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PlayStation VR è bella ma serve la voglia o Un resoconto a cazzo di cane dei miei primi sei mesi con la realtà virtuale

Se non ora, quando?

Nel film d’animazione Pom Poko, diretto da Isao Takahata nel 1994 per lo Studio Ghibli, un gruppo di tanuki (dai, lo sapete tutti cosa sono i tanuki) lotta per riprendersi la collina di Tama, a Tokyo, trasformata in un quartiere residenziale a seguito dell’esplosione urbanistica che ha investito il Giappone sul finire degli anni Sessanta. Dopo aver visto per la prima volta il film in questione, tra le altre cose, mi è vento da riflettere sul rapporto tra il Giappone e i videogiochi.

In particolare, mi son venute in mente tutte le storie/leggende che girano su Miyamoto riguardo la faccenda che gli universi dei vari Mario e Zelda discenderebbero dalle scorribande nei boschi del nostro, ancora ragazzino. Di nesso in nesso - ché son come le noccioline - sono saltato dalla Zapper al Power Glove, passando per lo sfortunato Virtual Boy, fino ad arrivare al Wii e alla Balance Board. Questi ultimi in particolare, usciti mentre il resto del mondo remava in altre direzioni, hanno rimediato la fisicità, il sudore e la dimensione spaziali dei passatempi e degli sport all’aria aperta, trasferendoli - per quanto possibile e con qualche furberia - nei salotti di casa, trasformatisi alla bisogna in campi da tennis o da golf, in prati, in percorsi da corsa o in foreste da esplorare.

Ci credevamo tutti fortissimo (e alla fine facevamo bene, dai).

Mi sono infilato in questo impiccio di attacco perché, a tutt’oggi, ho la sensazione (assolutamente NON corroborata da studio o documentazione, ma solo da frequentazioni con il cinema, i manga e i libri di narrativa) che tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta il popolo giapponese abbia vissuto con particolare difficoltà tutte le idiosincrasie del passaggio tra il mondo rurale e l’urbanizzazione e che, conseguentemente, abbia cercato di recuperare la propria dimensione “naturalistica” in ogni modo possibile e con ogni mezzo possibile, compreso naturalmente il videogioco, che più di altri si prestava - e si presta - alla rielaborazione del gioco tradizionale all’aria aperta e alla sua ricollocazione tra le mura domestiche. Ricollocazione che, per metterla giù a grana molto grossa, si è sviluppata in due direzioni: da un lato attraverso tutta quella corrente che celebra l’abbandono della fisicità, e che lavora di simboli e sintesi per concentrare gesti, attività e addirittura sforzi sovrumani nella semplice pressione di un tasto. Dall’altro, invece, c’è quella che persegue il recupero del corpo e del movimento; una corrente che una decina di anni fa ha conquistato il mercato con Wii e che oggi sta cercando di definire la grammatica della realtà virtuale.

A questo proposito, io pure vivo una piccola idiosincrasia: per pigrizia e forma mentis, ho sempre preferito “dimenticarmi” del corpo mentre gioco. Tuttavia, sono anche estremamente affascinato dagli aspetti più fisici della realtà virtuale, nonostante sulle prime fossi piuttosto scettico. A farmi passare dal «Mah» al «Wow, figata!» è bastata un’oretta di prova col primo devkit di Oculus Rift: una roba che mi ha lasciato secco. Ma secco del tipo che ho passato la mezzora successiva a telefonare agli amici per raccontare di quanto fosse figa ‘sta realtà virtuale. Il colpo più forte, tra l’altro, non mi è arrivato da esperienze videoludiche o dagli scenari più spinti, bensì dalle rappresentazioni più semplici e banali, che evidentemente, proprio in virtù della loro familiarità, hanno funzionato meglio: tra tutte, il “diorama” di una cameretta anni Novanta (all’esterno della quale piovevano dei giganteschi tetramini, ma insomma, son dettagli).

In prima battuta, il “semplice” passaggio dall’ambiente reale a quello virtuale mi era sembrato già talmente saziante che l’idea di mettermi pure a giocare, in quello spazio lì, mi pareva eccessiva, se non addirittura ingrombrante. Come se ai primi spettatori de L'uscita dalle officine Lumière i fratelli Auguste e Louis avessero messo in mano un controller (steampunk, ovviamente) dicendo: «Bene, tra poco le officine saranno invase dai vampiri, difendetevi». Insomma, un passo alla volta, e che diamine. Poi, da sedentario, le prospettive più statiche mi parevano anche le più accattivanti (e persino le più redditizie): ero sedotto dall’idea di infilarmi un casco e trovarmi in uno spazio completamente configurabile e arredabile attraverso, chessò, un fantomatico negozio virtuale IKEA, o magari pieno di libri, film o videogiochi a noleggio, o addirittura compatibile con i miei servizi su abbonamento (Netflix, Prime Video, Kindle Unlimited o Spotify).

È anche vero che dopo un’ora di visore ero completamente sbomballato e in balia del motion sickness. Eppure, quanta soddisfazione per uno che ha passato l’adolescenza in ammollo negli anni Novanta pieni zeppi di film, libri e racconti a tema virtuale.

Sulla scorta dell’entusiasmo, lo scorso Natale ho obbligato morosa e “suoceri” a regalarmi PlayStation VR: vuoi perché non ho in casa l’hardware necessario per supportare visori più potenti come Oculus Rift o HTC Vive, vuoi perché sono sempre stato più il tipo da console.

Il primissimo impatto col visore di Sony - che non avevo mai provato in precedenza - è ottimo: bel feeling tattile, buon design e tempi di montaggio relativamente ridotti, tenendo conto anche dell'impostazione di telecamera, lucine e lucette. In meno di un’ora son già lì col visore in testa (tenete conto che non sono il tipo da “scarta e vai” ma sono ordinato, precisino e tremendamente lento).

Per prima cosa lancio Kitchen, la chiacchierata demo di Resident Evil 7: Biohazard: un po’ Gardaland, ma super-efficace e davvero spassosa. Soprattutto, per via del suo setting statico e in penombra che limita le rogne della VR, perfetta come biglietto da visita per l’apparecchio di Sony. Poi, sempre procedendo per gradi, è il turno di Allumette, un cortometraggio d’animazione parzialmente interattivo, non eccezionale sul piano artistico e narrativo ma molto efficace per lasciare intuire le immense potenzialità “cinematografiche” della realtà virtuale: l’idea che una storia possa sciogliersi attorno allo spettatore è suggestiva e un autore con buone idee potrebbe creare delle cose davvero interessanti (ne ho chiacchierato anche con Gipi nel corso di questa intervista). Se poi penso che in giro c’è gente come Lynch, Cronenberg, Villeneuve o Spielberg, mi esplode il cervello.

Una fazza, una razza.

Dopo aver stropicciato per un’oretta abbondante il disco delle demo (che basterebbe da solo a riempire almeno un paio di giorni) sento il bisogno di una pausa: sono particolarmente soggetto alla nausea da mal d’auto, e conseguentemente al motion sickness. Dopo qualche minuto di stop però ci riprovo, questa volta con i giochi. Cazzeggio un po’ con la demo di London Heist, penso che sparare in quel modo lì è davvero una figata, e pasticcio pure con quella di Until Dawn: Rush of Blood: carina. A quel punto son preso dalla fotta e scarico d’impulso Batman: Arkham VR e REZ Infinite. Il primo, al netto della realizzazione tecnica e degli apprezzamenti che leggo in giro, non mi convince completamente per via di una gestione dell’interfaccia e di un gameplay un po’ indecisi (a prescindere dal gioco di Rocksteady Studios, che comunque non è male, sono dell’idea che interfacce e soluzioni di design non andrebbero semplicemente adattate alla VR, ma ripensate ad hoc, altrimenti si sente quella puzza di “joystick touch” tipica di certe brutte conversioni per smartphone).

Di contro, REZ Infinite è una figata pazzesca e, per via della sua estetica e del suo gameplay psichedelici, sembra fatto apposta per gli spazi virtuali.

«Teorici, teorici dell'animazione astratta... PRRR!»

Tra l’altro, proprio il gioco di Mizuguchi mi suggerisce che, forse, l’opportunità più interessante possibile per la VR sarebbe quella di abbandonare la prospettiva antropomorfa e gli scenari realistici a favore di soluzioni completamente astratte, alla maniera di certe opere animate. I puristi del cinema d’animazione sostengono che i film realistici, con personaggi dai tratti umani, rappresenterebbero uno spreco delle potenzialità del mezzo; il regista Norman McLaren, ad esempio, preferiva di gran lunga tradurre forme musicali in forme visive.

Personalmente non credo che una cosa debba per forza escludere l’altra ma capisco che, se sei un autore che ama sperimentare e hai per le mani degli strumenti creativi nuovi di zecca, magari senti pure la necessità di esplorarne le caratteristiche più peculiari. Di lavorare sulle differenze, insomma, piuttosto che sulle analogie con le cose che son venute prima.

Comunque, a qualche settimana di distanza dal mio primo impatto con PlayStation VR, decido di fare pure io un piccolo esperimento, cercando di coinvolgere la mia ragazza completamente digiuna di videogiochi e, per sua attitudine, nemica delle complicanze tecnologiche. Così, una sera, inizio a raccontarle tutto esaltato del visore, di questo e di quello, che deve provarlo assolutamente. Lei mi fredda con un «Prima mangiamo» (le donne sanno essere spietatamete pragmatiche; lei in particolare, in quanto amante dei gialli). Dopo cena, comunque, accetta di provare la VR. Convinto di fare cosa sensata, le sottopongo subito Kitchen, e non tanto per l’effetto “Buh!”, ma proprio perché lo considero particolarmente efficace. Grossa cazzata: si spaventa e si arrabbia (in questa maniera, scopro anche che chi adora Il silenzio degli innocenti non riesce necessariamente a gestire l’horror baraccone).

La merda nei pantaloni.

Per non perderla al primo giro, la sintonizzo su Allumette. Le cose vanno un pochino meglio: si gode l’esperienza, si guarda attorno. Soprattutto, apprezza quel poco d’interazione prevista dal cortometraggio, come ad esempio la possibilità di osservare ciò che avviene all’interno delle location semplicemente pucciandoci il viso.

L'idea di poter sbirciare l'interno delle location semplicemente tuffandoci dentro la faccia è figa.

Preso da ottimismo e più sicuro delle mie possibilità, decido di passare a Batman: Arkham VR (ama il personaggio per via di Christian Bale); supero tra qualche sbuffo l’impiccio della sincronizzazione dei Move, la guido attraverso i menù iniziali per poi spingerla senza rotelle verso i titoli di testa, sui tetti di Gotham. E proprio lì, quando la credo ormai a suo agio, parte la domanda: «Ma quando arriva Batman?». «Guarda che Batman sei te!». «Ah, cazzo!». E giù a ridere. Ad ogni modo, fintanto che c’è solo da curiosare qua e là le cose vanno benino, ma quando le interazioni incominciano a farsi più complessem il peso dell’interfaccia e dei Move si fa sentire, dimostrandosi un discreto legaccio per i giocatori occasionali.

Le levo Batman, la rabbonisco con un giretto turistico tra gli abissi marini di Ocean Descent, dopodiché mi gioco il jolly: la missione in VR a bordo di un X-Wing presente in Star Wars: Battlefront. Ecco, lì le cose filano: vuoi per il fatto che Guerre Stellari le va a genio, ma soprattutto perché lo spazio e la prossemica dell’avatar coincidono con quelle del giocatore. Il pilota del caccia impugna una cloche come il giocatore impugna il pad. Mediata la distanza tra interfaccia “reale” e quella virtuale, l’esperienza risulta relativamente comprensibile e nel complesso soddisfacente. Eppure, anche in questo caso sono costretto a intervenire diverse volte come assistente, soprattutto quando il pad smette di essere una cloche e serve per trafficare con i vari menù. Non che avessi bisogno di questo esperimento per capirlo, ma è chiaro che gesti anche semplici per un giocatore non sono da dare per scontati, a maggior ragione quando c’è di mezzo la VR (che per via del visore non sempre permette di tenere sott’occhio i controller). Capisco che la costruzione di una minima alfabetizzazione e di una certa massa critica siano necessarie per accedere al gusto delle cose, così come capisco che, al momento, la realtà virtuale non è un prodotto per le masse, ma per una nicchia all’interno di un’altra nicchia. Tuttavia, se fossi nei panni di Sony, per allargare un poco il bacino d’utenza attraverso il passaparola e favorire l’accesso ai curiosi di oggi (che potrebbero diventare gli utenti di domani), darei la priorità assoluta alla semplificazione delle interfacce, per addolcire il più possibile le barriere d’ingresso. Lo dico così, a caso, ché non sono né un ingegnere né tantomeno uno sviluppatore, ma per ora vedo ancora un po’ troppo ingombro, e non mi riferisco solo a cavi e visore.

Con l’uscita di Resident Evil 7, il primo gioco grosso adattato a PlayStation VR, decido di invitare a casa qualche amico per bullarmi della «Potenza di PlayStation». E subito, la minchiata: per condividere al meglio l’esperienza, teniamo la TV accesa, cosicché, mentre uno è sotto con la VR, gli altri si trovano a fissare una schermata che sballotta qua e là nell’inevitabilità dei 55 pollici. Risultato: nausea diffusa e giro di Biochetasi per tutti.

Smaltiti i postumi, Resident Evil 7 lo riprendo in mano con calma qualche giorno dopo, e nonostante l’ottima atmosfera e le tante, tantissime cose positive, ancora una volta avverto il limite di un prodotto non espressamente pensato per la VR.

Per mantenere la mia performance di gioco accettabile, devo necessariamente selezionare la modalità di spostamento “a blocchi”, che alla lunga rompe un po’ l’atmosfera.

Ogni mezz’ora/quaranta minuti, devo staccare e fare una pausa per via del motion sickness che mia affligge, e noto anche un’altra cosa: nella realtà virtuale, il tempo di gioco sembra tremendamente dilatato e la progressione spaziale, anche in zone prive di ostacoli, è in qualche modo più lenta. È tutto un po’ più denso, insomma. Non è necessariamente un difetto: mi limito a registrare la cosa, ma se fossi uno sviluppatore, con questa sensazione ci farei i conti.

A quattro mesi dall’acquisto, il mio tempo settimanale dedicato alla VR diminuisce un po’, e quando le preferisco un’esperienza di gioco “classica”, o semplicemente un film o una serie TV, è soprattutto per colpa del leggero sbattimento che comporta l’apparecchiare cavi e visore e, nel mio caso, l’avvicinare leggermente il divano alla TV per entrare nell’occhio di PlayStation Camera. Per carità, nulla di che, ma sono sempre quei due o tre passaggi che devi averci voglia, e se sei appena un po’ più stanco del solito, o vuoi semplicemente farti una partitella al volo, ti scoraggiano.

In tutto questo, non ho mai sentito l’esigenza di provare un gioco classico attraverso il visore, né di guardare un film in modalità cinema, fatta eccezione per un paio di porno (esperienza da dimenticare: per qualche problema di proporzioni, le attrici sembrano tutte delle gigantesse; oh, poi c’è pure chi gradisce la cosa, per carità).

Poi succede che in combo escono Switch e Zelda: Breath of the Wild, e mandano completamente in vacca il desiderio di VR. Switch, in effetti, è la totale antitesi delle attuali periferiche per la realtà virtuale: comodo, leggero. Ci passi a fianco e quasi senza accorgertene ci stai già giocando.

L’unica eccezione virtuale durante il mio periodo da tossico di Zelda si è verificata una sera a casa di un amico (ciao Alberto), dove ho sperimentato con gran gusto Oculus Rift assieme ai controller Oculus Touch, che effettivamente aggiungono una nuova dimensione all’esperienza; una dimensione necessaria e perfettamente illustrata dalla demo introduttiva della periferica, First Contact, talmente divertente e piena di idee che varrebbe la pena di ricavarci non uno ma anche due o tre giochi completi.

La forza di First Contact risiede nel suo ambiente estremamente pulito e leggibile, eppure ricco di elementi ludici “nascosti” e sfiziosissimi: si parte da interazioni semplici semplici come infilare un floppy in un lettore, o lasciare appoggiare una farfalla sul dito, per arrivare a smanacciare con razzi e fruste laser. Gustoso anche il setting, per quanto un filo paraculo: una sorta di camper high-tech arredato in stile vintage anni Ottanta, che evoca inevitabilmente il romanzo Player One.

Tutto sembra fatto apposta (non sembra: in effetti lo è) per esaltare l’ergonomia di Oculus Touch, pensata talmente bene da riuscire a fornire all’utente una sensazione di dettaglio e realismo (nelle prese, nei gesti) che, per quanto in parte frutto di suggestione, è sufficiente ad attaccare anni di vecchiaia ai Move, oltre a quelli che hanno già.

«Con le mani sbucci, le cipolle!»

Qualcosa di simile, a livello di sensazioni, Sony me l’ha fornito qualche settimana dopo in maniera piuttosto inaspettata, attraverso al periferica fucile Aim Controller, venduta in bundle con Fairpoint, che, come ho già accennato in questo ospizio, grazie a un buon bilanciamento del peso, a una buona ergonomia e a una risposta piuttosto precisa, riesce a prescindere dalla sua funzione di arma, diventando alla bisogna un “braccio”, o comunque costituendo un punto di riferimento spaziale per le mani del giocatore.

Lo stesso Fairpont sembra ben conscio di questa polivalenza e la mette in mostra attraverso il segmento “hub”, che ricorda molto da vicino lo spazio di First Contact o la suddetta cameretta dei tetramini (vaneggio di dimensioni di gioco astratte e metafisiche ma alla fine mi conquistano le stanzette; sogno Kandinskij ma sono solo una casalinga). Insomma, in attesa che Sony si decida a proporre la sua versione di Oculus Touch, ci si può pure accontentare.

Oddio, volendo ci si può accontentare anche del semplice joypad, se l’illusione viene gestita come si deve. Vedi l’ottimo Statik di Tarsier Studios, un puzzle game in odore di Portal il cui concept “ammanetta” lo spettatore al DualShock - come Kitchen – ribadendo a voce alta che, se un gioco viene espressamente pensato in funzione della VR, si possono ottenere risultati eccezionali in termini di coinvolgimento, senza bisogno di periferiche costose o visori top di gamma. Tra l’altro, e questa è una cosa che mi piace sempre, Statik è quella classica cosa che fa di necessità virtù, modellando il proprio gameplay attraverso l’elusione delle principali debolezze di PlayStation VR (che emergono, ad esempio, attraverso la rappresentazione di ambienti aperti o nella gestione di un forte dinamismo grafico), “truccando” la partita con un esito dirompente.

Diamo un bilancio finale dei miei primi sei mesi con la realtà virtuale. Impatto ottimo, al netto dell’ingombro e dei cavi tra le balle. Prestazioni adeguate: ho usato PlayStation VR con PlayStation 4 Pro; francamente non ho idea se la maggiore potenza procurata dal suffisso abbia dato qualche beneficio. Nel dubbio, faccio finta di sì.

Parlando di grafica e risoluzione, beh, non siamo certamente al livello di un televisore 4K, ma il senso di immersione fornito dal visore è talmente coinvolgente che di tutto il resto ci si dimentica in fretta, in virtù della faccenda di addizione/sottrazione dei media: le prime fotografie facevano più schifo dei quadri, ma erano realistiche e minimizzavano gli sforzi; i primi film facevano più schifo delle foto, ma c’era il movimento; i primi video su internet, pure, erano peggiori di quelli in TV, ma erano digitali e manipolabili, etc. Oggi, i giochi in VR, sul piano grafico, sono senz’altro meno definiti rispetto a quelli canonici, ma offrono una dimensione spaziale completamente nuova.

Per quanto mi riguarda, oltre al motion sickness, l’unico altro problema rilevante che si è abbattuto sulla periferica è stato il caldo estivo, che nel mio caso ha addirittura sancito un “Ci rivediamo a settembre”: giocare col visore sopra a una certa temperatura fa sudare tantissimo e credo pregiudichi l’esperienza. Chiaramente, se non avete problemi col caldo o avete l’aria condizionata, la questione non si pone.

I capelli sembrano radi per via del sudore ma ne ho tantissimi, giuro!

In chiusura, tengo di nuovo a precisare che tutta la sbrodolata di qui sopra è frutto di opinioni personali, che non pretendono di costruire una critica universale al prodotto di Sony. Le mie restano le sensazioni un po’ “pane e salame” di un utente medio. Un utente per cui, nonostante tutto, l’esperienza VR si è rivelata strabiliante. Siamo evidentemente davanti a una sorta di esperimento, al numero zero (speriamo non l’unico) di una periferica destinata a una nicchia di appassionati curiosi e con la volontà - e la possibilità - di spendere un discreto gruzzolo. Nonostante questo, al momento PlayStation VR rappresenta un eccellente biglietto di ingresso per la realtà virtuale a un prezzo contestualmente adeguato e spero sinceramente che l’esperimento di Sony vada incontro, durante i prossimi mesi, a un supporto adeguato, e non necessariamente attraverso titoli tripla A, ma semmai attraverso esperienze leggere, brevi (come ho detto, il tempo di gioco nella VR sembra dilatato) ma mirate e pensate bene a livello di meccaniche e interfacce. Statik rappresenta probabilmente la via da seguire per sviluppatori e publisher, sia a livello di concept che di sostenibilità. Insomma, per il momento voglio continuare a crederci fortissimo, perché se la faccenda del virtuale non scollina, ora c’è il rischio che vada in stop per altri dieci anni, e francamente sarebbe un peccato. Dio solo sa cosa potrebbero creare le prossime generazioni di designer con un affare del genere. Insomma: se non ora, quando?