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Racconti dall'ospizio #121: Zork è sempre stato tutto quello che vogliamo

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Ho sempre trovato buffo il fatto di aver letto Ready Player One più per istinto da acquisto compulsivo che per l’isteria di massa del periodo nostalgico che ha contribuito ad avviare. L’ho comprato da Feltrinelli poco dopo l’uscita in Italia (se non sbaglio, ottobre 2011), in primo luogo per il mio feticismo totale nei confronti della sempre compianta ISBN Edizioni. Ho la prima edizione, quella con tanto di box di cartone, e chiaramente all’acquisto istantaneo hanno contribuito la copertina, il titolo, la descrizione. Insomma, la mia casa editrice feticcio dell’epoca che pubblica un romanzo evidentemente frutto di un immaginario che mi appartiene di diritto è praticamente la formula basilare per tirare fuori banconote dal mio portafoglio. Se ci aggiungete il fatto che ero nel periodo universitario in cui macinavo libri con la stessa voracità con cui durante l’E3 mi avvento sull’ordine di Domino’s Pizza, ricordo il weekend successivo come una supernova di memorie.

Se complessivamente non posso che concordare sul fatto che sia un libro tutto sommato discreto, dalla prosa non particolarmente elegante, c’è da dire che è difficile non fomentarsi davanti ad alcuni slanci. Soprattutto, leggendolo in un momento storico leggermente antecedente all’emorragia revanscista anni Ottanta, va da sé che te ne esci sufficientemente imbellito, soprattutto se lo affronti come lettura sportiva. Detto ciò, del mio parere su Ready Player One immagino ve ne freghi giusto, e il Maderna non ha sganciato fior fior di quattrini per avere il mio contributo sul libro, tuttavia è proprio da una chiave di lettura del romanzo di Cline che parte il mio viaggio nel labirinto di Zork. Sì, perché tra i suoi ne riconosco uno abbastanza importante. Se da un lato, infatti, la voglia di sbatterci in faccia il tesserino di nerd provetto che le sa tutte ingolfa il libro di citazioni non sempre necessarie, dall’altra il romanzo diventa rapidamente un buffo e simpatico atlante culturale da esplorare come narrativa di viaggio, dove tutto sommato la verità e l’accuratezza non contano quanto la suggestione.

Ready Player One è pura narrativa di sensazione, nostalgia e rievocazione, e in questo, coinvolge due pubblici in particolare: chi ha vissuto quei momenti e trova un senso di vicinanza immediata e chi avrebbe voluto viverli ma per questioni anagrafiche non l’ha fatto, e li ha sempre immaginati un po’ come vengono raccontati nel libro. Io sono un po’ a metà strada tra i due mondi, visto che sono nato nel 1985, ma ho una sorella maggiore, e a casa mia il mondo “nerd” è sempre stato qualcosa di dato per scontato, tra l’altro senza particolari connotazioni culturali. Il computer c’era perché mio padre ha una discreta venerazione per la tecnologia, i videogiochi erano un suo passatempo, e pur essendo lontano come gusti dal fantasy e dalla fantascienza, sono cresciuto in quell’atmosfera per cui tutti i prodotti di intrattenimento o di letteratura erano grossomodo uguali e ammessi, perché avrebbero fatto parte della mia formazione personale. Questo mi ha permesso di andare un po’ a ramengo tra generi e piattaforme differenti, rimbalzando felice tra la cultura anni Ottanta, più vicina ai riferimenti di mia sorella e ai rigurgiti di gioventù dei miei, e quella anni Novanta, propria della mia generazione.

Ecco, Ready Player One è “mio” per la sua natura di atlante rapsodico, e ammetto di averlo riletto più volte con quello spirito di recupero dei classici con cui affronti la raccolta delle storie di Poe o Lovecraft, per comprendere una serie di rimandi trovati in altre opere. Zork, in questo senso, è uno fra gli esempi più calzanti, perché pur sapendo perfettamente cosa fosse, è leggendo le avventure di Wade sul pianeta Frobozz che sono stato spinto ad approfondire in maniera più sistematica.

Non ricordo come lo recuperai, ma giocare a Zork oggi è facilissimo, basta andare su Archive e goderselo in forma originale, con tanto di manuale, oppure comprarsi la collection su GOG. Per quei due o tre che non lo conoscessero, stiamo parlando di un’avventura testuale creata tra il 1977 e il 1979 dai cervelloni del MIT (nel senso dei mainframe, ma anche dei tizi che sapevano programmarci, in questo caso Tim Anderson, Marc Blank, Bruce Daniels, e Dave Lebling). Erano gli albori dell’intrattenimento elettronico ed evidentemente iniziava ad esserci febbrile entusiasmo per la possibilità di creare figate spaziali al computer. Per dire, in seno al MIT, mentre il Dynamic Modeling Group si dedicava a Zork, il Tech Model Railroad Club creava Spacewar!, che è un po’ la versione uber geek di quelli che meglio Dungeons & Dragons o la maratona Star Wars.

Nata sulla falsariga di Colossal Cave Adventure (passato alla storia come Adventure), l’idea dell’avventura testuale è la traduzione migliore possibile a quell’epoca dei libri game, ovvero la creazione di una narrazione interattiva che restituisca il senso di epopea fantasy nel miglior modo possibile. Ogni luogo dell’universo di gioco viene presentato attraverso una descrizione, e tramite un parser il software traduce le frasi che digita il giocatore in comandi di gioco. Rispetto ad Adventure, è proprio la maggiore cura riposta nella creazione del parser (del tipo che gli puoi scrivere “hit the troll with the long sword” e lui comprende, e se non comprende ti chiede maggiori informazioni) ad aver fatto passare Zork alla storia, unito al fatto che, per quanto ostico e limitato possa sembrare ora, in realtà si tratta di un gioco estremamente ben documentato e facile da approcciare, una volta comprese le regole base. Il movimento è affidato al digitare i punti cardinali e la sintassi per interagire con il mondo si basa sull’uso abbastanza logico dei verbi. Tutto il resto lo fanno l’immaginazione e il “world building” che ci pone davanti a una sfida, la stessa che deve affrontare Wade nel libro: trovare i diciannove tesori sotterranei senza fare una brutta fine e diventare così il Dungeon Master. L’influenza dei GdR pen & paper è chiaramente altissima e, dalle descrizioni fino alla tipicità di alcune situazioni, Zork è ancora oggi un viaggio fantastico a metà strada tra la plancia di Hero Quest e una sessione a un tavolo con master e amici.

La prima volta che ho davvero giocato a Zork venivo già da anni di MUD, i multi user dungeon che sono un po’ il trait d’union tra le avventure testuali e i MMORPG contemporanei, e dunque avevo già molta familiarità con il sistema di input testuale e quel modo di raccontare il mondo. L’essere da solo in un universo tutto sommato ostile e a me alieno, però, mi ha permesso di studiare meglio il modo in cui Zork si svela, e la raffinatezza con cui ti fa sentire in pericolo, semina indizi per indovinelli assolutamente non banali (ma diciamo anche assurdi, a volte) e ti suggerisce che magari, in quella stanza, c’è stato qualcuno prima di te. D’altronde, oltre agli incontri con i troll, l’antagonista principale è rappresentato da un ladro, che si muove indipendentemente dal giocatore e che svolge un ruolo importante nel portare a termine l’avventura. In questo senso, Zork ha in nuce tutte le aspirazioni e i desideri che molti game designer ancora cercano di inseguire oggi, e coltiva la stessa illusione di regalare un impossibile senso di libertà al giocatore. Sarebbe facile e riduttivo dire che a Zork riesce meglio perché, ovviamente, facendo leva sui vuoti lasciati dalla mancanza di grafica e dalla vaghezza del testo, chiama in causa la fantasia, che rende inevitabilmente più epica e priva di ogni limite la rappresentazione mentale dell’avventura. Però, ecco, un paio di cose interessanti, a mio modo di vedere, le dice ancora.

Mi riferisco soprattutto al fatto che, nella folle corsa verso open world sempre più plausibili e “immersive sim” sempre più coinvolgenti, a volte vince l’idea che seppellire le regole sotto una mole di contenuti superflui possa aiutare l’immedesimazione, quando invece, piuttosto che nascondere i meccanismi, basterebbe solo che questi funzionassero per bene. Le regole in Zork sono evidenti e costituiscono, di fatto, il gioco stesso, ma basta “entrare” nell’ottica dell’avventura e la sospensione di incredulità fa il suo lavoro. Tra l’altro, immagino che, se ci riesce ancora oggi, all’epoca dev’essere stato una roba da far esplodere il cervello, un po’ come giocare a Prey nel 2017. L’altra nozione, che è un po’ una conseguenza del sistema di regole, riguarda la scrittura. Benché Zork, soprattutto nei suoi seguiti, venga spesso ricordato come un gioco dallo storytelling brillante e ironico, cosa abbastanza vera, la bravura di Infocom è quella di aver reso immortale l’ambientazione, prima ancora della narrazione che avviene al suo interno. Il fascino dei labirinti e il senso di scoperta che in pochi caratteri Zork riesce a trasmettere restano la parte più significativa dell’esperienza, e ci rammentano che a far breccia nel cuore dei videogiocatori, nel 1977 come nel 2018, è il senso di coinvolgimento restituito dalla narrazione ambientale, dai dettagli, dalla coerenza dell’universo diegetico e dal rapporto che sviluppiamo con esso.

È chiaro che, fortunatamente, il solco tracciato da Zork non è l’unico da seguire per creare un buon videogioco, ma è altrettanto evidente che Infocom ha tracciato un segno estremamente profondo nella storia del medium, dichiarando apertamente una delle missioni fondamentali del game design e assolvendo alla funzione mitopoietica che l’uomo cerca sin dalla notte dei tempi. Per questo, rappresenta una pietra miliare da apprezzare e studiare ancora oggi. Per non tediarvi oltre, però, vi consiglio di leggere questo lungo articolo pubblicato su Gamasutra undici anni fa, che racconta la storia di Zork, dei suoi seguiti e di come, in fondo, per il mondo dei videogiochi, l’avventura testuale nata in Massachussets sia l’equivalente di uno dei grandi poeti omerici per la letteratura.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.