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Mamma, mi fa male il Let's Play

Ricordo una conversazione, avuta tempo fa, in cui il mio interlocutore, persona tutt’altro che sprovveduta, dava addosso alla pratica del cosiddetto Let’s Play (in italiano Giochiamo! - sì, con tanto di punto esclamativo, ché sennò non rende). Non di rado, quando ti trovi nel bel mezzo di una conversazione il cui oggetto non ti è particolarmente familiare, tendi a dar ragione a chi ti sottopone dei ragionamenti vagamente sensati; non ti ci butti a capofitto, non li fai tuoi, insomma, però sei in quella fase in cui il beneficio del dubbio lo concedi senza riserve. E allora andò così: Let’s Play stupido, e stupidi pure coloro che vi si concedono da ambo le parti.

Come altrettanto spesso accade, però, certo manicheismo ha poco senso, ma soprattutto non contribuisce ad una valutazione quanto più circostanziata di un dato fenomeno. Già il giorno dopo ero meno convinto: disposto ancora ad accettare che la persona con cui avevo discusso la sera prima avesse delle valide ragioni per rigettare la cosa, mi persuasi al contempo che ciò che andava bene per lui non era sufficiente per me. Ma neanche alla lontana. Solo adesso mi rendo conto di non aver ancora fornito uno straccio di descrizione circa la procedura del Let’s Play, che in parole povere consiste in una o più persone che decidono di giocare ad un videogioco mostrando pubblicamente, in diretta o in differita, la loro sessione. Vi saranno sottocategorie, non lo escludo, ma tanto basta per poter proseguire.

A darmi la leggera spinta di cui avevo bisogno è stata la recente diatriba tra PewDiePie, lo youtuber par excellence, e Sean Vanaman, co-fondatore di Campo Santo (quelli di Firewatch, bravi). Tutto scaturisce da una diretta nel corso della quale il biondissimo youtuber se n’è infelicemente uscito con la parola che non va pronunciata, quella che ha scatenato la conseguente N-pocalypse, ossia «nigger». Infelice a ragion veduta, dato che il nostro in passato ha già avuto problemi di questo tipo, che gli sono valsi gli epiteti più disparati ma tutti sulla falsa riga di razzista, nazista, antisemita e via discorrendo. Ci torneremo.

Vanaman che fa? Siccome Felix Arvid Ulf Kjellberg (vero nome di PewDiePie) in passato ha pubblicato almeno un Let’s Play basato su Firewatch, il buon Sean non decide semplicemente di prendere le distanze bensì di attaccare dritto per dritto lo svedese. Della diatriba in sé m’interessa poco, se non un tweet in particolare, ovvero questo:

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A me che ho a cuore il sondare gli sviluppi di questo settore più che l’ultima sparata del Presidente degli USA, manco fossi un’anima bella, la vera bomba sta in queste diciannove parole. Mettiamo da parte per un attimo l’atteggiamento, i toni e quant’altro e focalizziamoci sul contenuto: per Vanaman, mister PewDiePie non avrebbe (più? da sempre?) il diritto di (testuale) far soldi con le sue creazioni. Allorché toccherà entrare nel merito dello scontro, mi esporrò senza remore, mentre per il momento mi accalora questo discorso relativo a chi fa soldi sostanzialmente giocando a videogiochi.

Nel video di risposta alle affermazioni di Vanaman, giustamente, il Kjellberg ha ravvisato trattarsi di una zona grigia, sebbene con chiaro riferimento alle implicazioni giurisprudenziali del fenomeno. La giurisprudenza però non è avulsa dal raziocinio, o almeno non dovrebbe, perciò, pur da non giurista, posso ricavare qualche pensiero per lo meno utile al fine di riuscire ad incasellare meglio la questione. Partiamo da principio, ossia dalla definizione della summenzionata pratica: Let’s Play. Per quanto la forma sia impersonale – infatti, una delle possibili traduzioni potrebbe pure essere «Si giochi!» - è evidente che vi sia un soggetto ben determinato che conduce, mentre tutti gli altri sono tenuti, qualora volessero, ad assistere, niente di più niente di meno. Dunque, si tratta di una persona (raramente oggetto di questa pratica è la modalità multiplayer, e anche lo fosse, è pur sempre uno il vero “protagonista”) che si produce in una performance rispetto al pezzo di software con cui sta interagendo.

Quanto appena evidenziato potrebbe costituire una discriminante non da poco: nella misura infatti in cui accettiamo che chi trasmette o registra le proprie sessioni di gioco sia un performer, uno/a che insomma si esibisce nell’ambito di un’attività specifica, le implicazioni sarebbero tali da avere delle nette ripercussioni anche sul fronte giuridico. C’è infatti una profonda differenza tra il mero sfruttatore di opere altrui e chi invece si serve di tali opere per metter su qualcosa di altro tipo. Per agevolarci, anche se non sempre la via più facile è la migliore, chiameremo questa cosa “spettacolo”: chi conduce i Let’s Play fa spettacolo. Una forma di spettacolo che può non piacere, che qualcuno può addirittura trovare esiziale; ciò non toglie che là fuori esiste un pubblico che ama essere intrattenuto in questo modo.

Oso ancora di più, ricollegandomi al concetto di performance. Nel 1981, il regista danese Jørgen Leth girò quella celebre scena in cui Andy Warhol mangia un hamburger di Burger King. Nessuno con un minimo di giudizio potrà mai negare che tale scena, oltre a lanciare un messaggio del tipo «Per amor del cielo, lasciate l’immagine così com’è», senza imbellettamenti e modifiche artificiose di alcun tipo, rappresenti una notevole prova d’attore. Warhol si muove con naturalezza eppure i suoi gesti sembrano pre-ordinati, calcolati non solo nel numero ma anche nell’ampiezza e nella tipologia - irresistibile l’irrompere dell’imponderabile, incarnato in una bottiglietta di ketchup che fa le bizze. La scena è esattamente quella cosa lì, ossia un noto artista del ‘900 mentre mangia un hamburger; nulla è superfluo né hai l’impressione che manchi qualcosa, compresa la stringata frase di congedo.

Ci sono casi in cui lo streamer/let’s player non ci mette la faccia, e allora tutto il peso della recitazione cade sulla voce, le parole, la loro intonazione. Ma pure in quel caso… come si fa a non riconoscere che quel video non sarebbe esistito senza il contributo determinante di chi parla, gioca e/o monta? E siamo partiti dal caso più estremo, quello di chi si limita al commento quale che sia. Perché chiunque si trovi davanti ad una macchina da presa sta recitando, c’è poco da fare: sublime o pessimo che sia il risultato, ad essere chiamato in causa è l’attore, non coloro che hanno indirettamente contribuito a tutto ciò che vi è di accessorio, per quanto abbia una valenza rilevante.

Per tornare alla scena di Warhol, allora, immaginate che ai piani alti dell’azienda Burger King se ne fossero usciti dicendo: «siamo stufi di quest’eccentrico artistucolo che fa soldi con ciò che noi abbiamo creato». D’altronde, l’hamburger in questione non funge da sfondo, come per esempio lo è la cravatta che Warhol indossa, ricoprendo anzi un ruolo primario nell’economia della scena. Una scena che, in relazione al prodotto, è essenzialmente neutra, poiché né lo esalta né lo mette in cattiva luce. Questa, se vogliamo, è un’altra peculiarità del Let’s Play, che, anche laddove contempli giudizi di merito, non è per sua natura una recensione: come quel reperto del 1981, è quella cosa lì e quella soltanto. Può essere un RPG piuttosto che un action, così come Warhol poteva mangiare della carne in scatola o una carota (sebbene quest’ultima non fosse abbastanza pop), ma il discorso concettualmente resta invariato.

A tutto ciò va aggiunto un ulteriore strato, che consiste nell’unicità della sessione. Ciascun videogioco è un sistema che prevede più o meno variabili, possibilità; per quanto il numero di tali variabili sia in ogni caso finito, se consideriamo le possibili combinazioni, fermo restando la tipologia di gioco, il suo genere, possiamo senz’altro affermare essere estremamente raro (non sono un matematico, perciò non dico «impossibile», benché poeticamente mi piaccia pensarlo) che due persone alla fine abbiano giocato allo stesso modo col medesimo titolo, confrontandosi nel 100% dei casi con le medesime fattispecie. A tutto ciò lo sviluppatore del videogioco ha certamente contribuito, così come chi ha preparato quell’hamburger e prima di lui chi lo ha concepito con quegli ingredienti, e prima ancora chi ha allevato i bovini o coltivato il grano di cui è fatto il pane. Ma nessuno, per via di un successivo uso, è in diritto di avvalersi del proprio contributo al fine d'impedire a qualcun altro di mostrare pubblicamente ciò che ne fa del prodotto.

Ovviamente ci sono dei limiti, ci mancherebbe altro: se quel panino lo utilizzo per girare una scena di soffocamento non accidentale, è chiaro che gli estremi per prendere risolutamente le distanze e condannare il cattivo uso ci sono, e non solo da parte del produttore. Ma sono casi estremi, nel cui novero, tornando ai videogame, non farei rientrare nemmeno quell’altra pratica volta ad intrattenere mediante la collezione di glitch, bug et similia, anomalie quasi sempre non volute e che di certo non sono lusinghiere rispetto al lavoro di chi ha sviluppato quel software. Tuttavia, finanche in relazione a quest’ultima fattispecie non si può parlare di uso improprio, a meno che tutto ciò non sia originato dalla manomissione del codice, andando cioè ad intervenire in maniera invasiva prima ancora che illegale, come se durante uno spettacolo teatrale salissi sul palco e spostassi o rimaneggiassi oggetti di scena a mio piacimento.

Un esempio a tal proposito, ed è lampante, lo abbiamo già sotto gli occhi, ed è rappresentato dalle recensioni. Qui il confine tra uso proprio ed improprio è molto labile, nel senso che sottile è la linea che divide l’onesto recensore che valuta un’opera esaminandola e quello meno onesto, o riversando la propria avversione sull’oggetto in esame con termini e toni inopportuni oppure incensandolo oltre i reali meriti, in ogni caso senza darne sufficientemente contezza. Lì l’equivoco è dietro l’angolo, le opinioni personali, con tutti i pregiudizi ed altri limiti del caso finiscono con l’avere un peso forse addirittura eccessivo rispetto al valore dell’opera. Nel Let’s Play, specie qualora non si fosse successivamente intromesso il montaggio, viene conservata l’integrità, (mi sbilancio) la purezza della performance.

Perché sì, di performance si tratta, a prescindere dai meriti artistici, esistenti o meno che siano. Lascio volentieri l’onere di certe valutazioni a critici d’arte ben più consapevoli e preparati del sottoscritto, ma è evidente che qualunque azione io compia con l’intenzione di esibirmi davanti a qualcuno e mostrargliela, all’atto di compiersi o in un momento successivo, fa di me un performer. Non è come dire che se giro un film sono un regista, ma in quel momento, mentre lo giro, senza dubbio mi sto comportando come tale; e tale sono allorché qualcuno guarderà il film una volta completato. Questo fa di me un Regista con la R maiuscola? No di certo, né tantomeno un artista, ma senz’altro uno che in un dato momento ha fatto una cosa e quella cosa è stata girare un film.

Sperando di avere almeno in parte chiarito le ragioni per cui a pieno titolo chi conduce Let’s Play di ogni genere fa qualcosa che prima non esisteva e che perciò si trova nella condizione di non essere trattato alla stregua del mero parassita, tocca tornare a bomba su Vanaman, come promesso. Quest’ultimo, va detto, si è trovato in una situazione delicata, magari sinceramente offeso dall’ennesima uscita sopra le righe di PewDiePie: «Ne approfitto o no, dato che per altro mi sta pure sul cazzo?». E i tweet compulsivi può darsi che abbiano preceduto la risposta a questa domanda, dato che il co-fondatore di Campo Santo non mi sembra aver gestito bene la situazione. Basta vedere lo storico dei tweet, che tradiscono una certa fretta nell’essere pubblicati, tanto che ciascun tweet pare essere una parentesi/aggiustamento di quello che lo precede. In particolare gli ultimi due, in cui, rispettivamente, viene prima riconosciuto che dal video di PewDiePie a trarne beneficio sono stati anche loro, mentre poi ci si sente in dovere di manifestare la propria attestazione d’affetto verso gli streamers; tipico caso di excusatio non petita, accusatio manifesta.

Quel che è peggio è che il video incriminato (non si sa per quale ragione… o meglio si sa, il che è pure peggio) è stato oscurato, o quale che sia la terminologia adatta, contravvenendo ai Termini d’uso relativi al contratto, i quali non sembrano vietare in alcun modo attività del genere. Anzi, sul sito ufficiale di Firewatch, a domanda precisa, la risposta è che «Adoriamo che le persone facciano dirette o condividano le proprie esperienze nel gioco. Siete inoltre liberi di monetizzare sui vostri video». Capite? I vostri video. Campo Santo implicitamente e a priori riconosce quanto finora detto e lo avalla: chi condivide le proprie esperienze di gioco ne è al contempo proprietario, dunque può guadagnarci sopra. Semplice, chiaro, di buon senso. Sensatezza che stona con la foga con cui Vanaman si è scagliato, visto e considerato per altro che il suo titolo non è stato chiamato direttamente in causa; al che l’antipatica impressione, quella che rimanda alla cavalcatura leggiadra, prende corpo, anche perché, lo sappiamo, l’occasione fa l’uomo ladro: e in quest’epoca così intrisa di craptivism (non è mia ma apprezzo) la tentazione si è fatta sempre meno resistibile.

D’altra parte, prima ancora che suonare sospettosamente opportunistica, questa reazione riduce ad un argumentum ad hominem quella che invece è una questione di portata decisamente più ampia, ovvero la condotta di chi gioca online. È di questi giorni un articolo apparso tra le pagine di Polygon, in cui Mike Sholars ha a ragion veduta spostato l’attenzione su quello che dovrebbe essere il vero oggetto di dibattiti accesi, pur partendo dalla vicenda PewDiePie. Il titolo è eloquente: «Videogiocatori come PewDiePie sono il motivo per cui non gioco online». Non mi sento di condividere in toto quanto lì espresso, ma il problema che solleva esiste e prima o poi va affrontato, proprio dagli sviluppatori in primis; chi ha giocato oppure gioca ancora online sa che questa è una sorta di zona franca, dove tutto è permesso, nella quale chiunque si sente in diritto (se non in dovere) di esternare la qualsiasi, senza freni inibitori.

Certo, un peso non da poco in questo senso lo ha la natura non di rado competitiva, laddove non proprio agonistica in certi casi, che ha assunto il giocare online e che espone ad uscite tremende. È cultura, pessima o eccelsa che sia; dunque le ricette non sono semplici e sperare che il mero scorno o addirittura pene di vario tipo possano realmente cambiare le cose è nella migliore delle ipotesi figlio di un ottimismo becero. Però è vero, leggete l’articolo summenzionato: si resta inermi davanti a chi, mediante un microfono, ti vomita addosso le ingiurie più disparate, quali che siano le ragioni. E se non è un insulto a sfondo razziale, è un’espressione comunque ben oltre il colorito, come pure una bestemmia o un’imprecazione che, al contrario delle altre manifestazioni di patente ignoranza che urtano, sono accettate o considerate di gran lunga più accettabili. Eppure sempre d’ignoranza si tratta.

L’autore dell’articolo apparso su Polygon pone noi e chi fa videogiochi nella scomoda ma a questo punto necessaria posizione di dover scegliere: o si alza la voce contro lo status quo oppure, per amore della pace, ci si allontana più o meno mestamente da un contesto così indisciplinato. Tertium non datur. A questo livello, si capisce bene, il discorso è di ben altro spessore rispetto ai “complimenti” rivolti da Vanaman all’indirizzo di Kjellberg. Qui e adesso non importa stabilire quale delle due opzioni rappresenti la migliore, purché però ci si sposti all’altezza di quei termini lì, smettendola di semplificare fenomeni che, se non sono complessi di loro, lo diventano rispetto a certe loro implicazioni.

Breve ricordo personale. Cominciai a bazzicare assiduamente il gioco online con l’avvento di Xbox 360, siccome la mia indole per la competizione è pressoché nulla e nemmeno da più piccolo giocavo ai videogiochi contro gli amichetti con cui condividevo il panino alla Nutella. Ringrazio il cielo di riuscire ancora a figurarmi non tanto la situazione bensì proprio le sensazioni di quel primo collegamento, io che comunque gli Internet Point li avevo sfiorati già anni prima, quando altri se le davano di santa ragione su Quake ed io, non so come, osservano interessato - limitandomi a quello e nulla più, così come, ancora prima, guardavo altri stoccarsi le dita sui cabinati di Bubble Bobble, Metal Slug o Street Fighter II. Ad ogni modo, ho davanti a me l’imbarazzo misto ad eccitazione nel sentire quella voce, la prima voce di un estraneo che entrava nella mia stanzetta attraverso questo strano marchingegno; ed era come averlo lì, uno che non sapevo chi fosse, che faccia avesse. D’un tratto materializzatosi nella location più intima di tutte, insieme al bagno, a discutere essenzialmente di stupidaggini, ché quello puoi dire, quando larga parte delle tue funzioni è occupata a processare lo stupore per la novità di una situazione così inedita.

Passò qualche mese e chiaramente la meraviglia sfumò, fino poi a svanire: al suo posto, tra le altre cose, qualche cretino, certo. Pure loro. Che fossero dei consapevoli rompicoglioni o dei non meno innocenti quantunque più scusabili “pesantoni”, resta il fatto che attaccare quelle cuffie al pad significava entrare in un’altra dimensione, diversa dalla realtà, in cui per forza di cose ti sentivi protetto, e questo è sempre stato croce e delizia: proprio la condizione di sicurezza, del non dover dare conto a nessuno per ciò che dici, poiché nessuno può concretamente farti nulla se non “mutarti”, suppongo sia il motivo principale per cui ci si lascia non di rado andare, a volte proprio come bestie. Ma se abbiamo realmente a cuore questo mondo, dobbiamo accettare anche questa, di sfida, senza trincerarci nella sterile indignazione, in quell’atteggiamento così autoreferenziale e controproducente di chi si trova un gradino sopra, ditino pronto ad indicare con ovrrovre «loro», questi veicoli di Male allo stato puro.

Nel caso di specie, poi, multiplayer e gioco online coincidono, e come tale l’episodio che ha visto coinvolto PewDiePie va letto, tenendo conto di queste ed altre dinamiche attinenti all’ambiente entro cui una simile esclamazione, di per sé condannabile, è scaturita. Se vogliamo, l’errore più grosso del Kjellberg è stato quello di essersi anche solo per un istante dimenticato di essere PewDiePie, uno a cui starebbero col fucile puntato addosso anche se non avesse dei precedenti, in ragione della notorietà acquisita: effetti collaterali dell’essere celebri. Quell’attimo gli è costato caro, anche se sinceramente mi auguro che si sia in grado di voltare pagina e smetterla con questa inutile caccia alle streghe. Si sfrutti invece quest’ennesima occasione per soffermarsi sulla cultura dell’universo online, come fare per migliorarla senza renderla impraticabile, asfissiandola di norme e regolamenti, ché un’occasione del genere potrebbe non ricapitare per parecchio tempo.

Tanto, alla fine della fiera, ciascuno porta sempre acqua al proprio mulino, come lo stesso Sholars, il redattore dell’articolo di Polygon segnalato qualche capoverso sopra: da un lato dice di aver smesso di giocare online a causa di gente come PewDiePie, ma se poi vai a leggere la sua bio, scopri che «Gioco ai videogiochi per la storia ed il gameplay anzitutto, perciò non sono mai stato particolarmente attratto dai titoli multiplayer competitivi - con Overwatch unica eccezione di rilievo». Meglio della descrizione che Sholars fa di sé stesso, perciò, preferisco tenermi la chiusa di questa sua breve biografia: «Let’s Play».