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Tomb Raider: poteva andare ben peggio

Non sono mai stato particolarmente in fissa per i film tratti dai videogiochi. Per gli anime, forse, o per i manga. Ma per i film no. Oddio, non che esista un genere preciso “film tratti dai videogiochi”, checché ne dicano i cataloghi di certi servizi on demand. Però ci sono senz’altro dei cliché ricorrenti, in questo genere di opere, quello sì.

A oggi, tolte quelle robe brutte degli anni Novanta come Super Mario Bros. o Street Fighter - Sfida finale, ho giusto qualche vago, insipido ricordo del primo Silent Hill, così come pure del Final Fantasy in computer grafica di inizio Duemila. Con Prince of Persia - Le sabbie del tempo di Mike Newell mi sono trovato un po’ meglio, ma probabilmente per merito di Gemma Arterton. Ecco, di recente ammetto di essermi abbastanza divertito con Warcraft: L'inizio, massacrato dalla critica, mentre continuo a rimandare insensatamente la visione di Ace Attorney di Takashi Miike, che mi dicono essere interessante (lo è, ndgiopep).

Per il resto, credo di non aver mai visto un Resident Evil tutto intero, nonostante la presenza dietro la macchina da presa del migliore degli Anderson, con tutto il bene che gli vuole (o che gli ha voluto) giopep, né tantomeno i Tomb Raider con Angelina Jolie. Anche perché - beccatevi questa - di tutti i capitoli della celeberrima serie, ho giocato con un minimo di decenza giusto al riavvio del 2013 targato Crystal Dynamics, piluccando appena quelli precedenti.

Addirittura, ricordo che davanti alla versione PlayStation del primissimo Tomb Raider rimasi quasi scandalizzato dalla grafica tutta blocchettosa e dalla villa mezza vuota di Lara, cosa che mi aveva impedito di apprezzare tutto il sistema di gioco a “caselle”. In più, ero insensibile alle forme della protagonista: vuoi perché ero già stato viziato da quelle più arrotondate di Super Mario 64, vuoi perché preferivo (e preferisco) le ragazzette con gli occhiali in stile manga, alle tizie procaci dalle labbra carnose.

Tra l’altro, mi viene ancora un brivido se ripenso al mio spacciatore di giochini della notte dei tempi, che per invogliarmi all’acquisto di Tomb Raider mi aveva masticato davanti, lentamente e con lussuria, le parole: «To-mb Rai-der, La-ra Cro-ft», ottenendo precisamente questo effetto:

Insomma, gira e rigira, mi sono sempre interessato poco alla serie, come mi sono interessato poco e a pregiudizio, chessò, ai vari Assassin’s Creed. Che poi magari sono tutti giochi bellissimi e mi sto perdendo qualcosa, eh. Però così è la vita.

Resta che per via del mio disimpegno sono andato a guardare l’ultimo Tomb Raider con un discreto menefreghismo, e a posteriori non me ne pento, sia nel bene che nel male.

Diretto dal regista norvegese Roar Uthaug, di cui non ho mai visto un lungometraggio ma solo, incredibilmente, il corto A Fistful of Kebab, passato al Festival di Locarno nel 1998 (lo scopro ora da IMDB, non per altro), e con la bellissima e bravissima Alicia Vikander (The Danish Girl, ma soprattutto, fortissimamente, Ex Machina) nel ruolo della protagonista, il film, evidentemente ispirato al videogioco del 2013, è una sorta di prequel/reboot della serie.

Come è facile evincere dall’aspetto della Vikander, oltre che dai trailer e dai vari materiali di marketing che difficilmente saranno sfuggiti ai lettori che ruotano attorno ai siti di videogiochi (sì, persino attorno ad Outcast), non siamo di fronte alla Lara Croft “storica”, con le zinne enormi e misurabili col goniometro, ma alla sua versione ringiovanita e un po’ meno formosa introdotta negli ultimi anni.

Ovviamente, anche a livello di storia, le lancette sono state lanciate all’indietro: la giovane Lara non è (ancora) una ricca ereditiera che passa il suo tempo a caccia di tesori, ma una ragazza dal passato pesante che cerca di sbarcare il lunario e arrangiarsi per conto suo tra i sobborghi di Londra, tra un lavoretto come pony express e qualche bisboccia con gli amici.

Purtroppo, o per fortuna, come nelle migliori storie dedicate alla genesi di eroi e supereroi – perché questo è, Tomb Raider – Lara verrà risucchiata dal suo passato alla Bruce Wayne e si metterà sulle tracce del padre, dato per morto mentre vagava lungo le coste del Giappone, nel "Mare del Diavolo", alla ricerca del leggendario sepolcro della regina Himiko. Trattasi - leggo da Wikipedia - di una figura storica realmente esistita a capo dell’antichissimo Regno Yamatai, e attorno alla quale sono sorte nel corso degli secoli diverse leggende o superstizioni legate alle presunte attività di stregoneria e necromanzia praticate dalla donna (inutile dire che, nell’ottica del film, queste leggende vengono prese per oro colato).

Ora, al netto della mia premessa inesperienza con la saga, ne ho comunque assorbito per osmosi un minimo di mitologia, che mi insaporito tutta la parte iniziale dell’avventura, che prende - letteralmente - il via dalla tomba di famiglia dei Croft. Da lì in avanti, è tutto un tirare dritto attraverso un percorso a tappe forse un po’ troppo scontato, ma tutto sommato agitato da un buon ritmo generale.

Si vede che dietro alle sequenze d’azione o a quelle più thrilling c’è del mestiere, ma nel complesso manca un po’ di cazzimma. Inoltre, a volte le allusioni al linguaggio e all’estetica dei videogiochi (i “cliché ricorrenti” cui accennavo prima) danno un po’ troppo nell’occhio. Purtroppo, in questo momento, non mi riesce di metterla giù meglio di così, ma ho avuto la sensazione che certe trovate action o stealth siano state messe lì apposta, oltre che per fare l'occhiolino, per... come dire? Far scattare dei trigger. Senza contare la palette cromatica, che mi ha ricordato molto quella di un paio di Uncharted.

Però, c’è la Vikander.

Perfetta, carismatica e assolutamente calata nei panni della giovane Lara, l’attrice svedese si dimostra molto versatile, trovandosi a suo agio in una storia à la Indiana Jones che pizzica un po’ di questo da I predatori dell’arca perduta e un bel po' di quello da L’ultima crociata, per via della faccenda del padre disperso, di un certo taccuino con gli appunti e delle prove da superare in stile “percorso verso il Graal” (anche se queste ultime, lo ammetto, si appoggiano a dinamiche narrative un po’ più generiche). In tutto questo, non che il citazionismo sia un problema, eh: in fondo, stiamo parlando evidentemente di un blockbuster, tratto dal reboot di un videogioco ispirato a una serie di film - Indiana Jones - e che ha ispirato a sua volta altri videogiochi tripla A– i vari Uncharted – che hanno a loro volta contribuito al rilancio della serie originale. Insomma, fare le pulci su ‘sta cosa ha poco senso. Il problema del film non è certo quanto sia o meno derivativo, ma piuttosto che, a prescindere dalle fonti, non riesce a trovare una sua identità precisa.

A parte la Vikander.

Piano piano, Alicia diventerà Lara. Abbandonerà lo street style londinese per vestire tutti gli attributi tipici dell’iconografia del personaggio. All’inizio compariranno i graffi, le ammaccature e le fasciature, poi arriveranno l’arco e le frecce, proprio come nel reboot del 2013, e alla fine del film si riuscirà a intravedere “il costume completo”.

Ta-dah!

Meno convincente è più o meno tutto il resto del cast che ruota attorno alla protagonista. Il cattivone principale, Padre Mathias Vogel, pur essendo interpretato da Walton Goggins (Django Unchained, Lincoln, The Hateful Eight, oltre alla serie Justified), soffre di una scrittura piatta e banale, che lo fa sembrare una brutta copia di René Belloq.

Di contro, Lord Croft, il padre di Lara, è addirittura un insulto al talento di Dominic West (ma probabilmente non al suo portafogli). L’unico che ci crede e cerca di tenere testa alla protagonista, con la quale condivide in parte anche lo scopo della missione, è il giovane marinaio Lu Ren (Daniel Wu), a cui tuttavia, secondo me, non è stato lasciato tutto lo spazio che avrebbe meritato.

Scopro ora che Daniel Wu ha recitato anche in Warcraft: L'inizio, nei panni di Gul'dan. Evidentemente sa scegliersi bene i film di videogiochi.

Anche tutti i flashback con Lara ragazzina sono piuttosto ridondanti e didascalici, non aggiungono nulla e semmai spezzano il ritmo del film. Il loro compito dovrebbe essere quello di giustificare certe abilità della protagonista (tipo: Lara se la cava col tiro con l’arco perché lo pratica a livello sportivo fin dall’adolescenza, e cose così), ma non se ne sente davvero il bisogno, e alla fine risuonano un po’ dell’effetto tutorial.

Ad ogni modo, tra qualche strike e qualche palla persa, questo nuovo Tomb Raider non è poi così malaccio. Certo, al di là della protagonista, non ha molta personalità, e nel suo voler raccontare le origini di Lara, soffre un po’ troppo l’ansia da prequel, ma di sicuro non viene mai a noia. Insomma, se siete fan della saga, sostituite pure il “Vai a sapere” qua sotto con un “Vai al cinema”.

Ho visto Tomb Raider grazie alle ormai consuete anteprime a cui veniamo invitati da un po’ di tempo a questa parte. Come ho detto, il film è piacevole. Niente di speciale, ma piacevole. Ah, a differenza di Red Sparrow, questa volta la proiezione era in lingua italiana, quindi niente accentone aristocratico inglese.