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Caro Kojima-san, col tuo tocco micidiale mi hai reso sfortunato in amore, ma fortunato al gioco

Carissimo Kojima-san,

Ti giro questa letterina perché giopep, il capo del sito su cui scrivo cose che altrove non verrebbero mai pubblicate per decenza (a proposito, non so se lo conosci, il sito: si chiama Outcast; ti appiccico anche il link: http://www.outcast.it/) ha dedicato la Cover Story di questo mese proprio a te e ai tuoi giochini, e mi ha proposto di buttare giù qualcosa di carino perché, per dirla con parole sue:

E allora, che amore sia. Anche perché amore lo è davvero: sono un tuo ammiratore da tanto, tantissimo tempo. Perlomeno da tutto il tempo che mi è stato tecnicamente possibile, visto che essendo nato e cresciuto in un’Italia dominata dal Commodore 64 e dall’Amiga, ho lisciato i tuoi primi titoli per MSX, NEC PC-9801 e per tutte quelle altre piattaforme che se le compravi qui, dalle mie parti, passavi per lo sfigato della classe e poi fischia che ti invitavano alla festa delle medie.

La prima volta che ti ho incrociato correva l’estate del 1998: durante l’ennesimo ascolto di Moon Safari - che all’epoca faceva très chic - sfogliavo l'ultimo numero di Super Console – che, invece, faceva molto freak - dove tu, in una foto scattata chissà quando e da chissà chi, posavi tutto impegnato a “prototipare il level design del tuo prossimo gioco(come scriveva il redattore saputello), mentre a me sembrava semplicemente che stessi giocando con dei mattoncini LEGO.

E pure male, tra l’altro, visto che eri immerso in dei muri dai colori tutti incasinati. Una roba che giuro, davvero, qui da noi nemmeno all’asilo. Poi, per carità, so bene che il Giappone e l’Italia sono paesi diversi con culture differenti. Però ero sicuro che dalle vostre parti aveste proprio la fissa per gli equilibri cromatici, ecco. Ma in fondo io che ne so: ho sempre viaggiato poco e malvolentieri. Sono solo un gaijin di provincia che non è mai nemmeno stato in Giappone.

«La coerenza cromatica la lascio a voialtri, stupidi gaijin!»

Comunque, qualche mese più tardi, durante le festività natalizie, mi ero praticamente trasferito a casa di un’amica: i genitori della poveretta erano spariti in vacanza da qualche parte; conseguentemente, io e il mio gruppo di debosciati avevamo pensato bene di occupare la loro bellissima casa sul lago (saluti a Guadagnino). Era, quella di infilarci nelle case libere ogni volta che si poteva, una pratica che avevamo inaugurato durante gli ultimi anni delle superiori e perfezionato all’inizio dell'università, quando quasi tutti noialtri abitavamo ancora con i genitori. Quelli erano proprio altri tempi, sai, caro Kojima, soprattutto per me: se domani un gruppo di fancazzisti decidesse di occupare casa mia un minuto in più del tempo necessario a consumare una maratona de Il Signore degli Anelli (naturalmente versione estesa), beh, credo che metterei mano al fucile (si fa per dire, ché non ho veramente un fucile in casa, Kojima-san; ma scommetto che tu sì).

Comunque, casa bellissima sul lago, dicevamo. Ora: immagina un gruppo di ragazze e ragazzi tra i diciassette e i vent’anni, liberi di bere, fumare, bivaccare e limonare, ciascuno con qualche amore confessato o da confessare. Il mio, ad esempio, se ne stava ancora lì languido, intatto e tutto da dichiarare (e, magari, da consumare). Tuttavia, col fatto della segretezza, ero rimasto incastrato per mesi in quella che i giovani d’oggi chiamano friendzone, ma che ai tempi miei chiamavamo semplicemente “la sfiga”. Anche durante quei giorni natalizi, paralizzato dalla timidezza, anziché bivaccare, limonare eccetera come tutti gli altri, passavo il tempo davanti alla PlayStation abbandonata e modificata del fratellino della padrona di casa, affiancata a sua volta da una scatola piena zeppa di giochini piratati e giornaletti porno. E proprio tra quei giochini, etichettato con un pennarello indelebile rosso a punta grossa, c’era il primo Metal Gear Solid in tutta la gloriosa giapponesità.

Devo ammettere che l’atmosfera del gioco mi era sembrata fin da subito davvero pazzesca, con quell’introduzione cinematografica e tutto il resto. Tuttavia, all’epoca ero già stato viziato dai poligoni senz’altro più arrotondati del Nintendo 64, senza contare che una parte di me ancora rimpiangeva la grafica del vecchio Super Nintendo, comprese certe divagazioni del Mode 7. Insomma, per tagliare corto: grande atmosfera, grandi colori, motion blur a manetta, ma che ti devo dire, a livello di giocabilità (il gameplay all’epoca non esisteva, perlomeno in Italia), di ‘sto Metal Gear Solid non ci avevo capito una fava. OK, il fatto che fosse tutto in giapponese non aiutava granché a mettere a fuoco i dettagli, ma l’inizio del gioco lo ricordo come uno tra i più frustranti della mia carriera: cammina, corri, prendi, fai, disfa, riparati, checcazzoèquesto? Checcazzoèquello? ABBASSATI! Zack!

- È scattato l’allarme -

E allora nasconditi, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta. Che due palle. Ah, OK, è finita, ora posso uscir… NO! Cristo! Sgamato di nuovo.

Insomma. Un casino, senza contare che in certi frangenti, col fatto che bisognava strisciare, zoomare e infrarossare, la grafica si faceva illeggibile e mi lasciava tutto solo in balia del radar. Colpa mia, per carità. All’epoca non potevo capire, come ho già scritto altrove, che una barriera d’ingresso così severa era figlia della tua rischiosa scommessa. Dopo un lungo periodo di indigestioni da platform e picchiaduro, tu, con Metal Gear Solid, stavi facendo da apripista a qualcosa di assolutamente inedito, di originale. Tu, che nonostante le fisse per il cinema e la regia, già allora finivi per mettere le meccaniche davanti a qualsiasi altra cosa, per certi versi rimettendoci. Elementi di linguaggio che oggi diamo per scontati, all’epoca erano assolutamente dirompenti: persino una cosa “semplice semplice” come affacciarsi e sbirciare il nemico senza farsi beccare.

Comunque, caro Kojima, quella volta - un po’ per i vincoli della lingua giapponese, un po’ per la lingua italiana, la mia, che voleva provare a limonare - mi limitai giusto ad approcciare il tuo gioco per passare, infine, ad approcciare la ragazza che mi piaceva.

Avevo ancora il joypad in mano, quando presi la decisione, tutto risoluto, di alzarmi, andare in cucina dalla tipa e – DIO, COME MI VERGONO ANCHE SOLO A SCRIVERLO DOPO TANTI ANNI – dichiararmi.

«Te amo!»

Mi andò male, ma da quel due di picche ho appreso un paio di lezioni fondamentali.

Lezione numero uno: mai mettere le carte sul piatto, a crudo, nemmeno quando credi di andare sul sicuro o di essere con le spalle al muro. È un errore da dilettanti.

Lezione numero due: prima di lanciarsi in dichiarazioni appassionate, assicurarsi sempre di aver chiuso la porta. Per dire: quella sera il silenzio imbarazzante calato subito dopo il “non posso” di lei venne interrotto da un amico scemo con in mano un vassoio di tartine (leggasi: dei cracker con sopra un baffo di ketchup e maionese) e in bocca la frase “Volete favorire?”.

«Stuzzichino?»

Comunque, ripeto, andò male. Il mio cuore spezzato finì col rimarginarsi attorno alle vacanze di Pasqua dell’anno successivo (spoiler: si sarebbe rotto di nuovo, sei mesi dopo, sempre a causa della stessa tipa). A distrarmi era stata la chiamata alle armi. O, meglio, a quel servizio civile che ricordo come una tra le fasi più divertenti e spensierate della mia vita di giovine. In fondo, cosa c’è di più deresponsabilizzante di una pausa obbligatoria dalla vita vera? Magari finisce pure che ti sbatti, che ti alzi presto e tutto, ma alla fine sei in qualche modo giustificato dall’avanzare. Fai quello che ti dicono e bon; così, semplicemente e senza grilli per la testa.

Mi trovai bene anche con i miei colleghi obiettori. In particolare con uno - oggi non ricordo nemmeno più il nome: facciamo Davide – che, oltre a farmi scoprire un sacco di manga fighi come Berserk, mi obbligò a rivedere le mie opinioni su Metal Gear Solid. Fu lui a fornirmi la versione italiana uscita nel frattempo, e a farmi da sensei - come dite voialtri in Giappone - per tutta la parte iniziale, quella più dura da scollinare. Dopodiché, è stato più o meno come imparare a sciare: non te lo dimentichi più.

Una volta entrato nel mood dei tuoi giochini stealth, al primo Metal Gear Solid sono seguiti Metal Gear Solid 3: Snake Eater, Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, (sì, in quest’ordine) e Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots. Sono passato pure per i sequel del prequel su PSP, fino a mettere le mani su - wait for it - Metal Gear Solid V: The Phantom Pain con annessa relativa demo a pagamento, anche se non sono mai entrato in sintonia con alcune delle dinamiche gestionali e strategiche di questi ultimi giochi. Preferisco nettamente la faccenda dell’eroe solitario buttato nella mischia più o meno disarmato, e bon.

«Levame tutti i capelli del cinese.»

Sempre grazie ai tuoi giochi, caro Kojima, sono partite le mie prime pippe selvagge sul game design. Le mie prime domande sul “come”, sul “cosa” e sul “perché”. Banalmente, è partita da te anche la lettura del sempre ottimo Metal Gear Solid. L'evoluzione del Serpente, che mi ha aperto le porte dell’analisi sul linguaggio videludico.

Prima dei vari Metal Gear Solid, ero “solo” un giocatore, ma dopo essere passato per la saga, ho iniziato (o perlomeno ho provato) a ragionare sulle esigenze del game design e sul level design, che forse è la cosa che più mi affascina dei videogiochi, nonostante sia sempre stato afflitto da uno scarsissimo senso dell’orientamento. Negli anni ho riflettuto - quasi sempre a perdita di tempo - sulle intelligenze artificiali, sugli schemi di movimento e sui riferimenti metaludici, metacinematografici o qualunque altra cosa si possa agganciare al prefisso “meta”. Soprattutto, ho afferrato che la maggior parte delle volte, dai vincoli possono nascere le cose migliori.

Quindi: grazie Kojima-san. È vero, in amore mi hai portato sfiga, ma perlomeno, nel corso degli anni, mi hai fornito dei videogame e degli spunti pazzeschi. Tanti auguri per Death Stranding e per tutti i prossimi giochi che vorrai (o che non vorrai) sviluppare, da parte di questo “Ragazzo un po' stagionato, ma con il cuore sempre giovane”.

AP

P.S.

Per evitare fraintendimenti, ho deciso favorirti la presente anche in lingua giapponese. Ho usato il traduttore di Google, quindi non prevedo grossi problemi di comunicazione.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che trovate riepilogata a questo indirizzo.