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Post Mortem #28: Il fascino primordiale di Adventure

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Nel 1978, Warren Robinet lavorava in Atari, aveva ventisei anni e, mentre già fantasticava alla ricerca di un’idea per il progetto successivo, era impegnato a completare lo sviluppo del suo primo lavoro, Slot Racers, un gioco multiplayer di guida e combattimento costruito attorno ai limiti allucinanti dell’Atari 2600: con due auto e due spari in ballo, quattro dei cinque sprite permessi dalla console erano occupati! Ma del resto, all’epoca, la vera sfida era cercare di capire come fosse possibile stipare il gioco che avevi in mente nel poco spazio a disposizione (4096 byte di ROM, 12 byte di RAM, processore a 8 bit, 1,2 MHz di clock, grafica 2D… ). E, tipicamente, facevi tutto da solo: idea, programmazione, grafica, effetti sonori, testing… tutto!

Quindi, insomma, da dove venne l’idea per l’opera seconda, che avrebbe potuto vantare il primato di essere il primo action adventure della storia? Robinet giocò a Colossal Cave Adventure, avventura testuale seminale a cui dobbiamo anche Zork, e decise che avrebbe sfruttato lo stesso concept di base (stanze da esplorare, tesori, mostri… ) ma lo avrebbe applicato a un gioco per Atari 2600. Certo, era difficile da immaginare. Come prendi un gioco per mainframe (computer enormi che occupano stanze intere) completamente impostato su descrizioni testuali, senza alcun genere di rappresentazione visiva, e lo trasporti su una piccola console casalinga, priva di tastiera, trasformandolo in un semplice gioco d’azione dotato di grafica? Come fai a stipare un gioco che “occupa” centinaia di K di memoria nei soli quattro offerti dall’Atari 2600?

Non lo fai. Il capo di Robinett fu chiaro: non puoi, è impossibile, non mettertici nemmeno. Ovviamente, l’ordine cadde nel vuoto (“Quante volte vi è capitato di ubbidire a un ordine del genere dal vostro capo?”) e Robinett si mise al lavoro in segreto, convinto di potercela fare. Mise assieme un prototipo nel giro di un mese, una cosa semplicissima con sei stanze, un oggetto e un drago che non poteva nemmeno ucciderti, in modo da avere qualcosa da mostrare in giro. Poi, però, giunse il momento di provare a tirarne fuori un gioco divertente. Su Atari 2600. Con due sprite ad alta risoluzione e tre in bassa. Come fai a riprodurre un'avventura testuale e un mondo di gioco con quei limiti? Eh.

Le scelte di Robinett, che, parole sue, ebbe la fortuna di aver imparato a programmare in C prima di essere assunto in Atari e focalizzò tutti i suoi sforzi di programmazione sul risparmio di memoria, furono in larga misura dettate dai limiti tecnici. D'altro canto, come spesso accadeva all'epoca, fu proprio l'unione di buone idee e limitazioni a dare vita alle decisioni migliori. Per esempio, Robinett scelse di usare un pixellone per rappresentare il protagonista perché potendo usare, come detto sopra, solo due sprite in alta risoluzione, preferiva dedicarli ad altri oggetti. In generale, decise che il modo più efficace per costruire il mondo avventuroso era con una visuale dall'alto, utilizzando pareti per costruire ambienti labirintici, e girò attorno alla questione dell'inventario (non voleva mettere il gioco in pausa per accedervi) facendone a meno: azione in tempo reale, niente pausa, niente inventario, si porta in giro un oggetto alla volta e si usa il singolo tasto per raccogliere e lasciare. E, di nuovo, la presenza di un solo tasto era un limite che in un certo senso costrinse a questo genere di scelta, ma allo stesso temo finì per generare elementi di gioco azzeccati, perché la possibilità di portarsi dietro un singolo oggetto dava vita a scelte tattiche interessanti.

Dopo un anno di lavoro, a circa due terzi dello sviluppo, Robinett faticava a rendere il gioco interessante, perché non aveva ancora sviluppato il sistema di desideri e paure dei mostri: si limitavano a inseguirti in giro. Il problema venne risolto con un sistema di comportamento delle creature basato su uno schema di risposte e regole che occupava pochi K di memoria: i diversi draghi avevano un elenco di priorità che li portava a inseguire determinati elementi di gioco o fuggire da altri, secondo un preciso ordine di importanza; il pipistrello, inserito per rendere le cose meno prevedibili, non aveva paura di nulla, ignorava il protagonista e spostava gli oggetti dietro le quinte; la calamita attirava gli oggetti o, meglio, gli oggetti inseguivano la calamita. In avvio di partita, alcuni elementi venivano posizionati in giro in maniera casuale ma poi tutto si muoveva seguendo regole precise, senza alcun tipo di casualità. Ne venne fuori un sistema di gioco che Robinett definisce come una mano iniziale di bridge, a cui giocavano i suoi genitori.

Alla fine, Robinett riuscì a infilare in quella poca memoria un vero e proprio mondo esplorabile, composto da ben trenta stanze e popolato da un ecosistema di creature caratterizzate da comportamenti specifici, con un margine di casualità ma anche schemi interpretabili e prevedibili. Mica male!

Per lavorare su Adventure, Robinett dovette anche destreggiarsi fra le complessità della politica aziendale. Come detto inizialmente, il suo capo non voleva che si mettesse a lavorare sul progetto, ma lui sviluppò comunque un prototipo. Poi entrò in gioco il reparto marketing, che aveva bisogno di un progetto per sfruttare la licenza sul film di Superman diretto da Richard Donner e provò a convincere Robinett a trasformare il suo progetto in un adattamento ufficiale. Fra l'altro, il capo di cui sopra non prese benissimo l'indipendenza decisionale di Robinett, si arrabbiò per la sua decisione di sviluppare un prototipo contro il proprio volere e gli ordinò di soddisfare la richiesta del reparto marketing. Ovviamente, se costretto, Robinett l'avrebbe fatto, ma preferiva evitare e per fortuna giunse in suo soccorso John Dunn, che si offrì di utilizzare il codice di Robinett per sviluppare un gioco su Superman. Quindi, ancora una volta, gli ordini non vennero ascoltati.

Ma l'apice, in questo senso, doveva ancora arrivare. Adventure fu infatti anche il primo gioco a nascondere un easter egg al suoi interno. All'epoca, i publisher non volevano riconoscere la “firma” dei propri sviluppatori, cosa che fra l'altro fu tra i motivi per cui diversi pezzi da novanta se ne andarono da Atari e, per esempio, fondarono Activision. Robinett ci teneva a infilare il suo nome da qualche parte e, senza dirlo a nessuno, ma veramente a nessuno, creò una stanza segreta in cui nascose il proprio nome. E il gioco andò in produzione senza che nessuno se ne accorgesse! Col senno di poi, non fu certo un errore: Slot Racers era stato pubblicizzato come gioco di Atari e basta, ma Adventure aveva una firma e il lavoro di Robinett, volente o nolente, era stato riconosciuto. Chissà come sarebbe stata diversa, la sua carriera, senza quel gesto di ribellione?

Adventure, primo action adventure della storia, fu una pietra miliare capace di creare un genere e definirne le caratteristiche, venendo poi imitato a destra e a manca (il primo The Legend of Zelda, diciamocelo, gli deve molto) e diventando negli anni sempre più un oggetto di culto, omaggiato fra l'altro in Ready Player One con un ruolo fondamentale nel racconto. Il gioco vendette un milione di copie a venticinque dollari l'una, ma intanto Robinett riceveva uno stipendio fisso da ventiduemila dollari l'anno, senza royalty. Non è certamente rancoroso sulla faccenda, ci tiene a precisarlo sul finire del suo racconto alla GDC 2015, anche perché grazie al lavoro in Atari diede inizio alla propria carriera e fondò poi la sua azienda personale, The Learning Company (Rocky's Boots il loro gioco forse più famoso). Però è certamente ben contento di aver sfidato il volere della dirigenza e aver inserito quella stanza segreta.

A proposito: quando venne scoperta? Qualche tempo dopo l'uscita del gioco, un ragazzino inviò una lettera ad Atari con la mappa intera, disegnata da lui, includendo tutte le stanze. Compresa quella segreta. Di cui nessuno, in Atari, era a conoscenza. E così Robinett venne scoperto, ma a quel punto non potevano certo punirlo: se n'era già andato, quindi non potevano licenziarlo, e non potevano togliergli le royalty, dato che, appunto, non gli venivano pagate. Insomma, a posto così.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.