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Il filo nascosto è davvero il capolavoro che dicono (nonché il miglior film mai girato sul disturbo ossessivo-compulsivo)

I primi minuti di visione de Il filo nascosto, il nuovo film scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, possono essere spiazzanti, se non addirittura fuorvianti. Oh, perlomeno, senza voler parlare per gli altri, mi hanno spiazzato e pure un po’ fuorviato.

Dal momento in cui mi sono intrufolato nella casa-atelier abitata dal rinomato stilista londinese Reynolds Woodcock (interpretato da un magnifico Daniel Day-Lewis) e della sorella Cyril (l’altrettanto brava Lesley Manville), ho avuto la netta sensazione di trovarmi nel bel mezzo di un balletto o di una messa in scena teatrale. Tutto, dalla fotografia gestita dallo stesso Anderson, passando per le scenografie decorate da Véronique Melery (Jackie, Maria Antonietta) e naturalmente per gli abiti, curati da Mark Bridges (collaboratore del regista fin dai tempi di Magnolia), mi è apparso tanto elegante quanto deliberatamente artificioso. Persino lo stile di recitazione non sembrava nascondere la sofisticazione e il controllo assoluto dei gesti; quasi a volere non dico svelare, ma addirittura ostentare la coreografia di ciascun movimento. In ragione di queste sensazioni, ho incominciato a leggere Il filo nascosto come l’ennesimo, elegantissimo rappresentante del filone meta-cinematografico di Anderson; lo stesso filone a cui appartengono Boogie Nights, The Master e, in misura minore, Magnolia. E sbagliavo.

Dietro quell’aria sospesa fra la tragedia classica, il dramma borghese e il film in costume (Il filo nascosto, ancora non l’ho detto, è ambientato nella Londra degli anni Cinquanta, durante il periodo di transizione tra la sobria eleganza inglese del dopoguerra e la Swinging London), ho creduto di riconoscere il classico film tutto preso a ragionare sulla sua stessa natura di fiction. Un film, insomma, di quelli che mescolano le tensioni creative dei proprio protagonisti con quella del regista, che a sua volta decide di mettersi a nudo per darsi in pasto al pubblico.

I segnali, in fondo, mi sembravano dappertutto: dalle sfilate ai set fotografici, per non dire dei pasti. O meglio, delle colazioni, a cominciare da quella in campagna durante la quale il predatorio Reynolds Woodcock circuisce la giovane cameriera Alma, apparentemente l’ultima di una lunga lista di “donne oggetto” conquistate per soddisfare la sete di controllo (in senso creativo, più che sessuale) dello stilista, «scapolo impenitente» per sua stessa ammissione.

In effetti, Alma, a prima vista, sembrerebbe proprio la preda perfetta per un tipo del genere. Interpreta dalla deliziosa Vicky Kriep, i cui tratti e modi ricordano un poco la Julianne Moore di Boogie Nights o la Amy Adams di The Master, si presenta sulla scena goffamente, inciampando; attirando subito l’attenzione dell’uomo che scambia le incertezze per debolezze.

Il primo approccio di Reynolds nei confronti di Alma ha il sapore di una vera e propria battuta di caccia.

Tutta la sequenza della colazione in albergo è straordinaria per messa in scena, coreografia e dettagli: c’è qualcosa di ipnotico, nel modo in cui Woodcock seduce la ragazza. Qualcosa che rimanda al Lancaster Dodd di Philip Seymour Hoffman, ma che per certi altri versi lo ribalta. Certo, sia l’organizzazione para-religiosa dello pseudo-guru di The Master che la rinomata “Casa di Woodcock” (come pure, senz’altro in maniera più morbida e affettuosa, il set di Jack Horner/Burt Reynolds in Boogie Nights) sono strutture piramidali cucite addosso a un unico “padre padrone”.

Tuttavia, laddove in The Master le scenografie posticce e cascanti degli ambienti dedicati al culto facevano pendant con la superficialità e la falsità del “gran maestro”, qui l’apparenza è a tutti gli effetti sostanza. Pur lavorando nell’ambiente della moda - considerato frivolo dai più - Woodcock vive il proprio lavoro di stilista con una serietà e un’abnegazione maniacali, e gli ambienti che lo circondano sono lo specchio di questo rigore. Tuttavia, lo stilista è ossessionato dal controllo tanto quanto i personaggi di Lancaster Dodd e Jack Horner. E l’ossessione, come spesso succede, si trasforma in vanità: nel momento in cui identifica in Alma l’ennesima preda da manipolare e piegare ai propri fini, Woodcock pecca di sicumera e non si accorge che quello che ha davanti è un agente del caos capace di mettere, se non in discussione, perlomeno in disordine la sua zona di conforto.

E mentre lo stilista si esibisce tutto compiaciuto nelle sue mosse di seduzione, allo spettatore è concesso intravedere la vera natura della giovane tra i dettagli, in una serie di piccoli gesti che si ripresenteranno ciclicamente nel corso del film.

Ne Il filo fantasma la caratterizzazione dei personaggi passa (anche) attraverso una serie di piccoli gesti ricorrenti.

L’ingresso di Alma nella vita di Woodcock insinuerà nella routine dello stilista una serie di elementi di disturbo, di dissenso, che si manifesteranno un poco alla volta, finendo col far uscire allo scoperto la sua vera natura. Dietro la maschera di sicurezza e la vanità si nasconde un uomo debole, capriccioso e perseguitato da un disturbo d’ansia.

E assieme alla maschera, ho visto andarsene a quel paese la mia chiave di lettura meta-referenziale a favore di un’altra decisamente più umana, calda, di natura profondamente psicologica. Il filo nascosto è una dettagliatissima analisi del disturbo ossessivo-compulsivo che domina il protagonista e delle conseguenze che un disturbo del genere infligge sulla vita delle persone che stanno attorno al malato.

Messa in quest’ottica, la recitazione di Daniel Day-Lewis non serve a sottolineare una qualche natura artificiosa e metaforica del racconto. Semmai, più semplicemente, a mascherare le debolezze del personaggio. In effetti, quello che “recitava” nelle prime scene non era Day-Lewis ma lo stesso Woodcock, in preda alla ripetitiva cantilena della sua quotidianità, costruita su rassicuranti formalità.

Certo, rimane in piedi la sovrapposizione meta-cinematografica tra regista e stilista, ma è tutto sommato incidentale e si consuma perlopiù sul piano formale, attraverso la pulizia e la precisione di messa in scena, luci e direzione degli attori. Emotivamente, invece, Anderson prende le giuste distanze dal suo personaggio; non si specchia nel film ma decide semplicemente di raccontare una storia senza volerci parlare per forza dei fatti suoi.

Tornando alla recitazione, l’abnegazione di Daniel Day-Lewis verso il suo personaggio è totale. Attraverso una prova d’attore (l’ultima della sua carriera, pare) che mi ha ricordato certe performance di Marlon Brando, Day-Lewis mette in scena un ossessivo-compulsivo da manuale che organizza minuziosamente il flusso delle proprie giornate cercando di dominare persino i più minimi intralci.

Reynolds Woodcock è tragicamente commovente, per il modo in cui cerca con tutte le forze di gestire tutto ciò che per natura non può essere gestito. È un uomo superstizioso, pieno di gesti scaramantici, manie, rituali feticci e tic. È un uomo che coltiva un rapporto complesso nei confronti del cibo; che odia le feste e tutte le situazioni che in qualche modo scandiscono il tempo, proprio perché il tempo - l'unico bene che non può accumulare - è la sua principale ossessione.

Eppure lui ci prova, a fermare il tempo, girando in tondo; appoggiandosi a dei rituali che lo illudono di vivere in una bolla di staticità. Il dinamismo, i cambiamenti lo spaventano perché il suo disturbo gli impedisce di percepirne i benefici, lasciandogli solo le criticità: la deperibilità delle cose e l’inevitabilità della morte. La morte della madre, della sorella, delle persone che gli stanno intorno. Ma soprattutto la sua.

Tutto ciò che può fare è “lucidare le maniglie del Titanic” attraverso un controllo ossessivo, che probabilmente è anche alla base del suo talento come stilista. Woodcock recita per proteggersi, usa la logica e la dialettica come armi di difesa e quando queste vengono meno, si rivela per quello che è: un bambino isterico e capriccioso. Il controllo, del resto, è anche il suo unico modo di legarsi alle persone: prima dell’entrata in scena di Alma, l’unica persona con cui l’uomo sembra aver sviluppato un autentico legame è la sorella Cyril, la sua “spina nel fianco”, come la definisce con tenerezza. Cyril è probabilmente il personaggio più tragico del racconto. Una donna che ha rinunciato a farsi una famiglia propria per stare accanto al fratello, gestendolo e curandolo come meglio ha potuto attraverso l’unica strategia che è riuscita a sviluppare negli anni: la condiscendenza.

Nonostante l'ostentata freddezza, Cyril Woodcock (Lesley Manville, candidata all'Oscar come migliore attrice non protagonista) è probabilmente il personaggio più tragico del film.

Poi arriva Alma, che dietro l’apparente debolezza nasconde una natura risoluta. La giovane donna entra in opposizione con Woodcock sfidando il suo disturbo, provando a coinvolgerlo in una dimensione affettiva slegata dal possesso. In qualche modo, lei spera di guarirlo, di “piegare l’acciaio” adattandosi volta per volta agli ostacoli che le si parano davanti, giocando sporco nel tentativo di creare artificialmente un bisogno e addirittura cedendo a un amore parafiliaco. La distorta ricerca di equilibrio della coppia (non di felicità: quella è evidentemente impossibile) è anche e soprattutto una riflessione sui rapporto amorosi intesi come scambi di potere.

A tutto questo teatro drammatico, Anderson partecipa con sincera compassione attraverso una messa in scena elegantissima e impeccabile, ma allo stesso tempo fosca e soffocante. L’impianto scenico è come una macchina della nebbia costantemente accesa per non distrarre mai lo spettatore dal disturbo che affligge Woodcock; persino le scene girate all’aperto o i rari momenti di felicità della coppia sembrano chiudersi su se stessi.

Anche durante i rari momenti di serenità, la composizione scenica e la luce alludono al malessere dei personaggi.

In questo senso, Il filo nascosto è la miglior rappresentazione cinematografica del disturbo ossessivo-compulsivo. Funziona meglio di The Aviator che, focalizzandosi su Howard Hughes, non approfondiva a sufficienza il contesto; e funziona meglio pure di Qualcosa è cambiato, laddove il Melvin Udall di Jack Nicholson risultava, per quanto efficace, un po’ troppo sornione.

Di mio, nonostante abbia sempre apprezzato il cinema di Paul Thomas Anderson, ho sempre intravisto nei suoi film qualche piccolo squilibrio, soprattutto mano a mano che crescevano per intenti e architetture. Ecco, riguardo a Il filo nascosto, invece, non ho davvero nulla, ma nulla da ridire: a parer mio, Anderson ha raggiunto il culmine della sua ricerca stilistica, realizzando un film impeccabile sotto tutti i punti di vista.

Ho guardato Il filo nascosto in lingua italiana grazie a un’anteprima stampa a cui siamo stati invitati, e mi è piaciuto da matti. Nel complesso, il doppiaggio mi è parso ben fatto, superiore alla media, nonostante le mie preferenze vadano sempre alle versioni originali (e va detto che in questo caso col doppiaggio si perde il gioco di accenti sui due protagonisti, cui accennano anche i personaggi in qualche dialogo). Tra l’altro, la pellicola è in lizza ai prossimi Oscar con ben sei candidature: miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice non protagonista, migliori costumi e migliore colonna sonora. Fosse per me, statuetta obbligatoria PERLOMENO alla strepitosa Lesley Manville (e al suo accento).