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Spoiler Zone #5 - The Evil Within: orrore, spiegoni e onanismi mentali

Una rubrica in cui parliamo di giochi, film, libri, la qualunque, a posteriori, senza farci alcun problema di spoiler. Insomma, se non avete ancora "consumato" ciò di cui si parla, statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!

L'orrore non ha nome: si insinua in maniera subdola, strisciante, ammantandosi di nero tra le ombre e di bianco su una distesa innevata. I media hanno da sempre cercato di catturare quei momenti di pura estasi terrificante, sensazioni ataviche che nei videogiochi affrontiamo a muso duro, forti della loro finzione. Saltando a piè pari tutto l'impenetrabile e sibillino terrore delle opere letterarie classiche, arriviamo subito ai giorni nostri. Nell'era del videogioco, l'horror ha avuto molti nomi, ma è solo quando ha cercato di celare e non mostrare, suggerire e non spiegare, che è riuscito a insinuarsi negli strati più reconditi della nostra psiche.

Non a caso, la serie videoludica di cui voglio parlarvi oggi si chiama, appunto, Psycho Break; anche se il mondo occidentale la conosce come The Evil Within. Diretto nientemeno che da Shinji Mikami, il primo capitolo di questa saga (formata da soli due episodi, ma con del potenziale ancora da esprimere), è stato accolto da pubblico e critica in maniera difforme: proprio come le creature che vagano indisturbate nelle piaghe purulenti del suo codice.

Come potremmo inquadrare The Evil Within, senza sporcarci le mani di pressappochismo? In molti l'hanno etichettato al tempo delle recensioni come "il vero Resident Evil 5", ma a conti fatti, la creatura di Mikami è assai più complessa. Immaginate un Silent Hill che provi a mescolare -a vostra insaputa - scienza e psicologia. Non sarebbe la prima volta, nell'universo horror dell'intrattenimento, ma questa saga lo fa con inaspettato rigore narrativo e stilistico, tradito solo in parte dal secondo episodio. A tal proposito, mettiamo subito le cose in chiaro: quando parlo di The Evil Within, mi riferisco sempre all'intero franchise. Nel caso dovessi descrivere un passaggio specifico, presente in uno dei due giochi, non mancherò di sottolinearlo.

Ciò detto, miscelando la paura ancestrale per la deformazione corporea, il tradimento, e - non ultimo - l'abbandono, Shinji Mikami fa sprofondare tutti i protagonisti della storia nello stesso purgatorio, traghettati da una "Alessa tecnologica" di nome STEM. Facendo un po' il verso alla Umbrella di Resident Evil, qui abbiamo la Mobius, un'organizzazione rigorosamente segreta e ovviamente intenta a dominare il mondo. Lo STEM è la sua arma, ma alla Mobius mancano "i proiettili"... Quale migliore occasione per procurarsi delle cavie fresche, pronte a collaudare la loro creazione? Ed ecco subito il primo inghippo, che dà corpo all'intreccio narrativo: il macchinario in questione è stato creato da un certo Ruvik (assonanza voluta col noto cubo?) depredato poi del suo brevetto e utilizzato come cervello principale dello STEM. Perché la funzione dell'inquietante macchina creata da Ruvik è proprio questa: predisporre un cervello-guida centrale e collegarvi una serie di persone tramite apposite vasche ricolme di un liquido (pseudo-amniotico, azzarderei) in modo da stabilire un contatto tra la mente e gli ospiti. In breve, una closed beta dello STEM, almeno parlando del primo capitolo. 

Fatti non foste, a viver come Drupi!

Certo, messa così, la trama potrebbe sembrare un po' puerile, ma se provate a scremarla di ogni connotazione ironica (propria del mio modo di scrivere) e la inserite in un contesto malatissimo, dove nulla è spiegato per bene, allora capirete quanto The Evil Within riesca a coinvolgere e intrigare. Un po' Matrix, un po' Inception, l'incedere del primo capitolo vi mette dapprima di fronte a una presunta follia del protagonista, Sebastian Castellanos, poi dissemina il percorso di indizi e, proseguendo, finisce per confutarne solo alcuni. E questo mai in maniera scorretta, mai presentando misteri fini a sé stessi, portati avanti con inutile solerzia per poi essere abbandonati come nel peggiore dei Lost col Parkinson. Non me ne voglia JJ.

Diamo una mano, affinché l'arte rifiorisca.

I meccanismi che rendono The Evil Within un prodotto di prim'ordine è il perfetto equilibrio interno tra soluzioni ludiche, intuizioni visive e guizzi narrativi. Il primo episodio pone maggiormente l'accento su un'atmosfera fosca e allucinata, inasprita da un livello di difficoltà a tratti impietoso. Questi elementi si sono un po' persi nel sequel, sia per la struttura più aperta, che per l'atmosfera meno opprimente. Con le vicende di Castellanos più concrete e comprensibili, l'impressione di un gioco meno ansiogeno ed esigente è piuttosto palese. Tuttavia, girare liberamente per lunghi tratti cittadini riporta alla mente uno dei sogni reconditi durante le partite coi primi Silent Hill: "Quanto sarebbe bello entrare in questo o quel negozio, arrampicarsi sul tetto o nascondersi in un appartamentino!".

La saga di The Evil Within, ora per alienazione e angoscia, ora per libertà di movimento e opportunità di pianificazione, tocca tutti i punti del buon survival horror, quello realizzato con passione, attenzione per i dettagli e atmosfera. I concetti di coscienza collettiva, fuga dalla realtà e sogno lucido senza fine non sono certo nuovi in ambito horror e sci-fi. La vera novità è intrecciarli perfettamente in un media complesso e stratificato come un videogioco, riuscendo, al di là di alcune cadute di stile e passaggi stucchevoli, a creare un esperienza solida, matura e terrificante.