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L’evoluzione di uno showrunner: Damon Lindelof, da Lost a The Leftovers

Questa sera, alle 21.15, su Sky Atlantic andrà in onda il primo episodio della terza ed ultima stagione di The Leftovers - Svaniti nel nulla. Per l'occasione, riciclo sulle pagine di Outcast un paper che ho elaborato nei giorni scorsi in occasione dello scritto dell'esame, previsto per il corso di Semiotica dell'Università di Bologna, di Culture dell'intrattenimento, curato dal professor Guglielmo Pescatore.

Introduzione

Che piaccia o meno, Lost (2004-2010), uno dei prodotti seriali più rilevanti degli ultimi anni, sarà ricordato, fra le tante cose, anche per il suo lungo ed enigmatico finale, reputato da buona parte del grande pubblico non all’altezza, o quantomeno in contraddizione, rispetto a quanto visto nelle stagioni precedenti. Lo sa bene Damon Lindelof, principale showrunner della serie insieme a J.J. Abrams e Jeffrey Lieber; Lindelof infatti, in misura anche maggiore rispetto a questi ultimi e soprattutto nelle fasi finali di Lost, è stato il principale fautore della conclusione della serie TV trasmessa da ABC. In virtù di ciò, è praticamente toccato sempre a lui metterci la faccia, spiegando in più di un’occasione e anche a distanza di anni, la conclusione di Lost alla vasta fanbase su cui la serie tutt’oggi riesce a contare

Lindelof, va sottolineato, non è però mai rimasto impassibile di fronte alle critiche del pubblico e della stampa specializzata, ed anzi ha cercato sempre di cogliere gli appunti più costruttivi col fine di migliorare i propri lavori seriali, pur mantenendo una forte impronta personale. Emblema di ciò è il suo ultimo lavoro, The Leftovers (2014-2017), prodotto dal colosso via cavo HBO, che si concluderà con la terza stagione proprio questo giugno, dopo non pochi problemi in termini di ascolti, che hanno messo a dura prova la sopravvivenza dopo il termine della seconda stagione. Prima di andare oltre, però, occorre una breve infarinatura generale sui temi trattati nell’elaborato che segue. Damon Lindelof, innanzitutto; classe ’74, statunitense, guardando il suo curriculum può essere considerato come uno sceneggiatore tutto sommato abbastanza eclettico, che è riuscito, nel corso degli ultimi venti anni, a destreggiarsi egregiamente su diversi media: dai fumetti (pubblicati per Marvel, Vertigo e Time Warp) al cinema (Cowboys & Aliens, Prometheus, Stark Trek: Into Darkness, World War Z e Tomorrowland fra i più noti), fino ovviamente alle serie TV; Lost e The Leftovers, soprattutto.

Lost probabilmente non ha bisogno di grosse presentazioni: prodotta da ABC e composta da 114 episodi di circa quaranta minuti ciascuno, la serie narra le vicende dei quarantotto sopravvissuti del volo 815 della Oceanic Airlines, un aereo schiantatosi nel settembre 2004, durante la tratta Sydney-Los Angeles, su un’isola apparentemente disabitata e che si rivelerà, col proseguimento delle stagioni, sempre più densa di misteri. The Leftovers, invece, incarnando lo stilema dei prodotti premium targati HBO, si compone di 28 episodi da circa un’ora ciascuno; la serie inizia tre anni dopo un evento topico, verificatosi su scala globale il 14 ottobre del 2011, definito come la “Sudden departure” (l’improvvisa dipartita), quando cioè circa il 2% della popolazione scompare letteralmente nel nulla, in circostanze misteriose che assumono fin da subito una forte connotazione religiosa – con un chiaro riferimento al ‘Rapimento della chiesa’ cui si accenna, soprattutto nel mondo protestante, nell’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo libro del Nuovo testamento. 

Queste due serie TV rappresentano gli apici della sua produzione seriale e delineano, per soluzioni visive e narrative, la maturazione di Damon Lindelof in quanto showrunner; nonostante siano infatti due prodotti ben diversi, fra loro intercorre un fil rouge ben visibile, soprattutto prendendo in analisi il finale di Lost, con quell’approccio spirituale che diventerà poi cifra stilistica di The Leftovers. Ma tante sono anche le differenze che sussistono fra i due prodotti; differenze che, tuttavia, non sono da interpretare necessariamente in senso ontologico, più come sfumature del processo di maturazione di uno showrunner, come Lindelof, cosciente degli errori – se così possono essere definiti – e delle esperienze fatte in passato.

Punti in comune

Prima si accennava al filo rosso che lega The Leftovers a Lost, riconducibile in particolar modo al finale di quest’ultima serie, contraddistinto da un approccio teologico che ha provocato reazioni polarizzanti nel pubblico e che si è palesato nuovamente sin dai primissimi episodi di The Leftovers, rafforzandosi progressivamente con l’incedere delle stagioni. Di più: l’aspetto della stracitata conclusione di Lost che ha maggiormente destabilizzato una buona parte degli spettatori riguardava l’apparente arbitrarietà della soluzione narrativa finale, rispetto soprattutto a quanto fatto vedere in precedenza: tutto quanto mostrato, lungo i circa 105 minuti di cui si compone il centoventunesimo episodio di Lost, sembrava insomma agli occhi dei più totalmente insensato, lasciando scatenare i fan più accaniti sulle possibili, e spesso fin troppo arzigogolate, spiegazioni. Ebbene, seppur con tutte le differenze del caso, questo stilema si ripete anche in The Leftovers, con la scomparsa del 2% della popolazione che viene relegata sempre più in secondo piano, senza spiegarla, concentrandosi invece sulle vite dei protagonisti, che diventano, col passare degli episodi, il vero cuore pulsante della serie.

Uno fra i frame più noti dell'episodio conclusivo di Lost, con la cosiddetta "chiusura ad anello". Lost, infatti, inizia e finisce pressappoco in questo modo, con Jack disteso a terra.

Altro aspetto che lega Lost a The Leftovers è la progettazione ad ecosistema narrativo, cioè un ambiente composito che riesce ad integrare diversi flussi, da quello degli utenti fino agli oggetti mediali. Entrambe le produzioni, infatti, si caratterizzano per essere dei sistemi aperti, in cui personaggi, fruitori e forme narrative variano e si modificano nel tempo. Si tratta, invero in ambedue i casi, di sistemi con una narrazione non procedurale, determinata cioè da elementi che descrivono l’ambiente di riferimento, rendendo la materia narrativa un universo percorribile dall’utente. In altre parole, in entrambi i lavori di Lindelof (come tra l’altro in diverse delle produzioni seriali moderne), è presente un concept che funziona da matrice per gli eventuali sviluppi della serie e che è fruibile per lo spettatore partendo dalla semplice messa in onda televisiva, per poi dipanarsi anche su altre piattaforme mediali.

Inoltre, entrambe le serie poggiano parte della propria struttura sulla user experience, cioè la relazione che si instaura tra il fruitore e un prodotto di servizio, e che riguarda diversi aspetti dell’interazione fra utente ed oggetto mediale. A tal proposito, Lost ha fatto scuola, soprattutto con la Lost Experience, quell’ARG (Alternate Reality Game) cui presero parte i fan fra la seconda e la terza stagione della serie. In tal senso, però, anche The Leftovers non è da meno; in questo caso, tuttavia, sarebbe opportuno fare riferimento alla nozione di performance introdotta da Henry Jenkins in Convergence Culture, che si scinde in due concetti ad essa relativi: quello di cultural attractors, degli elementi condivisi intorno ai quali si crea una comunità, e quello di cultural activators, che appunto attivano la community, dandole qualcosa da fare.

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Tornando alla user experience, The Leftovers mise indirettamente in atto un chiaro esempio di cultural attractors quando, nel dicembre del 2015, diversi fan della serie si riunirono sotto la sede newyorkese di HBO, il network produttore, inscenando una protesta pacifica affinché The Leftovers venisse rinnovato anche per una terza stagione – rinnovo che poi, come accennato precedentemente, è avvenuto. La peculiarità di questo summit riguardò le modalità con cui si tenne: i fan, infatti, arrivarono sotto gli uffici HBO completamente vestiti di bianco, rifacendosi cioè ai Guilty Remnant (I colpevoli sopravvissuti), una setta presente all’interno del mondo di The Leftovers che si caratterizza, oltre per il vestiario, anche per determinati atteggiamenti – come il comunicare unicamente per iscritto attraverso dei blocchi note, senza dunque proferire parola – che furono ripresi dagli stessi fan in occasione della manifestazione. Per chiudere il cerchio della Performance di Jenkins, un esempio abbastanza noto di cultural activators è invece presente in Lost, riconducibile cioè a quando, durante la seconda stagione, fu brevemente mostrata la mappa dell’isola che ospitava i naufraghi, attivando così la creatività dei fan, che tentarono di ridisegnarla, al fine di cercare degli indizi sui possibili sviluppi della trama.

Differenze

Eppure fra Lost e The Leftovers intercorrono altrettante differenze. Innanzitutto per quanto riguarda la loro natura, in termini che riguardano strettamente l’ambito della trasmissione e quello della produzione: Lost, come già sottolineato a più riprese, è stato prodotto e trasmesso da ABC, e quindi rientra giocoforza all’interno di quella categoria denominata broadcast television, dominata negli Stati Uniti da quattro principali player, i cosiddetti Big Four: FOX, NBC, CBS e, appunto, ABC. La caratteristica principale della broadcast television, che va ad impattare su ogni show messo in onda, è l’essere generalista e gratuita, mantenuta cioè dalla vendita di spazi pubblicitari agli sponsor, interessati a un pubblico che deve essere il più ampio possibile; inoltre, aspetto non secondario, la broadcast television è sotto la stretta morsa della FCC (Federal Communications Commision), che obbliga le reti free-to-air a rispettare una serie di stringenti normative, pena il taglio e la censura dei propri prodotti. Ben diversa è invece la natura di The Leftovers, riconducibile alla cosiddetta premium cable television, nella fattispecie griffata, è il caso di dirlo, da HBO.

I Soprano (1999-2007, HBO) è stata la serie TV che prima di tutte è riuscita ad incarnare lo stilema della quality television.

La premium cable ha un target ben diverso rispetto a quello ampio della broadcast television, dato che sostituisce i ricavi provenienti dalla vendita delle pubblicità con le sottoscrizioni di un determinato pacchetto di canali e può arrivare a costare fino a centocinquanta dollari al mese, puntando quindi ad una platea diversa rispetto a quella generalista. L’aspetto che caratterizza le trasmissioni delle emittenti premium, e dunque anche  dei possibili spettatori di The Leftovers, è innanzitutto quello di creare un brand che diventi status culturale in grado di attirare tale pubblico elitario, cioè quello disposto a spendere, appunto, più di un centinaio di dollari per la sottoscrizione di un pacchetto televisivo. Oltre a ciò, le emittenti premium non sono soggette al controllo serrato della FCC; devono semplicemente seguire un codice di autoregolamentazione, avendo quindi molta più libertà di azione rispetto alle emittenti broadcast. E facendo un raffronto fra Lost e The Leftovers, in particolare per quanto riguarda le scene più spinte, come quelle di violenza e di sesso, la differenza si vede eccome, anche guardando un singolo episodio per serie.

Questo cambiamento non ha potuto che giovare ad uno sceneggiatore dal piglio hollywoodiano qual è del resto Damon Lindelof, fornendo d’altro canto anche ad HBO, con un profilo come il suo, uno showrunner che potesse perseguire in quella definizione di quality television che da qualche decennio a questa parte l’emittente è riuscita ad incarnare in pieno, forse anche più degli altri network premium. Sia chiaro, però, che se inizialmente il termine quality television faceva riferimento alle caratteristiche individuabili nella seconda golden age televisiva (quella che si dipana dalla seconda metà degli anni ’80 e che impone nuovi standard narrativi), oggi indica piuttosto una categoria merceologica, che HBO è riuscita a far propria grazie ad uno stile più cinematografico che propriamente televisivo, e quindi con budget decisamente più alti rispetto alla norma, ritmi dilatati come quelli del grande schermo e, soprattutto, una grande valorizzazione delle varie personalità attoriali a schermo.

Una delle scene più riuscite di International assassin, lo splendido ottavo episodio della seconda stagione di The Leftovers, dove viene fuori tutta la bravura di Justin Theroux, principale attore della serie TV, con un episodio dedicato interamente al suo personaggio.

Al contrario, Lost è etichettabile all’interno del filone della high concept television, un’espressione che, riprendendo Justin Wyatt, «fa riferimento a oggetti seriali caratterizzati da un’alta vendibilità, da look riconoscibili e soprattutto da una struttura modulare e parcellizzata su differenti piattaforme mediali e contesti d’intrattenimento, permettendo così una modalità di consumo sempre più variegata e personalizzabile. […] La produzione di tipo high concept ha perlopiù luogo sulla televisione broadcast, dove il bacino d’utenza praticamente illimitato rende necessaria una segmentazione del mass audience». Un concetto che insomma si applica alla perfezione su Lost, dato che raggruppa a sé, oltre alla serie TV, anche wiki, podcast, reality show (la già citata Lost Experience) e videogiochi (Lost: Via Domus, titolo pubblicato da Ubisoft e sceneggiato, fra le altre cose, proprio dallo stesso Damon Lindelof).

Altra differenza fra Lost e The Leftovers è riconducibile al concetto di world building, postulato sempre da Henry Jenkins in Convergence Culture, che può tendere, fra le altre cose, anche alla rappresentazione di una modalità attraverso la quale gli spettatori si relazionano al prodotto mediale, considerandolo come uno spazio che può entrare in relazione con la sfera quotidiana degli utenti stessi. Nel concreto, tale aspetto è presente in entrambe le serie di Lindelof, seppur in maniera diversa. Per quanto riguarda Lost, un esempio lampante può essere il secondo episodio della terza stagione, The glass ballerina (La ballerina di vetro), in cui a Jack Shepard, il principale protagonista della serie, viene mostrato, fra le tante cose, un filmato in cui i Boston Red Sox vincono le World Series (le finali della MLB, il principale campionato americano di baseball) il 27 ottobre del 2004, cioè circa un mese dopo lo schianto dell’aereo sull’isola di Lost. Se qui l’intento è quello di aumentare l’immersione nello spettatore, dandogli prova, attraverso l’esplicazione di eventi realmente accaduti, che il mondo, anche nell’universo di Lost, è andato avanti anche dopo il loro incidente aereo che li ha bloccati sull’isola, in The Leftovers qualcosa di simile è sì presente, ma in modo decisamente più periferico, come testimoniano le parole dello stesso Lindelof in un'intervista a The Ringer:

«We [never] wanted this to feel like it was an alt-history show, where it’s dealing with the issue of who is the president in this world. In the pilot of the show, on the TV in the bar, you’re seeing people who have departed. So there’s [Gary] Busey and Anthony Bourdain and Shaquille O’Neal, and Hillary Clinton pops up there. And she’s talking; does that mean she disappeared? But we never wanted it to feel like, “OK, let’s do the big alt-history unpack.” […] I didn’t want The Leftovers to be an Easter Egg show»

Conclusioni

Toccando dunque diversi punti squisitamente tecnici, che vanno dai postulati di Jenkins fino agli ecosistemi narrativi, si è visto come, nel corso degli anni, Damon Lindelof abbia mutuato il proprio stile di scrittura, adattandosi a due differenti modelli produttivi e di trasmissione (quali sono la broadcast, per ABC, e la premium television, per HBO) pur mantenendo la propria cifra stilistica intatta, ma che anzi ha assistito ad un lungo processo evolutivo che l’ha portata a raffinarsi in diversi dei suoi aspetti più spigolosi. In conclusione, quello che più preme sottolineare è la trattazione degli snodi narrativi, e dei relativi plot twist, all’interno delle due serie TV. Se in Lost, infatti, tutti i misteri che circondano l’isola vengono alimentati da una costante ricerca della motivazione da fornire allo spettatore per spiegare il verificarsi di determinati eventi – e che delle volte scadono, usando un termine prosaico, nel cosiddetto “spiegone” da parte dei personaggi a schermo, creando inoltre, non di rado, anche delle incongruenze all’interno della narrazione complessiva – in The Leftovers c’è un completo disinteresse per quanto riguarda questo versante fondamentale.

Non ci si concentra praticamente mai sull’evento che ha portato al colpo di scena; piuttosto viene attuato un focus sulle conseguenze di un dato evento, comprendendo delle volte anche personaggi che non ne sono stati in alcun modo interessati. Del resto, fin dall’inizio di The Leftovers, le premesse con le quali Damon Lindelof ha introdotto al pubblico il suo nuovo lavoro erano ben chiare: non si trattava di una serie TV che sarebbe andata alla continua ricerca della soluzione ai misteri posti durante, o ex ante, la narrazione. Quello di The Leftovers è più semplicemente un ecosistema nel quale gli eventi cardine si sono già verificati, in una specie di esplorazione, attraverso le vicende dei protagonisti, dell’anticlimax, al contrario invece del tipico accumulo che caratterizza la maggior parte dei prodotti seriali odierni. E Lindelof mette in atto tutto ciò partendo direttamente proprio dalla chiusura di Lost, espandendone l’approccio teologico e sospensivo al massimo, concentrandosi nel raccontare i grandi dubbi, più che nel cercare di dare risposte che non potrebbero soddisfare il pubblico.

Bibliografia di riferimento

  • Bisoni C., Innocenti V., Pescatore G., Il concetto di ecosistema e i media studies: un’introduzione, brano tratto da Media Mutations: gli ecosistemi narrativi nello scenario mediale, Modena, Mucchi Editore, 2013.

  • Innocenti V., Pescatore G., Architettura dell’informazione nella serialità televisiva, «IMAGO», 2011, 3.

  • Brembilla P., Pescatore G., La serialità televisiva americana: produzione, consumo e tipologie di prodotto, Torino, Kaplan, 2014.

  • Jenkins H., Cultura convergente, Milano, Apogeo Education, 2013.