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eXistenZ #50: Videogiochi & serie TV tra rappresentazioni, distorsioni e ibridazioni - Ovvero: l’imprinting dei Ludologica mi fotte e mi fotterà sempre con i titoli

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

Nel film Il grande freddo, del 1983, un gruppo di amici sui trent’anni si ritrova a condividere un weekend dopo anni di lontananza. Abbandonati a nostalgie sessantottesche, a un certo punto si mettono a fare confronti col passato, arrivando alla conclusione che a essere migliorati, rispetto agli anni Settanta, sono stati soltanto i videogame.

Ecco, se oggi mi capitasse una conversazione del genere con qualche amico passatista, probabilmente, anziché buttarla sui videogiochi mi giocherei la carta delle serie TV (fermo restando che, con buona pace dei pessimisti, trovo complessivamente migliorati pure i primi). Prendendola a grana grossissima: durante gli anni Settanta e Ottanta, le produzioni televisive dal taglio seriale c’erano, non erano male, ma adottavano perlopiù una struttura verticale con - nel migliore dei casi - una breve sottotrama orizzontale composta da una manciata di episodi chiave. Intendiamoci, queste produzioni all’epoca funzionavano benone proprio per la capacità di illuminare in un attimo contesto e personaggi, di spalmare le più diverse tematiche su canovacci standard, ma soprattutto perché erano in grado di tirare in mezzo lo spettatore in qualsiasi momento, spingendolo a tornare per l’episodio successivo ma senza l’ansia di recuperare quelli precedenti, che all’epoca il videoregistratore, se c’era, era un lusso. Per fare qualche nome, penso a serie come Happy Days, Casa Keaton, Supercar, A-Team, Miami Vice o Magnum P.I. (tra l’altro, caso vuole che ne Il grande freddo il personaggio interpretato da Berenger sia un attore televisivo alla Tom Selleck).

Poi, poco a poco le cose sono cambiate, le strutture si sono fatte meno rigide e gli episodi hanno smesso di essere necessariamente autoconclusivi; le serie TV si sono mescolate agli sceneggiati, alle soap e persino ai fumetti, prendendone a prestito tempi narrativi e strutture. Se dovessi identificare a naso il primo grosso innesco di questa evoluzione, mi butterei sul solito Twin Peaks di David Lynch, del 1990, che pur rimanendo un unicum per parecchio tempo, ha comunque dato il la a un sacco delle cose venute dopo.

A far esplodere il secondo botto, invece, è stato Lost, nel 2004, che ha creato le basi di pubblico e di mercato per permettere alle serie di crescere ancora un poco, cavalcare le dinamiche di internet e via dicendo, su su fino ai vari Netflix e Amazon Prime Video, che le hanno infine sciolte dai palinsesti televisivi, dal modello poco sostenibile dei ventiquattro e rotti episodi annuali, da un certo tipo di business legato alla vendita di spazi pubblicitari e, conseguentemente, dai troppi compromessi da buttare giù in fatto di pubblico e contenuti. Insomma, le serie hanno finito col superare la soggezione verso il grande schermo, coinvolgendo anche autori, registi e attori di prima fascia senza dar loro la sensazione di giocare in serie B.

Per tutta la seconda metà dello scorso decennio, le serie sono state lo strumento narrativo popolare di riferimento per inquadrare e rappresentare la società occidentale e, soprattutto, l’America del dopo 11 settembre. Le ragioni, boh, non le saprei mettere a fuoco con precisione: forse gli autori televisivi, meno ingessati rispetto a quelli del cinema, hanno avuto modo di muoversi meglio e osare qualcosina in più. Non è un caso che robe come 24, Lost, la prima stagione di Heroes, Flashforward, Fringe, Utopia e lo sfortunato (e bellissimo) Rubicon siano immerse fino al collo in scenari apocalittici o post-apocalittici, nel terrorismo, nella fantascienza distopica e conseguenti metaforoni.

Bon, finita la lezioncina noiosa solita e scendendo di tono rispetto al terrorismo e alla crisi della società occidentale, un’altra roba che secondo me le opere televisive hanno saputo raccontare e rappresentare abbastanza bene in questi ultimi anni sono stati i videogiochi, con cui tra l’altro condividono un sacco di cose: la dimensione spaziale, lo schermo televisivo, il monitor o quello che è, che influenza giocoforza il codice visivo di entrambi i media, nonché la prossemica di chi li utilizza. Tra una cosa e l’altra, videogiochi e serie hanno sempre dialogato, e continuano a farlo pure oggi, visto anche che le app per console di Netflix hanno lubrificato l’ingresso nei salotti di casa del colosso dello streaming. Ancora, ci sono state serie TV che hanno scelto deliberatamente di appoggiarsi a strutture ludiche o videoludiche, fomentando la partecipazione degli spettatori o costruendo un dialogo basato sull’interpretazione. Penso di nuovo a Lost, che ha ereditato moltissimi elementi di linguaggio dai media interattivi sia a livello di costruzione della trama (l’intera vicenda dei sopravvissuti è sostanzialmente un’enorme avventura grafica piena di puzzle), che di marketing (la produzione ha utilizzato gli strumenti della gamification e dei cosiddetti alternate reality game per promuovere la serie attraverso The LOST Experience e FIND815); penso al più recente Westworld, che oltre a strizzare di continuo l’occhiolino ai vari GTA e Red Dead Redemption, si racconta attraverso una meccanica non lineare per giocare con lo spettatore e spingerlo alla ricerca di strumenti interpretativi anche extra-testuali. E i videogiochi, pure loro, non hanno menato il can per l’aia, e quando è servito si sono lasciati andare all’estetica televisiva senza problemi: penso alla divisione in capitoli di Alan Wake o di Until Dawn (che hanno pure il recap), o alle produzioni a episodi di Telltale Games.

In virtù di questo continuo “do ut des”, le serie rappresentano una bella cartina tornasole per osservare la penetrazione del videogioco nella società, i cambiamenti nella rappresentazione del videogiocatore-tipo e nella costruzione scenica delle prassi e degli strumenti videoludici.

Negli show degli anni Ottanta e Novanta, ad esempio, i videogiochi - quando e se apparivano - non erano in genere rappresentati come un comune elemento di contesto (come i film, i libri, la musica o il design), ma erano semmai un’eccezione che catalizzava la trama dell’episodio. Eppure, anche a queste condizioni non sempre girava male come si potrebbe pensare: in Friends é possibile incappare in un riferimento a DOOM, mentre nell’episodio di Beverly Hills 90210 intitolato The Game is Chicken, andato in onda nel 1993, le reginette delle serie, Brenda e Kelly, si mettono giù da combattimento per andare a un appuntamento al buio con due ragazzi che si riveleranno essere i classici nerd da macchietta (uno dei due, tra l’altro, è interpretato da Seth Green, che ritroveremo qualche anno dopo in Buffy). Le ragazze sulle prime rognano, poi abbozzano e finiscono con i loro cavalieri in una sala giochi, dove - levatasi la puzza dal naso – cedono al piacere di qualche partitella. Insomma, molti stereotipi, OK, ma almeno i videogiochi svolgono una funzione sociale, catartica e nostalgica (attraverso i coin-op, Brenda e Kelly ripensano alla loro infanzia), e non ci sono tracce di isteria da violenza. Per dire: Scrubs, pur essendo una serie più recente, piacevole e vicina al target dei videogiocatori, se la cava meno bene. Nell’episodio My Hard Labor, il chirurgo Turk e i colleghi vanno in fissa per uno sparatutto, solo che la cosa è connotata malamente, con termini e riferimenti gestiti a casaccio e atteggiamenti di gioco davvero poco credibili. Chiaro che non vado invocando la filologia piena, eh, soprattutto considerato che quando vengono rappresentati ambiti che non conosco, probabilmente, mi sorbisco i peggio strafalcioni; però qua bastava veramente poco, per gestire la cosa in modo meno grossolano e antipatico.

Poi, più o meno attorno alla seconda metà del decennio scorso, la cosiddetta “roba da nerd” è diventata di moda. Il che, a pensarci, era tutto sommato inevitabile per ragioni generazionali: i ragazzini cresciuti durante gli anni Settanta e Ottanta hanno vissuto l’infanzia a contatto con computer e videogame, chi più e chi meno, e negli anni Duemila sono andati a riempire le fila dei giovani adulti che lavorano, guadagno uno stipendio e (crisi permettendo) spendono; insomma, sono diventati cibo per il mercato. A ridosso di questo boom, hanno iniziato a fioccare serie come Chuck, Video Game High School, The Big Bang Theory, The IT Crowd, Silicon Valley e Halt and Catch Fire, che sono un autentico crogiolo di citazioni videoludiche più o meno cólte, come ad esempio le riflessioni di Sheldon su Super Mario 64 o i ripetuti riferimenti alla avventure testuali presenti in Chuck, ma anche di un sacco di product placement sfacciato.

Più sofisticato in questo senso è l’approccio generale di Halt and catch fire, il period drama della AMC concentrato sull’evoluzione della scena dei personal computer durante gli anni Ottanta e Novanta. Come da premesse, si vede di tutto: dai C64 al NES, passando per le avventure testuali come Colossal Cave Adventure (che la AMC ha addirittura messo a disposizione sul sito ufficiale della serie). Tra l’altro, dal momento che la serie è in buona parte ambientata in Texas, emergono pure dei gustosi parallelismi con gli inizi di ID Software raccontati in Masters of DOOM (che viene facile immaginare tra le reference della serie).

Halt and Catch Fire dovrebbero farlo vedere nelle scuole.

Prescindendo dalla sfera più strettamente geek, dove i videogiochi sono una tappezzeria obbligata per ovvie questioni, le cose si fanno più interessanti in serie recenti dedicate ad altro. In Una mamma per amicai componenti del gruppo musicale degli Hep Alien sono dei giocatori accaniti, e hanno spesso in mano i controller del GameCube. In Weeds, incentrata sulle vicende di una giovane madre della borghesia americana costretta a vendere Marijuana per mantenere i figli dopo la vedovanza, girano parecchie console, perlopiù portatili come DS e DSi, utilizzate con nonchalance anche dalla protagonista nei ritagli di tempo.

In Rubicon, spy-story della AMC rimasta purtroppo a galla per una sola, bellissima, stagione, due personaggi ingaggiano un flirt partendo dalla comune passione per Zelda, e c’è pure di mezzo un bel tatuaggetto della Triforza.

Ancora, nella comedy Raising Hope, un personaggio gioca a Pitfall! su un vecchio Atari 2600, mentre il figlio ventenne si diletta con l’Xbox 360; generazioni diverse su console diverse: mica male, come spunto, tutto sommato.

Pitfall! spunta fuori durante un episodio di Raising Hope.

Vale la pena di specificare che in tutte le situazioni appena citate i personaggi che giocano non sono completamente in bolla: i musicisti di Una mamma per amica sono dei ragazzi irrisolti sia nell’ambito personale che professionale; la protagonista di Weeds è pur sempre una spacciatrice, oltre che un’adulta rimasta bloccata nell’adolescenza; la coppietta di Rubicon si occupa di informatica e tecnologia, quindi area geek con tutte le scarpe, mentre la famiglia di Raising Hope è decisamente disfunzionale, e anche in quel caso ci sono di mezzo degli adulti non cresciuti. Insomma, tutte persone sopra le righe, eccezioni, per così dire, ma bisogna anche osservare che in genere la narrativa tratta più volentieri le anomalie, piuttosto che le convenzioni, e siamo pur sempre in una zona di grigio impensabile fino a qualche anno fa, con uno spettro di rappresentazioni videoludiche che vanno dall’accurato al ricercato, a testimonianza del fatto che autori e spettatori si sono sciolti parecchio.

Piuttosto interessante ai fini del mio discorso è la serie How I Met Your Mother, nella quale un gruppo di scanzonati trentenni newyorkesi passa senza problemi dallo SNES al Wii senza sentirsi fuori posto. Diversi episodi della serie rivelano la familiarità dei personaggi con i videogiochi. In uno in particolare, Desperation Day (2011), il giovane avvocato Marshall Eriksen torna nella sua casa natale in Minnesota e, in un momento difficile, trova un po’ di conforto nel suo vecchio Game Boy e nel Super Nintendo.

Marshall affronta i problemi della vita giocando a Dr. Mario.

Marshall e Ted giocano a Super Mario Kart. Credo che il controller di Marshall sia quello del NES, ma insomma, chissene

Tra l’altro, lo stesso Marshall, nell’episodio The Magician’s Code: Part 1 trasmesso nel 2012, all’apice di una sbronza clamorosa ha pure una visione mistica del primo The Legend of Zelda sul monitor di uno sportello ATM.

Marshall sbrocca e vede Zelda sul monitor dello sportello ATM.

Tutti i riferimenti sono ben scelti e piuttosto pertinenti. Cosa più importante, pur avendo dei tratti di personalità eccentrici, i personaggi di HIMYM non sono degli outsider: vivono delle vite tutto sommato ordinarie e nel definirli, i videogiochi non sono un elemento sui generis, ma uno dei tanti riferimenti pop di contorno alla pari di film, libri e musica.

Buttando invece un occhio alle serie animate (anche) per adulti, I Simpson, nel corso degli anni, di rappresentazioni videoludiche ne ha ospitate a bizzeffe, e la serie di Groening è interessante perché, per via della sua longevità, si presta benone a illustrare la faccenda dei cambiamenti. Durante le prime stagioni, i videgiochi compaiono, ma sono connotati piuttosto negativamente e resi in maniera sciatta e imprecisa. Celebri in questo senso il tie-in succhiasoldi di Waterworld, nonché la parodia di Mortal Kombat, Bonestorm, e il simulatore di golf Lee Carvallo's Putting Challenge (reso in italiano con l’indimenticabile Ammazza che mazza), che compaiono entrambi in un episodio natalizio del 1995.

Poi, con gli anni, vuoi per il vento nerd a favore , vuoi per il turnover degli sceneggiatori, la rappresentazione dei videogiochi si è fatta via via più decente, fino ad arrivare alla calzante parodia della console Wii, la Funtendo Zii dell’episodio Million Dollar Maybe (2010), impiegata in una casa di riposo pertinentemente alla vocazione casual dell’originale. Cercando qua e là, sono anche incappato nella versione simpsoniana dell’E3, l’E4, comparsa nell’episodio The Food Wife (toh!) del 2011, e persino in una citazione di Portal nell’episodio How I Wet Your Wather (ri- toh!), andato in onda nel 2012.

OK, mi ha fatto ridere.

Diversamente, in South Park il rapporto con i videogiochi tutto sommato non è stato gestito poi malaccio fin dall’inizio. In un celebre episodio, Fate l'amore non Warcraft, gli autori si sono avvalsi della collaborazione diretta di Blizzard, che ha gentilmente prestato brand e loghi originali (indovinate di cosa). Chiaro, videogiocatori e MMORPG sono messi al centro della satira, ma quantomeno gli autori, oltre ad aver scelto di prendere di mira una fetta ben precisa di giocatori, hanno avuto la decenza di portare le loro stoccate con un briciolo di cognizione, dimostrando quantomeno di conoscere l’oggetto dello scherno. Tra l’altro, per quanto iperbolica, la rappresentazione dei giocatori di WoW presente nell’episodio fa ridere, funziona, e nella mia pur breve carriera da Warlock mi è capitato di conoscere almeno due o tre soggetti parecchio abbruttiti dalle troppe ore di gioco (un mio caro amico, che chiamerò semplicemente “R”, a suo tempo si era addirittura candidato di sua sponte alla cassa integrazione per poter stare a casa a livellare tutto il giorno). Poi, voglio dire, di stereotipi massacrati è piena la comicità, e i giocatori qualche volta potrebbero fare spallucce e riderci sopra: pure quello fa parte del processo di assorbimento nella norma, in fondo.

Chiudo la carrellata con una curiosità che non fa statistica: di recente mi sono imbattuto in un episodio di Modern Family dedicato alla realtà virtuale, dove la stessa è rappresentata come una sorta di casco magico che trascina il giocatore a correre qua e là per la casa mimando scene di combattimento assurde e poco credibili. Che la VR sia una periferica ancora troppo giovane per essere rappresentata come si deve? Vai a sapere™.

Modern Family esagera con la VR.

Ribaltando un attimo la prospettiva, vale la pena di spendere qualche considerazione anche su quei casi in cui l’estetica televisiva ha scelto di attingere dai videogame. Lasciando da parte gli eventi sportivi in TV, che negli anni sono diventati sempre più simili alle controparti simulate, sia a livello di regia che di gestione delle informazioni e dell’interfaccia, anche le serie si sono fatte influenzare. In particolare, quando qualche anno fa sono incappato nelle scene di arrampicata del ragazzetto Stark nel primo episodio de Il trono di spade, non ho potuto fare a meno di pensare a Assassin’s Creed, e considerato che la serie HBO è un fantasy, e che i fantasy tradizionalmente incollano un certo tipo di spettatori, non credo si tratti di un caso. Vedere per credere:

Ancora meglio fa l’episodio (splendido) della terza stagione di BoJack Horseman, Fish Out of Water (2016), nel quale passa una sequenza di qualche minuto piena zeppa di riferimenti videoludici, sia per il taglio visivo che per le musiche di sottofondo, ma soprattutto per le meccaniche slapstick che rimandano ai platform, in particolare alla serie Oddworld creata da Lorne Lanning. La sequenza è pure interessante, perché descrive una sorta di rito di passaggio per il personaggio di BoJack, e a questo proposito gli autori hanno scelto di rifarsi al linguaggio videoludico, piuttosto che a quello teatrale. Non mi pare nemmeno un caso che sia stato tirato in mezzo Lanning, tra l’altro, considerata la grande passione del designer per la mitologia, le religioni, i lavori di Campbell & Vogler, e per il suo aver costruito alcuni aspetti del gameplay di Oddworld sulla base dei rituali aborigeni e delle tradizioni sciamaniche (potrebbe sembrare la mia solita deformazione da fissato per il mito, ma ‘ste cose me le ha proprio raccontate lo stesso Lanning tanti anni fa ad Aosta: lui teneva una conferenza, io ero lì per infastidirlo).

Tirando i remi in barca: con questa galoppata ho cercato di mostrare, con degli esempi presi un po’ a casaccio tra le robe che ho visto in TV, come la rappresentazione mediatica dei videogiochi nel corso degli ultimi venti e trent’anni sia passata dalla macchietta occhialuta e dall’approssimazione a qualcosa di più accurato e pertinente. Con questo non voglio dire che le serie hanno sdoganato i videogiochi, più che altro perché i videogiochi si stanno semplicemente sdoganando da soli col passare del tempo, che ne registra le influenze e, per così dire, li storicizza. Però, insomma, è sempre bello sapere che chi campa raccontando storie li infili qua e là.