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Racconti dall'ospizio #66: La profanazione di Kirby Super Star

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Per strano che sia, la storia del mio rapporto con Kirby Super Star intreccia le radici col più grosso (nonché unico) crimine che abbia mai commesso in vita mia. Un crimine consumatosi in Francia - a Parigi - più di vent’anni fa.

È da parecchio tempo che non spolvero questa storia; mi sono deciso a fare mente locale e a metterla in ordine per benino per via una coincidenza: dovete sapere che quando il Maderna (via chat, presumo dalla Francia) mi ha proposto di curare un “ospizio” per la cover story di questo mese, me ne stavo spaparanzato in spiaggia a sfogliare La storia di Mario, un ricco erudimento scritto dal giornalista (francese) William Audureau per i tipi di Pix'n Love (francesi pure quelli).

Spuntano pure i morbidissimi capelli di Romero.

Finita la conversazione, gli occhi son passati dal telefono alle righe di libro dedicate all’avvocato americano John Kirby, che difese Nintendo nel 1984, quando l'azienda fu accusata dalla Universal Studios di aver violato il copyright di King Kong, riuscendo a dimostrare che era di pubblico dominio. A tutt’oggi non mi è dato sapere con certezza se il nome del marshmallow rosa di Nintendo sia un omaggio al suddetto avvocato, però sono il tipo di persona che tende ad assecondare le coincidenze e, considerato che tra i titoli che Nintendo ha deciso di infilare nello SNES Mini c’è pure Kirby Super Star (noto dalle nostre parti anche come Kirby's Fun Pak), la mia testa ha preso a collegare neuroni separati da anni che a loro volta hanno spinto in superficie, uno dopo l’altro, i pezzetti del suddetto crimine.

Una rara foto d’archivio dell’avvocato John Kirby, nel momento esatto in cui dimostra l’innocenza di Nintendo.

Per intrecciare tutta la storia al meglio delle mie possibilità di scribacchino, però, devo fare un passo indietro rispetto ai fatti parigini, ché la vicenda non comincia in Francia (non in senso stretto, almeno, e il senso stretto è qualcosa che purtroppo non mi appartiene), bensì in zona Camerlata, a Como, durante il mio primo giorno di liceo.

Chiunque abbia passato l’adolescenza nella brumosa provincia Lombarda a cavallo degli anni Novanta sa bene che il primo giorno in un scuola superiore era anche il giorno della matricola. Negli istituti tecnici più severi, nelle scuole professionali e finanche nelle ragionerie, quello della matricola era un autentico rito di passaggio: un tributo vergato con sangue, cazzotti e bullismo. Un rito che serviva a ribadire l’ordine naturale delle cose o - nel caso di “rookie” particolarmente ribelli - a riscriverlo secondo i più classici miti di parricidio e successione.

Fortunatamente per me, nel liceo da fighetti che stava per accogliermi, del violento rito ancestrale non restavano che le spoglie: nessuno picchiava nessuno, i ragazzi di quinta aspettavano pazienti i primini che scendevano dagli autobus e accettavano paternamente qualsiasi somma, rilasciando addirittura la ricevuta. Ricordo di aver versato due o tremila lire a un capellone entusiasta - nell’istituto tecnico dietro casa mia, sotto le diecimila volavano schiaffi - e di aver raggiunto la classe designatami in tutta sicurezza, nonostante la scarsa statura, il Barbour e uno zaino Invicta Magnum arancione che puzzava di sfiga lontano un miglio.

Comunque, guadagnata l’aula, cercai da sedere nelle file di mezzo (le prime erano per i secchioni, le ultime per i ribelli: io non mi sentivo né carne né pesce), a fianco di un ragazzotto occhialuto tutto intento a sfogliare l’ultimo numero di Zzap! e tosto presentatosi come “Sbiella.” Molto colpito - io pure seguivo la rivista – quasi non notai i brufolazzi, la forfora insidiatasi fin nelle sopracciglia, il marsupio della O'Neal rosa neon e un look complessivamente allucinante perfino per gli standard dell’epoca. Anzi, quando scoprii che aveva rifiutato di versare la matricola, lo presi addirittura per un duro (pur con una causa: risparmiare denaro per accedere alla focaccia più bisunta della scuola, la farcita con salsa™).

Con Sbiella finimmo presto col diventare amici, nonostante quella diffidenza reciproca tipica dei nerd à la «Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me». Eppure noialtri ci eravamo dentro fino al collo, in quel club lì, per di più in anni che non perdonavano la passione eccessiva per videogiochi (perlomeno da casa, ché sale e baretti avevano tutta una loro dignità sociale). Sbiella era il classico “amico contestuale”, una di quelle frequentazioni specifiche e mirate con cui scambiare cartucce, cassette e riviste, piratare dischetti con l’X-Copy Pro, trascorrere i pomeriggi più bigi a giocare facendo finta di studiare o con cui intraprendere qualche ardita gita nel varesotto - patria dell’importazione parallela - o verso l’esotismo meneghino dello SMAU e del Sim Hi-Fi.

Difficile, invece, che ci si incrociasse nelle occasioni più mondane, come il sabato pomeriggio in centro o alle festine serali: per quelle c’erano gli amichetti ereditati dalle medie. Quelli col motorino smarmittato, gli orecchini e i doppi tagli, la cui frequentazione mi permetteva di galleggiare appena al di sopra della melma liceale dei paria nella quale, invece, Sbiella sembrava sguazzare senza complessi. Così, mentre con gli amici del quartiere andavo condividendo tutte le tappe tipiche di un adolescente medio di allora - dalle sigarettine ai due di picche - con Sbiella affrontai il passaggio dagli otto ai sedici bit.

Sbiella, tra l’altro, era quel genere di giocatore che compra i titoli “fuori priorità”. E non perché fosse particolarmente ricco o altro. Anzi, ricordo che i suoi genitori erano dei normalissimi insegnanti. No, la sua era proprio un’inclinazione: era capace di presentarsi col sorrisone e l’apparecchio per i denti con in mano la cartuccia di Zombies Ate My Neighbors, o quella di Super Adventure Island o di Aladdin al posto dei vari Zelda, NBA Jam o Street Fighter II d’ordinanza. Immagino, con quello che costavano le cartucce all’epoca (soprattutto in rapporto allo stipendio mensile di uno studente: cioè zero), che senza gli anticonformisti come Sbiella oggi il mercato sarebbe meno vario. Ricordo in particolare un pomeriggio tardo invernale - mi pare fosse all’inizio del ‘97 - che si era da lui per i compiti. Dopo aver copiato la versione di latino e matematica, notai con la coda dell’occhio, infilato tra le cartucce USA per SNES, un gioco che non avevo mai visto.

«Che roba è, Sbiella?»

«Come cos’è? Sei scemo? È il Kirby per SNES, l’ho preso a Varese, è americano: non hai letto la recensione?»

«Mmm, no. Ho giocato quello sul Game Boy, però»

«Bella merda. Dai, lo metto su»

«No, facciamoci uno Street Fighter»

«No. Kirby, ché è nuovo e lo voglio provare in doppio. Cazzi tuoi» (Sbiella era incline a quell’arroganza difensiva tipica di chi ha passato le medie vessato dai bulli).

[Segue spiegone del gioco: se non vi interessa, scorrete veloci fino alla gif con la tizia protagonista dei racconti di Babich]

“Il Kirby” impostomi da Sbiella era (è) un multievento asimmetrico diretto da Masahiro Sakurai, l’enfant prodige che nel 1992 aveva curato - appena diciannovenne – lo stesso Kirby's Dream Land per Game Boy tanto vituperato da Sbiella (il più delle volte ci prendeva, ma altre non capiva veramente un cazzo). Da lì a qualche anno, Sakurai avrebbe dato vita, tra le altre cose, alla serie Super Smash Bros., che ai primi Kirby deve un po’ di cosucce, sia a livello di meccaniche che di stile. Ho scritto "multievento asimmetrico" perché i piatti forti del gioco erano una manciata di platform affiancati a esperienze più snelle e frizzantine. Sul fronte dei primi c’erano: Spring Breeze, sorta di riassunto colorato di Kirby's Dream Land; Dyna Blade, in cui toccava fare i conti con l’uccellaccio gigante eponimo; The Great Cave Offensive, che aggiungeva un po’ di esplorazione e la caccia ai tesori; Revenge of Meta Knight, nel quale una serie di vincoli temporali andava ad incidere sul ritmo. Infine: Milky Way Wishes, forse il gioco più vasto della collezione, che infilava Kirby in un’avventura interplanetaria.

Spring Breeze.

A fianco di questi giochi più grossi e di una modalità arena in cui sfidare i boss, Kirby Super Star proponeva anche una manciata di semplici minigame: Gourmet Race, una gara di corsa/mangereccia contro Re DeDeDe, volubile antagonista storico del pacioccoso confetto rosa; Samurai Kirby, una sorta di duello in chiave samurai basato sul tempismo; Megaton Punch: un puzzle/rhythm game di destrezza.

Queste saranno le uniche zinne che incrocerete in questa storia.

[FINE SPIEGONE]

Come ho già detto, Kirby non era propriamente il genere di gioco che poteva finire nella mia wishlist dell’epoca. Però era senz’altro un titolo che coccolava la mia sete di Sol Levante e di giochi tondi, ché quelli erano pur sempre gli anni delle prime ondate manga nelle fumetterie, e tutto quello che sapeva di Giappone sapeva di buono. Kirby apparteneva alla categoria che all’epoca chiamavo grossolanamente “rotondo-bolla”, che comprendeva tra le altre cose Parasol StarThe NewZealand Story, Rodland e Parodius (a quest’ultimo mica avevo giocato, l'avevo solo sbirciato libidinoso sulle pagine delle riviste). Un tondo incontaminato, colorato, diverso dal tondo - pure bellissimo, ma ormai già codificato e in qualche modo “occidentalizzato” - dei vari Super Mario. Quello di Kirby e compagnia, ai miei occhi, era un tondo più giapponese, più esotico.

Megaton Punch.

Ora, chi è giovane - o chi lo è stato - conoscerà senz’altro quella sensazione inebriante di avere sottomano tutte le cose più belle del mondo e tutto il tempo a disposizione per godersele. La stessa sensazione che, quasi sempre, spinge a dare precedenza assoluta alle cazzate. Così io e Sbiella finimmo col passare il resto della giornata a furia di sfide su Megaton Punch e su Samurai Kirby, probabilmente i giochi più casual della raccolta (nonché della ludoteca stessa di Sbiella), sorta di versione ante litteram delle trovate di 1-2-Switch.

Il pomeriggissimo.

Il pomeriggio ci scivolò tra le dita, e quella fu anche l’ultima volta che misi piede a casa di Sbiella. Da lì in avanti, senza ragioni particolari, come succede alle volte, ci perdemmo semplicemente di vista. Nel giro di pochi mesi finimmo risucchiati dai pochi contesti disposti ad accogliere dei mezzi disadattati: io mi feci montare dalle occupazioni, dai centri sociali e da quelle robe lì con la kefiah. Sbiella, dopo una brevissima parentesi discotecara e conseguente delusione amorosa, si fece crescere la barba, raccolse i pochi capelli che aveva in una coda di cavallo alla Gygax e si iscrisse a ingegneria. Non lo rividi mai più.

Sei mesi dopo, con il liceo ormai alle spalle, mi trovavo a Parigi a cavalcare l’irrinunciabile cliché dell’interrail, tanto in voga tra gli aspiranti radical-chic di allora. La prima parte era andata abbastanza liscia: con i miei compari di viaggio avevo riso, scherzato, mangiato anche piuttosto decentemente e dormito tra campeggi e ostelli. Dopo un paio di settimane senza bidet, però - mi pare che il punto di non ritorno fosse stato in Olanda - finimmo tutti con l’inselvatichirci, rinunciando progressivamente a birra, sigarette, cibo, sonno e, come ultimo passo verso la bestialità, alle batterie del walkman su cui facevamo girare a ripetizione i C.S.I. di Tabula Rasa Elettrificata. Ottimizzammo anche la faccenda dei pernottamenti notturni: la sera tardi saltavamo sugli ultimi treni andata/ritorno, dormivamo sul portabagagli per poi svegliarci la mattina dopo al punto di partenza. Iniziammo a nascondere soldi e cibo diffidando gli uni degli altri e seppellendo nel biasimo sociale ogni minima mollezza: erano tempi duri e duri bisognava mostrarsi, a qualsiasi costo e nonostante i traveler's cheque della mamèta.

Ah, il fascino dell'interrail, delle Birkenstock e del portabagagli.

Tra l’altro, più o meno alla terza settimana di viaggio, io mi ero pure fissato su un progetto inconfessabile: risparmiare più denaro possibile per comprare, una volta tornato a casa, una PlayStation chippata su cui far girare Dragon Ball: Final Bout, che avevo intravisto per caso su una rivista di videogiochi francese.

Partiti a inizio agosto, verso la fine del mese eravamo tutti esauriti; diversamente dalle dinamiche di gruppo rappresentate al cinema da Boyle tra noi non esistevano fazioni e sottogruppi: tutti odiavano tutti. Del resto, quando uno è passato per gli anni Ottanta, resta segnato a vita, e non puoi sperare di spegnere i neon semplicemente coprendoli con una kefiah. Una delle ultime mattine di quel supplizio, stavamo scendendo per l’ennesima volta da un treno andata/ritorno alla stazione di Parigi Nord, dopo la solita nottataccia in carrozza. Poco prima dell’uscita, mentre lancio le solite maledizioni mattutine, noto una specie di edicola/cartoleria/rivendita di souvenir gestita da un asiatico, con una cassetta da frutta piena zeppa di videogame usati.

Uno di questi mi fulmina: il titolo sulla scatola recita Kirby's Fun Pak, ma non ho dubbi: si tratta dello stesso Kirby a cui avevo giocato da Sbiella qualche mese prima. Per la prima volta in vita mia, sperimento una “madeleine”. Cerco il tizio del negozietto, prendo coraggio e faccio leva sul mio indecente Francese delle medie (i miei, lombardi da generazioni, mi avevano obbligato a studiarlo al posto dell’Inglese perché «somiglia al nostro dialetto»):

«Ça fait combien Kirby

«Pardonnez-moi? Je n'ai pas compris»

«Kirby. Ça fait combien?»

«Ça fait cent francs»

«OK, je vais l'acheter. Est-ce que je peut lui nourrir àpres minuit?»

«Quoi?? Pas de réductions!»

A quel punto, senza guardare il tizio negli occhi, mi abbasso verso la cesta, prendo il gioco e scappo senza pagare.

Ora, davvero non saprei dire se l'avessi fatto per sfida o perché il tizio asiatico non aveva apprezzato il mio humour e i mie sforzi linguistici, o perché ormai mi sentivo un ribelle-randagio fuori dalla bambagia. Forse, quando uno è stanco e stressato, fa cose sceme d’impulso, tuttavia oggi preferisco metterla come una specie di commiato dall’adolescenza, o qualcosa del genere.

La verità è che in quel momento, più che altro, correvo paonazzo senza pensare a un bel niente, col cuore che mi prendeva a pugni la gola e sentendomi braccato come un ragazzo nero della banlieue.

Sempre a rotta di collo raggiungo gli altri, che intanto mi avevano lasciato indietro, e li trovo a far capannello davanti all’uscita assieme a un mucchio di viaggiatori e tante, tantissime guardie armate di cani e mitragliette. “Ellamadonna!”, penso, “Tutto ‘sto casino per un furtarello?”. Col passare dei minuti, il clima si fa sempre più sbilenco.

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Sandwich.

Eppure, dopo essere stati ispezionati, fiutati e guardati male persino dalle foto di Will Smith e Tommy Lee Jones sui poster di Men in Black appesi in stazione, veniamo congedati.

Appena fuori tiro, decido di sbarazzarmi di Kirby e dei sandwich, ma noto che i cestini della spazzatura sono tutti sigillati (strano!). Poi, alla fine di una scala mobile in salita mi si para davanti uno schermo televisivo, e di colpo realizzo:

A quanto pare, il fattaccio era successo la notte prima, solo che all’epoca internet non c’era e noialtri sul treno ancora non avevamo sentito nulla. Del resto di quella giornata. non ricordo un fico secco.

Ora mi piacerebbe scrivere che, una volta tornato a casa, ho infilato la cartuccia di Kirby’s Fun Pack nel Super Nintendo e ci ho giocato in memoria dei tanti pomeriggi passati a casa di Sbiella. La verità, però, è quasi sempre più pratica della fantasia e dopo essermi strafogato di pizzoccheri, ho raccolto i soldini avanzati dalla vacanza, venduto lo SNES con tutti i giochi senza guardarmi indietro e comprato la tanto sognata PlayStation con Dragon Ball: Final Bout che – sorpresa sorpresa – faceva cagare. A tutt’oggi, l’unico “souvenir” che ho conservato di quel viaggio e di quell’avventura è un manuale in tedesco tutto sgualcito: la vita, come ha scritto qualcuno, non è che un atto di separazione.

Un tulpa.

Ho giocato a Kirby Super Star su un MacBook Pro del 2012 via OpenEmu e una rom (USA) scaricata dal sito (francese) Planet Emulation - Les jeux video ont aussi leur histoire. Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Soprattutto, è frutto di immaginazione la faccenda della cassetta dei CSI, ché Tabula Rasa Elettrificata è uscito solo il 1° settembre 1997, ma ce lo volevo infilare lo stesso per fare il figo (in realtà, durante l’interrail, ascoltavo una compilation dei Roxette). Comunque, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Aspettando il Nintendo Classic Mini: Super Nintendo Entertainment System", che trovate riepilogata a questo indirizzo.