Racconti dall’ospizio #64: Donkey Kong Country è il figlio (bastardo) della sua era
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Si può dire che sia cresciuto già negli anni Novanta guardando qualcun altro giocare, molto prima che YouTube e Twitch ci mettessero a disposizione un archivio virtualmente infinito di persone che affrontano ogni sorta di titolo in ogni sorta di modalità. Il Super Nintendo non l’ho mai avuto personalmente, pur bramandolo più di ogni altra cosa al mondo, perciò guardare il vicino di casa giocarci era il modo in cui ho vissuto gran parte dei titoli di quell’epoca. A ben pensarci era una sorta di chat di Twitch ante-litteram ad alta interattività: lui il braccio, io la mente, pronta a dispensare consigli in tempo reale e a venire in soccorso ogni tanto con un “Fai provare me!”. Certo, quando volevamo giocare entrambi contemporaneamente, c’erano le battaglie palloncino di Super Mario Kart, ma se non volevamo odiarci e urlarci in faccia a vicenda, c’era una sola possibilità: Donkey Kong Country e il suo buffo modo di affrontare una co-op a turni, con Donkey e Diddy che si danno il cambio come personaggi principali.
Non credo ci sia un altro gioco, nella mia ludoteca mentale, con uno scarto così ampio tra valutazione nostalgica ed attuale. Nessun altro è così felicemente radicato nella mia memoria ma altrettanto sciaguratamente crollato nelle mie rivisitazioni degli anni successivi. Donkey Kong Country è quello che succede quando si finisce per inseguire mode temporanee, piuttosto che implementare canoni immortali. Il "problema" è che fu un'operazione riuscitissima ed ebbe un successo fulminante, che generò ben due seguiti, uno migliore e uno peggiore a sentire l’opinione comune, tanto da piccolo mi piacevano tutti da morire. Il gioco, frutto della collaborazione Nintendo/Rare, era il figlio un po’ bastardo di quell’epoca in cui Nintendo cominciava a sentire il fiato sul collo del mondo 3D e provava a fare la gggiovane coi meme degli anni Novanta. Lo testimonia la celebre introduzione in cui Donkey Kong caccia in malo modo, boombox alla mano, un vecchio e decrepito Cranky Kong dalla sua leggendaria cima di piloni rossi, la stessa dell’originale e immortale Donkey Kong. Tutto questo era miele per l’apina cicciotta che ero da bambino: gli animalotti da portare in giro per i livelli (tanti cuori per Engarde), quel design “so radical”, una grafica che sembrava il futuro, con gli sprite generati “come i dinosauri di Jurassic Park!”, come ripetevo puntualmente, fedele pappagallo di ciò che leggevo sulle riviste.
Era un gioco furbo, che cavalcava tutte le mode del momento e lo faceva bene, che in fondo li si potrà amare o odiare, ma quelli di Rare ci sapevano fare. Il prezzo da pagare per questa furbizia è il fatto che oggi, a meno di un fortissimo legame nostalgico, Donkey Kong Country appare molto più scialbo. È il classico esempio di gioco invecchiato male in quasi ogni aspetto: controlli legnosi e duri (vuoi mettere la fluidità di Super Mario World?), un level design rispettabile ma che raramente si lascia andare a guizzi creativi, ma soprattutto la grafica! Dio santo, la grafica! A distanza di venti e passa anni, la si riguarda con la stessa tenerezza imbarazzata con cui riguardo il filmino della mia prima comunione. Perfino la scelta della palette dei colori risulta abbastanza orrida nella maggior parte dei casi: realistica e profondamente desaturata, in una specie di Gears of War dei platform che allora urlava figaggine ma oggi fa solo bisbigliare per la sua piattezza e tristezza. Senza contare che poi la discutibile ossessione di Rare per i collezionabili, già ampiamente visibile in questa fase della sua vita, avrebbe portato ad abomini ben più grandi, su tutti quel Donkey Kong 64 quasi macchiettistico, tanta era la roba da trovare, nascosta (male) nei livelli di gioco. Solo la musica si salva a distanza di tempo, o almeno lo fa nella sua composizione e orecchiabilità, visto che, dal punto di vista sonoro, a volte sembra eseguita su una pianola Casio. Sì, forse ci vado più pesante del necessario, ma la mia è solo difficoltà nell’accettare che questa roba, svariati anni fa, mi piacesse tanto da causarmi scompensi ormonali.
Ad un occhio maturo (?!) Donkey Kong Country si presenta come l’antitesi della classicità di un Super Metroid, l’antimateria dell’immortalità di un Super Mario World. Era un prodotto sornione e ruffiano, costruito ad arte per quell’epoca ma che dimostra molta più stanchezza nelle ossa del suo progenitore di quasi quindici anni prima. Ha incassato, ha fatto successo e ha avuto la sua gloria ma dopo più di vent’anni, l’unico vero motivo per cui dovreste giocarci sul vostro SNES Mini sta nell'effetto nostalgico. O perché magari non ci giocate da allora, ma a quel punto è meglio se le cose restano così, idilliache e ganzissime, almeno nella vostra memoria.
Questo articolo fa parte della Cover Story "Aspettando il Nintendo Classic Mini: Super Nintendo Entertainment System", che trovate riepilogata a questo indirizzo.