviluppatori, andando a compromettere la seconda vita di un prodotto, inteso come nuovo. In soldoni: se GameStop ha già recuperato attraverso i clienti una bella scorta di copie usate di un certo gioco, non avrà ragionevolmente bisogno di attingere agli stock dei distributori. Un servizio come Game Pass, invece, permetterebbe agli utenti di accedere a titoli già usciti da uno, due o tre anni a prezzo più che modico senza passare dall’usato.

Altro dato interessante che salta fuori dall’articolo di cui sopra riguarda i numeri degli abbonati a Netflix, che nel 2011 era costituito per metà dai possessori di console e relative app. Oggi, con la diffusione di smart TV o accrocchi à la Chromecast, la situazione potrebbe essere un filo diversa, ma resta il fatto che i consolari sono evidentemente avvezzi ai servizi digitali su abbonamento e rappresentano un obiettivo sensibile per le aziende.

Comunque la si voglia vedere, l’entrata in scena di Game Pass è una decisa evoluzione del modello Instant Game Collection di Sony, un’evoluzione tutto sommato prevedibile e in linea col trend che da qualche anno sta rivoltando i settori dell’intrattenimento e della cultura (Netflix, Amazon Prime Video, Kindle Unlimited, Spotify), ma anche altri, come ad esempio il trasporto su gomma che ha visto fiorire servizi di carsharing come Zipacar che ha cambiato la vita all'irreprensibile Bittanti. Insomma, il mercato di oggi sembrerebbe prediligere il modello dell’accesso piuttosto che quello del possesso, che dopo aver tenuto botta per gli anni Ottanta e Novanta ha dovuto piegarsi di fronte alla più grossa crisi economica dai tempi del dopoguerra. Oggi il modello dell’accesso sembrerebbe l’unica via sostenibile per coniugare i desideri dei consumatori con i danni inflitti dalla crisi.

Limitandoci comunque all’intrattenimento, è evidente che in questi ultimi anni si tende a possedere meno e fruire comunque di più contenuti rispetto a prima, spendendo mensilmente cifre che negli anni Novanta consentivano giusto l’acquisto di un numero esiguo di DVD o CD. A margine, i più anzianotti ricorderanno che fino a qualche anno fa si finiva per guardare/ascoltare più o meno sempre le stesse robe a ripetizione, perché quello passava il convento, evenienza che ha contribuito a creare una “cultura condivisa della citazione” che oggi, con la volatilità e il ricarico costante di Internet, sembrerebbe aver rallentato parecchio: non è un caso se la cultura pop degli anni Ottanta e Novanta rappresenta ancora un fortissimo punto di riferimento per i media.

Divagazioni a parte, l’annuncio di Microsoft mi ha spinto a fare un paio di riflessioni sul senso di questo modello applicato alle abitudini dei giocatori. I videogame, diversamente dalle serie TV o dai film che permettono una fruizione rapida, o quantomeno abbastanza misurabile in termini di tempo, e non necessitano grossi sforzi di decodifica o lettura, sono ancora grossomodo ancorati al concetto di sfida, di impegno. A una concezione più “sportiva” che narrativa, se mi si passa il termine. Inoltre, il tempo di completamento di un videogame medio è spesso lunghetto, o comunque meno ponderabile in quanto varia da persona a persona (al di là delle “oltre sessanta ore di gioco” statistiche). Prendiamo i tripla A; oggi è difficile per un adulto con un’occupazione, degli impegni familiari o sociali e magari altre forme di svago, pensare di giocarne più di due o tre al mese (a dire tanto). Forse il videogioco, sul piano dell’utilizzo, potrebbe avere più cose in comune con la lettura, con i libri, rispetto a film o playlist musicali, e sarebbe magari più pertinente guardare a servizi come Kindle Unlimited per lanciarsi in paragoni. OK, al momento Unlimited è distante dal successo di Netflix non solo per il dislivello di appeal del bene proposto (grazie al cazzo), ma proprio per questioni legate alle pratiche di consumo, così come pure è necessario non prendere i parallelismi alla lettera: il rapporto tra i libri e il mondo digitale è piuttosto complesso.

Il libro fisico ha alle spalle una storia lunghissima, forme e strutture che hanno influito sul modo in cui leggiamo, scriviamo, organizziamo i discorsi e – conseguentemente - pensiamo; tutto questo senza entrare nel ginepraio della sfera emotiva: non è un caso se dopo un buon trend iniziale degli ebook molti lettori stanno tornando al formato cartaceo. Sicuramente le cose cambieranno ancora nei prossimi anni, resta il fatto che i libri, sul piano delle abitudini, sono molto meno flessibili rispetto al cinema o alla musica (perlomeno, la musica riprodotta), che digeriscono piuttosto bene i passaggi di supporto (vinile, CD, VHS, DVD, etc.). Il videogioco addirittura nasce in formato digitale, e al momento tra tutti i media è probabilmente quello meno resistente ai cambiamenti. Eppure, al di là di tutte le variabili e le differenze, trovo piuttosto interessanti le analogie tra libri e videogame: entrambi difficilmente si consumano in un’unica sessione (metto un segnalibro e chiudo il libro/salvo i progressi e spengo la console); inoltre richiedono più impegno e forza di volontà rispetto a un film, cosa che riduce il loro consumo mensile a poche unità per persona, in media.

Così, per rimanere a proprio agio, evitare lo stress da prestazione e dare un reale valore al servizio per cui si paga, potrebbe avere senso scollarsi il più possibile dall’idea del possesso e abbracciare l’accesso nel modo più zen possibile, ancora di più che con Netflix o Spotify. Non pensare in chiave di buffet, insomma, ma piuttosto guardarsi alle spalle e fare due conti sul numero di contenuti a cui era possibile accedere fino a dieci o quindici anni fa al medesimo costo dei servizi di oggi.

Fossi nei panni di Microsoft o di eventuali futuri competitor, d’altra parte, cercherei di puntare sulla qualità, piuttosto che sulla quantità di contenuti, diversamente magari da altri servizi che fanno leva su cataloghi apparentemente immensi: in fondo, film e serie TV hanno un pubblico decisamente più ampio e diversificato rispetto a quello, specifico, dei videogiochi.

Tutte 'ste faccende fanno venire in mente i tempi in cui Trip Hawkins si era lanciato in una visione tanto sbarellata quanto avanti di vent'anni almeno con il 3DO.

Cambiando leggermente la prospettiva, mi sono anche fatto qualche domanda sulle possibili conseguenze dell’annuncio di Microsoft sui modelli di sviluppo attuali, e magari sull’evoluzione dei generi. Qualche giorno fa, nel corso di un podcast di Major Nelson, Phil Spencer si è detto interessato a infilare nel catalogo di Game Pass anche giochi nuovi di pacca, magari addirittura in esclusiva; tendenzialmente non i gioconi AAA che venderebbero bene anche sul mercato convenzionale, ma più sensatamente titoli a episodi dal taglio fortemente narrativo che andrebbero ad affiancare il modello delle serie TV di Netflix.

Insomma, assieme a uno o due titoloni da tenere di sottofondo, probabilmente il giocatore-tipo dei prossimi anni potrebbe abituarsi a produzioni meno complesse sul piano della sfida e consumabili nel giro di un un paio d’ore, come un film. Quel genere di produzioni che al momento hanno un pubblico formato da appassionati o afferente alla scena indie. Penso a titoli come Gone Home o Virginia, che potrebbero trovare nel modello ad accesso su abbonamento la strada ideale per esprimersi al meglio sul mercato. Nel migliore degli scenari possibili, potrebbe pure scavarsi lo spazio anche per generi oggi poco battuti come i docu-game (penso ad esempio a Venti Mesi, di We Are Müesli) o chissà che altro ancora.

Venti Mesi è una raccolta di venti storie giocabili che raccontano la resistenza e la liberazione dal nazifascismo.

Insomma, il mercato potrebbe diventare più vario, potrebbero saltar fuori ondate casual più consapevoli - o magari no, ma va bene uguale – assieme a nuove implementazioni hardware “al ribasso” per le produzioni di piccolo taglio, che potrebbero magari gettare le basi di un qualche benedetto standard unico (la sparo grossissima e mi tocco i coglioni).

Infine, penso alle occasioni per il retrogaming, o in generale per il recupero di giochi classici. Non tanto per me o i giocatori più attempati, che – caso rarissimo per una generazione – hanno avuto il privilegio di assistere alla nascita di un nuovo medium e di crescerci a fianco, ma per i più giovani, che magari si sono persi dei momenti videogiocosi fantastici e potrebbero recuperarli semplicemente sfogliando nel catalogo “all you can eat” di turno, senz’altro più comodo, economico e appetitoso delle varie virtual console o dei supporti originali, spesso di difficile accesso.

In chiusura: mi rendo conto che le considerazioni qua sopra prese tutte assieme compongono un mappazzone ottimista e zeppo di “se” e di “ma”. La mia vuole essere giusto una lista di cose che mi son passate per la testa dopo l’annuncio di Microsoft, un annuncio che sul piano degli scenari ipotetici mi ha dato parecchio entusiasmo. Poi, insomma, se avessi in tasca i tappi per tutti i buchi del mio discorso, probabilmente a quest’ora sarei ricco.