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Racconti dall'ospizio #122: Quella volta che ho capito Pac-Man a Ravascletto (UD)

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Pac-Man, come il sole di un’alba atomica, è troppo grande e tondo per poter essere capito dall’essere umano. Pac-Man è i Canterbury Tales, è il Genji Monogatari dei videogame. Per l’esattezza, Pac-Man è il Pac-Man dei videogame, così ci leviamo subito dalle sfere l’annosa questione di definire X come l’Y del Z.

E per il primo anno della rivista Videogiochi indovina un po’ la torta che forma ha.

Troppo grande, dicevo, perché non è solo iconico nel suo inventare la ruota videoludica - una ruota con una fetta mancante, peraltro. No. Pac-Man è un gioco a cui sarà sempre e per sempre divertente giocare, fecondo nella sua ripetitività. Sentiero luminoso per chiunque voglia portare avanti grafica, ritmo, I.A. nei videogame. Sai quando sbatti la testa e hai bisogno di un koan zen che te la faccia sbattere ancora più forte, ma da un’altra parte. Pac-Man è un maestro zen. Ma abbiamo già detto che Pac-Man è il Pac-Man dei videogame, perché indugiare ancora in ambito definitorio? Perché Pac-Man è troppo. Semplicemente troppo. E infatti io non capii il Pac-Man subito, no. “Subito” non è il 1980, non per l’Italia, no. 1981, forse anche 1982 nell’esperienza personale. Quindi avevo già un’età di tutto rispetto, sette, otto anni, roba che i pargoli d’oggi, a quell’età, spanano Fortnite inneggiando a Satana. Io non spanavo niente, guardavo tre cabinati di Pac-Man affiancati al bar del campeggio Punta Spin di Grado (GO). In realtà guardavo il fenomeno, i teenager degli anni Ottanta accalcarsi e sciogliersi uno nell’altro con i loro cuori di panna, le facce da De Sica junior, i sapori di sale e cantare Bandiera Bianca senza capire un cazzo. Tutto giusto, tutto Eighties Canon. E bon. Un giorno, saturo del casino, mi allontanai e, girozolando nelle zone proibite dietro al campeggio, capitai in quella che del campeggio doveva essere la discarica abusiva. In cima a un cumulo di monnezza alto due metri, troneggiava un cabinato completamente sfasciato di Space Invaders. Ogni generazione ha il 2001 che si merita. “Sic transit gloria mundi”, pensai, collegando il lugubre spettacolo del cabinato sfasciato alla festosacumpa al bar del campeggio a schiamazzare su Pac-Man.

“Sic transit gloria mundi”, pensai. A otto anni. Oh, non credete a tutto quello che dico. Però l’episodio in sé è vero e sconcertante. E davvero pensai “Oggi a te, Space Invaders, domani a lui, il coso giallo”.

E infatti. Si fece mangiare vivo dalla sua stessa signora in primis, Ms. Pac-Man, che se sapete la Storia - e anche se non la sapete - era in realtà un Pac-Maschio con le gambe di nome Crazy Otto.

(nota importante: sto scrivendo questa memoria deliberatamente senza Internet, perché sono arrivato alla conclusione che una memoria personale la devi tirare fuori dalla memoria personale, sennò che memoria personale è? OK, ho finito il credito sul cell)

Un po’ droga, un po’ alcol: pasticche. MANGIA SA’

Quindi arriva Crazy Otto, creato da degli hacker mmeericani, Namco si incazza, Midway si incazza, cease and desist, comprano il plagio craccato, je segano le gambe, TUTTE le gambe, un filo di rossetto ET VOILA’ Ms. Pac-Man. Nel mentre, Iwatani è un po’ nel pallone, non sa bene come sequelare con un vero sequel la sua palla gialla. Super Pac-Man è debole, è quel "more of the same over a less is more" che non funziona mai. Pac & Pal è un’altra roba che insomma quasi quasi invece gioco a Mappy e ho detto tutto. D’altro canto, come icona, Pac va talmente alla grande che un po’ anche chissene, siamo nella golden age dei videogame e nuovi gameplay in grado di accalappiare quarters, 100 yen e 200 lire ce ne sono a bizzeffe.

Io - appunto - nel mentre scopro Nintendo, Namco ha di colpo già quel sapore di "has been", e Pac-Man proprio me lo malcago dibbrutto. Ma poi, a riprova che, come è noto, in quegli anni Namco e Nintendo si parlavano e si sfidavano a colpi e contraccolpi di capolavori ludici, ecco che nel 1984 arriva il Pac-Man della mia generazione, quello platform, quello cartoon, quello che insomma è Pac-Land, e per un attimo zitti tutti: Namco ha inventato una roba fuori parametro, ma dura pochissimo, perché Miyamoto prende Pac-Land punto per punto e li migliora TUTTI (a parte grafica e palette, per via del chipset Famicom, ma vabbe’). Sì, Super Mario Bros. arriva così presto che se magna ancora una volta Namco e un po’ tutto quanto. Pac-Man entra ufficialmente nella fase “Rolling Stones dopo Exile on Main St.” ovvero “rockstar che ha fatto roba talmente figa che, anche se ormai fa dischi che non hanno più gran rilevanza, comunque ti levi il cappello quando passa”. E infatti da lì Pac-Man, ludicamente parlando, si spegne abbastanza: sarebbe diversa oggi la storia dei videogame, se non ci fossero stati Pac-Mania, Pac-in-Time, Pac-Man World e Pactelappesca? NO.

Poi, vabbe’, ci sono stati i relativamente recenti Pac-Man Championship, che sono come i tipici dischi della fase “Lou Reed post-eroina” ovvero “credevi non avesse più niente da dire e forse proprio per quello ti tira fuori dei masterpiece eccellenti” ma dieci anni dopo hanno giustamente rirotto il cazzo, e lo dico con tutta la rabbia puerile di chi ha acquistato il recente Pac-Man Championship Edition 2 Plus credendolo molto migliore, o credendosi molto meno arrugginito.

MA

non era questo ciò di cui volevo parlarvi, solo che la cultura videoludica spurga dalla mia mente che io non so più cosa fare guarda, esce da tutte le parti e a volte brucia anche un po’.

Pac-chiano a dir poco.

1987. Vacanza scolastica della seconda media. A Ravascletto, località montana ai piedi dello Zoncolan, che se è più famoso per il ciclismo che per lo sci una ragione ci sarà. Ma se hai dodici anni, i compagni di classe e un’audiocassetta degli Europe, davvero non c’è problema. Se però scopri che l’Hotel Bellavista ha ben tre cabinati, allora un problema forse c’è: che tutto il resto passa in secondo piano. Se poi capita che i tre cabinati siano nella sala da ballo dell’albergo, proprio dove le tue compagne di classe hanno deciso che è tempo di praticare la moda del lento in maniera molto, molto seriosa, allora è proprio un casino, perché hai i maschi incollati ai cabinati, le ragazze che ballano da sole, e parte il tira e molla “dai, balliamo gli Europe” “Eh no, ciccia, tu mi vuoi far ballare Carrie” “ma no, dai, balliamo anche The Final Countdown e Rock The Night” “sì ma lo so che è solo una trappola, la terza traccia è Carrie”.

E a me, in realtà, tutto questo non tangeva minimamente, perché nessuna compagna di classe mi invitava a ballare. Magari qualcuna l’avrebbe anche fatto, eh, ma io ero LO scimmiato dei videogame e pertanto, in una sala da ballo con tre coin-op, era palese che io ero quello che proprio era non pervenuto in termini danzerecci.

Dio sa quanto avrei voluto essere invitato.

Esatto, Dio lo sa. Zero. Ma proprio zero assoluto. Cabinati. Il medesimo Dio dei coin-op aveva deciso che all’Hotel Bellavista ci sarebbero dovuti essere:

  • Iron Horse, Konami, 1986. Considerato all’epoca il terzo capitolo della trilogia “omini senza occhi”, a seguire Green Beret e Jail Break. Il gioco duro come il ferro ma con quell’audiovideo western che non perdona.

  • Pit’n Run, Taito, 1984, un gioco di corse visto dall’alto di una difficoltà addirittura demenziale, forte, ma anche debole, di un’idea di game design mai vista né prima, né dopo: mentre gli avversari curvano gradatamente, il bolide del giocatore curva a novanta gradi. È un’idea talmente del menga che ho dovuto comprare la PCB originale, anche perché è un gioco talmente sfigato che i pirati, all’epoca, manco si presero la briga di piratarlo.

  • Pac-Man. Perché va bene esser pretestuosi, ma visto che l’articolo è su Pac-Man, doveva esserci anche lui. Cooompletamente fuori tempo massimo! Cosa era meno cool, a inizio 1987, di Pac-Man? Comotion, o Jungler, o Ginga Teikoku No Gyakushu, vero, ma quelli non li conoscete, mentre Pac-Man sì. E faceva un po’ impressione vederlo là, ignorato, dopo tutto il successo che aveva avuto. È un po’ l’effetto che può fare il primo Wii oggi. O il Wii U sempre.

Forse non tutti sanno che a Riccardo Albini piacevano i Dead Kennedies.

Tutti i maschi alpha giocavano ad Iron Horse, dove comunque potevi scegliere se usare una frusta, la pistola o i pugni e quindi figata, o financo Pit’n Run, ché era comunque un gioco di Formula 1. Io, nella mia betitudine (aka maschio beta) ma anche nella mia ebetitudine (merita dire che il nome antico di Ravascletto è Monai), restavo sempre fuori dalle code per questi due giochi, per bullismo, per lentezza, perché la vita è ingiusta. Ma è proprio nella privazione che l’intellettuale trova l’occasione di riscatto. E allora giù a giocare a Pac-Man. A capire di colpo - e con un ritardo eonico - tutta la genialità e la raffinatezza del gioco. Tutte le informazioni e le ossessioni riportate dalla rivista Videogiochi dell’Editoriale Jackson, di colpo, avevano un senso. I gadget. Le strategie. Le infinite caricature disegnate dai lettori e pubblicate nella rubrica della posta. La canzone di Buckner e Garcia più volte celebrata sulla rivista e da me mai sentita, anche avvicinando molto l’orecchio alle pagine. Il glitch del 256° stage, quello kill screen che fa tanto pop nelle mani di Cline (e di Spielberg? Vedremo - per intanto faccio notare che Spilimbergo è in Friuli come Ravascletto). Avevo perso il treno di Pac-Man, solo pochi anni prima, e ora dovevo recuperare. Nella mia epica personale, non ricordo di aver fatto altro che giocare a Pac-Man. Mollai solo quando riuscii a vedere la terza e ultima intermission e il bonus a forma di astronave di Galaxian - Namco fu la prima a picchiare duro sull’autoreferenzialità. Amavo come il gioco ti spingesse, partita dopo partita, a portare avanti la tua personale quest per compiere il reverse engineering dell’intelligenza artificiale dei fantasmi. Di cui ricordo poco, in verità - ricordo che ogni fantasma ha almeno due modalità di patrolling, a seconda che Pac-Man sia nelle vicinanze o meno, ma… it has been a long time. Forse l’air guitar di certi compagni sulle note di The Final Countdown ha cancellato ogni memoria, lasciando fantasmi (colorati) del passato a inseguire neuroni ormai spanati nel discolabirinto della mia testolona. Ma fu a Ravascletto che capii Pac-Man, e che capii come l’autentica rilevanza di un gioco non colpisca tutti, e non allo stesso tempo, né allo stesso modo. Capendo Pac-Man nel 1987, di fatto, capii anche il retrogaming. Ed eccoci qua.

Nota: Tutte le immagini provengono dalle scansioni del sito Retro-Gaming.it, che ringrazio anticipatamente, sperando non ce le facciano togliere! Siete i migliori!

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.