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The John Hughes Blues

Nel film Bella in rosa, del 1986, c’è una conversazione che riassume più o meno tutto il senso della poetica di John Hughes. La “liceale sfigata” Andie (interpretata da una Molly Ringwald d’ordinanza), in pieno turbamento adolescenziale ed esistenziale, si domanda se abbia senso o meno andare al ballo di fine anno. Se non si tratti solo dell’ennesima, stupida tradizione.

Al che, la sua datrice di lavoro e amica Iona, di qualche anno più grande (Annie Potts, non a caso più o meno coetanea di Hughes), le risponde serafica: «Beh, sai una cosa: ragionando così si potrebbe dire che anche la vita è una stupida tradizione. Ma non si deve analizzarla, solo viverla».

Nato nel 1950 e scomparso nel 2009, John Hughes ha trascorso circa metà della sua vita in mezzo agli anni della controcultura, e un pezzetto dell’altra metà a cavallo degli Ottanta. Insomma, appartiene alla stessa generazione dei protagonisti de Il grande freddo, una generazione composta da persone rimaste incastrate da questa o da quell’altra parte, o da altre che sono riuscite a costruirsi un ponte per conciliare le due anime dell’America del secondo Novecento, all’apparenza così filosoficamente distanti tra loro.

Ecco, dire che Hughes abbia semplicemente costruito un ponte sarebbe riduttivo: per il modo in cui il suo cinema (scritto, diretto o prodotto) ha influenzato la cultura popolare degli anni Ottanta senza rinnegare lo spirito ribelle dei due decenni precedenti, si potrebbe dire che lui stesso sia stato l’equivalente del ponte di Brooklyn.

Stando a IMDb, Hughes è accreditato come scrittore in cinquanta pellicole, come produttore in ventitré, mentre ne ha dirette soltanto otto. Acclamato in patria, in Italia è passato relativamente inosservato. Spesso, nelle chiacchierate, le sue commedie per adolescenti vengono mescolate a casaccio con i film da cassettone dell’autogrill, o con quelle che passavano su Italia 1 durante i pomeriggi estivi degli anni Novanta.

Eppure, nel corso della sua carriera, Hughes ha scritto veri e propri cult per famiglie come Un biglietto in due, Io e zio Buck, Mamma, ho perso l'aereo (interpretati dal suo attore feticcio, John Candy , pure lui morto presto a causa di un infarto) e Beethoven.

Quando uno ha stile, ha stile.

Ma non solo. È stato legato alla cricca del National Lampoon, la stessa dei fratelli Belushi, di Chevy Chase, Harold Ramis (che è andato pure lui), Dan Aykroyd e Bill Murray, e ha fatto da padrino al cosiddetto “brat pack”, nome associato a quella generazione di giovani o giovanissimi attori rampanti degli anni Ottanta. Molly Ringwald, Emilio Estevez, Anthony Michael Hall, Rob Lowe, Andrew McCarthy, Judd Nelson e Ally Sheedy: più di metà delle persone nominate in questa lista è comparsa nei suoi film.

Hughes ha lavorato principalmente come sceneggiatore in un periodo in cui questi professionisti non venivano celebrati al pari dei registi tra la gente comune, e ha quasi sempre scelto di firmare commedie e film piuttosto leggeri, per adolescenti o per famiglie. Eppure, ha impattato profondamente sulla cultura dello spettacolo americana, soprattutto su quella televisiva. Non è un caso se nel corso degli anni èstato omaggiato da diverse serie TV, prevalentemente commedie o teen-drama. C’è addirittura un intero episodio della prima stagione di Dawson Creek, Detention (passato in Italia col titolo Convivenza forzata) completamente ricalcato sulla falsariga di The Breakfast Club, con tanto di corsa stealth per i corridoi della scuola e confessioni varie. All’epoca, lo showrunner della serie era Kevin Williamson, che pare nutrisse una sorta di venerazione per Hughes; c’è di buono che quando l’episodio è andato in onda su Telepiù non avevo mai visto il film originale, e grazie al suo omaggio me lo sono recuperato.

Nonostante l’apparente disimpegno, Hughes ha pizzicato con delicatezza certe corde dell’animo piuttosto importanti. Molti dei suoi lavori sono dei “coming of age” costruiti attorno ai problemi, alle aspirazioni e a tutti quei riti che accompagnano il passaggio delle persone dall’adolescenza all’età adulta.

Spesso ospitano anche tematiche indirettamente politiche: Hughes ha raccontato piuttosto bene le differenze sociali dell’America degli anni Ottanta, che si rispecchiavano nelle dinamiche scolastiche, mescolandosi e confondendosi con l’ulteriore divisione in caste tipica dei teenager.

In fondo, un film come Bella in rosa parla di questo: della diversità, dei recinti sociali costruiti dagli adulti e nei quali i giovani finiscono col cadere anche contro le proprie inclinazioni, con tutti i conflitti del caso. Sempre nel suddetto film, viene gestito con grande realismo anche il tema della depressione: il padre della protagonista, interpretato da un insospettabile Harry Dean Stanton, è un uomo di mezza età piegato dalla vita, messo alle corde sia sul piano lavorativo che sentimentale. Tutte le sequenze in cui Andie lo butta giù dal letto con energia non appaiono mai veramente drammatiche. Eppure, alludono con tatto alle problematiche che affliggono quel nucleo familiare che vive “nella parte sbagliata della città”.

Non servono costose scenografie o mille giri di parole per raccontare l'America suburbana degli anni Ottanta. Basta assumere Harry Dean Stanton.

Detto questo, per fare il verso ad Art3mis, secondo me tra Bella in rosa e Un meraviglioso batticuore - scritti da Hughes ma entrambi diretti piuttosto scolasticamente da Howard Deutch - e gli altri film nominati nel suo post passa una bella differenza.

Personalmente, amo lo Hughes sceneggiatore, ma adoro lo Hughes regista perché è completamente sfrenato e fuori misura. Non è uno raffinato con la macchina da presa. O, perlomeno, non mi pare. Eppure ha un modo tutto suo di filtrare la realtà, di intrappolarla in una bolla di irrealtà.

Al di là dell’estetica, a fornire qualche indizio sulle attitudini al fantastico di Hughes c’è questa cosa che alcune delle sue storie sono ambientate nella cittadina immaginaria di Shermer, il cui nome – leggo su Wikipedia - pare provenire dalla via dove il regista raccoglieva i fondali dei suoi film. E poi c’è quella fantastica battuta di Anthony Michael Hall/Gary Wallace all’inizio de La donna esplosiva, che suona quasi come una dichiarazione d’intenti: «Conosciamo bene la realtà, no? Non rovinarmi la fantasia».

Prendete, toh, Una pazza giornata di vacanza: dalla sinossi lo si direbbe un filmetto scemo e senza pretese. Un film per ragazzini come tanti altri. Eppure è un inno all’escapismo, alla libertà e alla fantasia.

A Hughes basta una scena come quella ambientata nell’Art Institute of Chicago, col quel montaggio apparentemente sgangherato, i bambini che fanno il girotondo, i primi piani e le note degli Smiths, per trascinare lo spettatore in una dimensione astratta quanto i quadri esposti alle pareti. Oppure, sempre nello stesso film, l’inserto musicale - situazionista con Twist and Shout (è noto l’amore del regista per i Beatles). Per non parlare del balletto in The Breakfast Club.

Questo modo di fare cinema, con la sua sfrontata leggerezza, riesce a far esplodere completamente la realtà, dando pienamente ragione a Cline quando usa la tastiera di Art3mis per parlare di “fantasie”.

A fianco della dimensione pop, il regista del Michigan riesce a far coesistere anche aspetti della sua natura artistica votati al caos puro, al punk (o al post-punk, o alla new wave, o come vi pare: di musica capisco poco). In Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare la casa del povero Jack Ryan viene letteralmente fatta a pezzi nel corso di un party sfrenato che sembra la versione hardcore di quello (già di per sé hardcore) di Colazione da Tiffany.

Tutta la sequenza del rituale tecno-mistico per l’evocazione di Lisa messo in piedi da Gary e Wyatt ne La donna esplosiva è completamente sparata, eccessiva. Attraverso un montaggio tesissimo, al limite dello sperimentale, Hughes alterna senza consecutio temporum spezzoni presi da Frankenstein con show televisivi degli anni Ottanta. Mescola citazioni da Wargames - Giochi di guerra con la computer grafica di allora, effetti speciali da poco, candele, bambole e feticci vari, confezionando quella che all’epoca era forse una fra le scene più “weirdo” infilate in un film per ragazzi dai tempi di Mary Poppins.

Nel corso della carriera di Hughes, le sue sceneggiature sono state tradotte in immagini da molti registi. Forse, quello che ha declinato meglio il suo “senso del casino” è stato Chris Columbus, seguito a ruota da Harold Ramis e Brian Levant. Altri, come il già citato Deutch, hanno finito con l’appiattire un po’ la sua scrittura e i suoi personaggi, spesso affogandoli nel romanticismo o nell’opera tutta precisina di maniera.

Poi ci sono quelli venuti dopo, che si sono ispirati allo stile di Hughes o alle sue narrazioni. Gente tipo Will Gluck (Easy Girl) o Greg Mottola (Suxbad, Adventureland), che mi piace un sacco e che ha fatto bene, ma ciononostante non è riuscito a (o ha preferito non) abbracciare completamente la vena di follia della sua musa, né il suo gusto per i dettagli assurdi. C’è quella scena pazzesca ne La donna esplosiva, ambientata nel centro commerciale, dove i due bulletti interpretati da Robert Downey Jr e Robert Rusler fanno una specie di mossa da scemi. Non so, dura solo un secondo, ma è sufficiente a definire il tono del film. Per non dire poi di tutte le parti con Bill Paxton.

Forse, nel bene e nel male, è impossibile rifare Hughes proprio perché era profondamente legato allo spirito dei suoi tempi, così sospeso tra i Beatles e la new wawe. Però, insomma, a quasi dieci anni dalla sua morte un po’ mi spiace che non abbia diretto perlomeno la metà della roba che ha scritto.

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