Erased, o della nostalgia per quell'infanzia in Giappone che non ho mai vissuto
Per quanto mi riguarda, una fra le cose più fighe legate a Netflix e compagnia è la possibilità di esplorare produzioni televisive provenienti dai più svariati angoli del globo. Penso ad esempio alla serie tedesca Dark (carina) o a quella britannica (e bellissima) The End of the F***ing World, fermo restando che le mie serie preferite restano quelle giapponesi.
Da un lato subisco il fascino del Giappone per ragioni, diciamo, “anagrafiche”: chiunque abbia trascorso l’infanzia in Italia tra gli anni Ottanta e i Novanta (ma pure dopo, via) non ha potuto fare a meno di abbronzarsi sotto i raggi del Sol Levante.
In secondo luogo, e qui siamo di fronte a un feticcio un po’ più personale, trovo particolarmente mesmerizzanti le produzioni televisive live action giapponesi. Intendo proprio a livello visivo e di linguaggio, con quel loro tono un po’ così, bizzarramente cheap al limite della soap opera, e quella recitazione imparruccata.
Del tutto a pregiudizio, ho anche la sensazione che le serie TV, rispetto ai manga o ai film di prima fascia, mettano in scena un Giappone un po’ più “feriale”, quotidiano. Meno da esportazione, proprio perché meno esportabile. Di fronte a dorama (è giusto? Si dice così? Correggetemi se sbaglio) tipo Samurai Gourmet, Midnight Diner: Tokyo Stories, Million Yen Women, giù giù fino ai guilty pleasure da serva come Atelier o Good Morning Call, resto sempre affascinato dall’imprevedibilità “morale” delle situazioni rappresentate, perlomeno ai miei occhi di gaijin. Per fare un esempio deliberatamente spoiler: prendiamo quell’episodio di Samurai Gourmet ambientato nel ristorante di ramen cinese un po’ malfamato con la cuoca che stizza in cucina. Ora, se fossimo in una qualsiasi serie occidentale (leggi: americana o italiana), la morale della favola sarebbe che il locale più ruvido e verace è anche quello dove alla fine si mangia meglio. Che nella ciotola di legno si nasconde il Santo Graal, o che l’abito non fa il monaco, giusto? Beh, in ottica giapponese è sbagliato: qualche volta l’abito fa il monaco, eccome. Il ramen della cinese sciantosa si rivela una schifezza immangiabile, a differenza di quello istantaneo preparato con mani amorose dalla moglie dell’anziano gourmet. Insomma, è quell’imprevedibilità lì sulle cose di tutti i giorni che mi affascina. Quel non sapere con precisione dove si andrà a parare.
Detto questo, non sono qui (solo) per parlare del mio rapporto con le serie giapponesi, ma semmai per dire bene della migliore che ho incrociato durante i miei recenti vagabondaggi televisivi. Mi riferisco a Erased, tratta dal seinen manga Boku dake ga Inai Machi (letteralmente: “La città in cui io non ci sono”) di Kei Sanbe, e sbarcata su Netflix lo scorso 15 dicembre, con tutti i suoi dodici agilissimi episodi da mezz’ora ciascuno.
Di partenza la serie è sostanzialmente un thriller con elementi sovrannaturali, che si sviluppa attorno al giovane Satoru Fujinuma (Yûki Furukawa), aspirante mangaka dotato del bizzarro e inspiegabile potere di riavvolgere il tempo a fronte di un qualche pericolo.
In genere, il ragazzo viene risucchiato nel passato solamente di qualche minuto, lo stretto necessario per impedire situazioni drammatiche. Tuttavia, in seguito alla misteriosa morte della madre Sachiko (Tomoka Kurotani), Satoru viene spedito addirittura dal 2006 al 1988, al tempo delle elementari, e conseguentemente costretto a ripercorrere parte della propria infanzia nel tentativo di districare una fitta trama di delitti.
A livello narrativo, l’innesco da giallo funziona abbastanza bene. Il mistero è intrigante e aggancia lo spettatore, ma nel complesso è anche piuttosto convenzionale; senza contare che la presenza di un elemento sovrannaturale trucca un po’ la partita. Ciononostante, il principale valore della serie non risiede tanto nel mistero di fondo, quanto piuttosto nelle atmosfere che riesce a evocare e nella caratterizzazione dei personaggi. Se siete venuti su con le opere di Mitsuru Adachi, Rumiko Takahashi o Naoki Urasawa, Erased vi toglierà il fiato: nonostante alcune sequenze al chiuso soffrano un po’ - ma non troppo - dell’effetto cheap descritto poco sopra, gli esterni della città di Tomakomai coperta di neve sono straordinari nella loro semplicità. Con quei tagli di luce virati verso l’azzurro-ghiaccio, i fiocchi di neve e il cielo stellato, il 1988 di Erased è esattamente uguale al Giappone che sognavo da bambino. E se la saudade che colpisce il protagonista dell’opera è principalmente temporale, per lo spettatore occidentale è anche e fortemente di natura spaziale (o meta-spaziale, boh: ho in testa quel che voglio dire ma non so come dirlo!).
Al di là dei misteri da sciogliere, il ritorno all’infanzia rappresenta per Satoru l’occasione per mettere in discussione le proprie scelte, per aprirsi agli altri e vivere più intensamente la propria vita senza dare nulla per scontato, nemmeno le piccole cose. Così, un semplice pasto consumato in compagnia della madre risveglia nel protagonista sensazioni quasi dimenticate, portandolo sull’orlo della commozione (tra l’altro, quella scena mi ha ricordato un sacco l’incontro tra Peggy Sue e i suoi nonni nell’eponimo film di Coppola).
Poi, poco per volta, le tematiche di crescita si fondono con l’avventura; attorno a Satoru si forma un gruppo di amici intenzionati a risolvere i misteri della città (la serie ha qualche vago tratto in comune con Stranger Things o IT, ma niente di troppo spinto) e a dare supporto alla piccola e solitaria Kayo Hinazuki, che vive un rapporto tribolato e violento con la propria famiglia. Proprio i giovanissimi attori sono tra le cose migliori della serie (fermo restando che anche gli adulti non sono male, eh), a cominciare dal protagonista interpretato da Reo Uchikawa, seguito a ruota da Rinka Kakihara (Kayo Hinazuki).
Terminata la lunga parentesi nel passato, Erased, più o meno verso la fine, rimette in moto la storia principale, riconnettendosi al presente fino all’immancabile resa dei conti con il cattivo della situazione, che pure - senza fare spoiler - ho trovato piuttosto azzeccato in termini di caratterizzazione, così come azzeccato mi è parso tutto l’epilogo in generale.
Ora, sarà che ‘sta serie è andata a colpire sistematicamente tutti i miei punti deboli (la nostalgia, l’infanzia, il rapporto col tempo, eccetera), sarà che in questo periodo sono in vena di robe giapponesi, ma al netto di qualche ingenuità, Erased non manca davvero di nulla, e mi sento di consigliarla senza riserve persino a chi normalmente non bazzica in questo genere di produzioni.
Ho guardato - anche se sarebbe meglio dire divorato - tutti i dodici episodi di Erased nel giro di due o tre sere durante le scorse festività e, nonostante i segmenti thriller, li ho trovati natalizi quanto l’albero decorato o il panettone. Ripeto, il fatto che Netflix ci permetta di accedere a queste produzioni è una figata, ma al contempo rende ancora più impresentabili le nostre monete di scambio, tipo Adriano Olivetti - La forza di un sogno o Don Matteo.