Civiltà perduta, sudore e ossessione, ma soprattutto sudore
Sono andato al cinema a vedere The Lost City of Z a fine marzo, accompagnato dall'insopportabile brezzolina parigina e da un bel fresco. Oddio, in realtà non ricordo che tempo facesse il 20 marzo, ma insomma, sicuramente si stava meglio di adesso. D'altra parte il film arriva in Italia questa settimana, a giugno inoltrato, quando siamo invece immersi in un caldo di quelli che ti fanno sudare senza tregua, specialmente se ti ritrovi seduto davanti al computer senza aria condizionata a disposizione. Quindi, se andrete a vederlo, in sala ci arriverete nello stato d'animo giusto, fradici, anche se l'umidità delle nostre parti, per quanto a tratti bella fastidiosa, non è certamente paragonabile a quella affrontata da Percy Fawcett negli anni Venti o anche solo da James Gray negli anni scorsi. Senza contare che poi tanto il film ve lo guardate con l'aria condizionata del cinema. Ad ogni modo, qui si conclude il paragrafo introduttivo denso di nulla, a testimonianza del fatto che in questo caso faccio un po' fatica a parlare del film con tre mesi di ritardo ma, ehi, ci tengo lo stesso a scriverne perché mi è piaciuto parecchio. Tanto non è che devo fare la critica seria, non mi paga nessuno.
Civiltà perduta è un film bizzarro, ipnotico, straniante, che ti mette veramente addosso la sensazione di stare sudando e soffrendo come i protagonisti anche se ti ritrovi spaparanzato su una comoda poltroncina, armato di cochino e aria condizionata. Membro onorario del club "film girati come trent'anni fa", è allo stesso tempo attuale nei temi, nel modo in cui parla di umanità, ossessioni personali, società patriarcale, sogni e incapacità di gestire l'evoluzione della propria vita. Ma in mezzo a tutta quell'avventura, quell'esplorazione, quel fascino di territori ed epoche persi nel tempo, emerge soprattutto il ritratto di un uomo alla prese con la più comune delle realizzazioni, il momento in cui ti rendi conto che sono trascorsi i decenni e i tuoi obiettivi più cari rimangono lontanissimi, forse ancora più di quando li sognavi da ragazzino. La differenza rispetto al modo in cui questa situazione viene vissuta dalla maggior parte della gente sta però nella maniera in cui Fawcett decide di non mollare il colpo e, anzi, spingere ancora più forte verso una direzione apparentemente impossibile, più dura che mai.
A interpretare il ruolo del caro Percy, un ufficiale dell'esercito britannico che trascorse una buona fetta del ventesimo secolo conducendo spedizioni in Amazzonia per disegnare mappe e scovare luoghi nascosti, c'è un ottimo Charlie Hunnam, stanco, spossato e circondato da un cast efficacissimo, che si muove stoicamente placido lungo le acque di un fiume i cui pericoli vengono ritratti non come emozionanti momenti da thriller ma sotto forma di elementi imperscrutabili e inevitabili di un mondo tutto da scoprire. E il fascino di Civiltà perduta sta anche e soprattutto lì, oltre che nella pervicacia surreale e un po' cretina con cui il suo protagonista insegue la propria ossessione fino alla fine. Sta nella naturalezza sporca, spenta e tranquilla con cui tratteggia un mondo affascinantissimo senza spingere mai sullo spettacolo, sul fascino del mistero che si nasconde dietro ogni angolo. I luoghi disegnati da James Gray e Darius Khondji esprimono il fascino della normalità, il credibile realismo della luce naturale che rende tutto opaco e bellissimo senza bisogno di patina. E proprio per questo sono bellissimi.