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2022: i sopravvissuti (speriamo) | Spoiler Zone

Una rubrica in cui parliamo di giochi, film, libri, la qualunque, a posteriori, senza farci alcun problema di spoiler. Se non avete ancora "consumato" ciò di cui si parla, in questo caso 2022: i sopravvissuti (Soylent Green), statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!

La prima volta che mi sono imbattuto in 2022: i sopravvissuti facevo, tanto per cambiare, le superiori, e tenendo conto che più della metà delle introduzioni che propino proviene da quel periodo lì, sarebbe il caso di mettere perlomeno in dubbio le mie varie tirate contro i passatisti.

Comunque, superiori. Nello specifico, durante il cineforum che, ogni giovedì pomeriggio, una dozzina di sciagurati organizzava nella scomodissima aula magna del liceo, l’unica dotata di videoproiettore in quell’anno di grazia 1994. Un cineforum, a dirla col senno di poi (ma pure con quello di allora), implacabile, allucinante. Composto da un rullo compressore di film che poteva sembrare sensato soltanto a dei ragazzini col Drum impantanati nella cosiddetta fase Bergman-Kiarostami, pieni di puzza sotto il naso nei confronti del cinema d’azione o cosiddetto di intrattenimento puro.

- Fase, tra l’altro, dalla quale chi è fortunato riesce a disimpegnarsi attorno ai venticinque anni, mentre i più impressionabili ci rimangono sotto per tutta la vita, finendo per rompere il cazzo alla Marvel a ridosso della quarantina. Capita, oh.

Va anche detto che il cineforum si teneva tipicamente di pomeriggio, in genere dopo una pausa pranzo a base di birra, cannini e panini, che inficiava parecchio la severità delle visioni. In effetti, credo che l’abitudine al dormire in sala dopo i pasti - a tutt’oggi mai smaltita e ampiamente praticata in sede di festival e anteprime - mi sia salita proprio in quegli anni lì.

La parentesi rilassante.

Nelle intenzioni del gruppo cineforum, la fantascienza di 2022: i sopravvissuti avrebbe dovuto costituire la parentesi rilassante tra Quarto Potere e Il posto delle fragole. Tra i più integralisti e politicizzati della combriccola (molti dei quali hanno poi proseguito la carriera a mollo nella ketamina), la visione del film di Richard Fleischer veniva tollerata solo in via dell’imprescindibile messaggio sociale, dell’approvazione condivisa dal Dizionario dei film di Paolo Mereghetti e, probabilmente, anche per il grossolano rimando a Kubrick della traduzione italiana, che sostituiva l’originale e ben più pertinente Soylent Green.

Comunque, il film era figo. Lo ricordo come una delle robe più sfiziose di quella strampalata rassegna e, a riguardarlo qualche sera fa, dopo tanti anni, mi è sembrato pure invecchiato bene; sicuramente meglio di me, nei limiti di un genere che presta particolarmente il fianco al passare del tempo.

Distribuito nel 1973 in piena botta da controcultura, Soylent Green è un hard boiled con venature noir, che mette i piedi in una certa fantascienza politica col pretesto del 2022 evocato dal titolo italiano. Nella New York di un futuro già abbastanza prossimo per il pubblico degli anni Settanta nonché, a pensarci oggi, tra i più verosimili mai descritti, in via di iper-inquinamento, sovrappopolazione e, udite udite, ruspe, mascherine e lockdown, si consuma l’indagine del Detective Thorn, interpretato da uno stropicciatissimo Charlton Heston, attorno all’omicidio del benestante William Simonson.

«Posso togliere la mascherina per parlare con una signora?».

Il mortaccio, oltre ad avere la faccia di Joseph Cotten, che riporta prepotentemente in tema Quarto Potere, è – o, meglio, era – un pezzo grosso della controversa multinazionale Soylent, produttrice delle omonime barrette proteiche necessarie alla sussistenza delle sacche più povere di popolazione. Ora, se non fossimo in spoiler zone, inizierei un balletto di parafrasi per aggirare lo svelamento finale, ma visto che lo siamo, e tanto più che si sta parlando di una roba uscita quasi cinquant'anni fa e diventata nel frattempo oggetto di culto tra i nerd (soprattutto perché, come mi fanno notare i disagiati su Facebook, c’è dentro Computer Space), dico subito che le barrette Soylent Green del titolo, spacciate per robe bio a base di alghe, vengono in realtà sintetizzate dai cadaveroni della gente. Specialmente, a quanto suggerisce il film, da quelli degli anziani che decidono di intraprendere il suicidio volontario garantito dalla legge Fontana-Gallera.

«Centotrentamila punti!».

Proprio tra i suddetti anziani, vale la pena di menzionare il compare bibliofilo di Thorn, interpretato dal grandissimo (e per l’ultima volta sullo schermo) Edward G. Robinson. Interprete di dozzine di film di sbirri, soprattutto tra gli anni Quaranta e Cinquanta, nonché una tra le facce da gangster più note nella storia del cinema, Robinson concorre a sottolineare la natura hard boiled di Soylent Green, facendone un perfetto esempio di quel filone di fantascienza distopica al quale appartengono anche Blade Runner e Strange Days. Con il film della Bigelow, quello di Fleischer condivide i tumulti politici e l’atmosfera da fine millennio, corroborata anche dal fatto che il romanzo di Harry Harrison dal quale è stato tratto, Largo! Largo!, si consuma proprio alla vigilia del Duemila.

In analogia con Blade Runner, invece, oltre ai tantissimi elementi di contesto, vale la pena di sottolineare il declassamento – non è chiaro quanto deliberatamente critico - della dimensione femminile. La malinconica Shirl di Leigh Taylor-Young non sarà una replicante come Rachel ma è totalmente una donna-oggetto, sia per come viene inquadrata formalmente nella sfera sociale, sia per il trattamento riservatole da qualsiasi personaggio maschile in scena, protagonista compreso.

«Francamente, me ne infischio!»

Poco sopra ho sottolineato come Soylent Green non sia invecchiato male. Mi sento di ribadirlo al netto dei dialoghi, che scivolano un po’ troppo spesso nel didascalico, tentando di comunicare allo spettatore il maggior numero di robe distopiche possibili, tipo “Uh, non mangio una bistecca con l’insalatina dal 19XX perché le cose sono andate a puttane così e così”.

Anche l’architettura degli ambienti è datata ma, ehi, stiamo pur sempre parlando di un film che racconta il declino della razza umana, e su un piano diegetico può tranquillamente starci che il merdone sia scoppiato proprio all’inizio degli anni Settanta, nei quali è rimasto bloccato il design.

A non aver perso un grammo della propria forza ci sono la trovata delle barrette cadaverose, alla quale in seguito hanno attinto dozzine di altri autori, tra i quali persino i game designer Lorne Lanning e Sherry McKenna quando hanno progettato la saga di Oddworld, e l’atmosfera generale. La splendida fotografia virata al verde di Richard H. Kline esalta il marciume di quella probabilissima New York post apocalittica e, tra i formicai filosovietici in stile Zivago e tutta la sporcizia e il sudore che avvolgono i personaggi dalla testa ai piedi, al termine della visione viene davvero voglia di sciacquarsi nella doccia.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.