After Burner, ti avevo giudicato male | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Era un Natale di fine anni Ottanta, anche se l’anno preciso non me lo ricordo. L’eccitazione del periodo era quella che poteva provare un bambino quale io ero all’epoca, palpabile come il grasso sulla carta degli hamburger del fast food. La scuola era in pausa per le vacanze e davanti a me si prospettavano due settimane di grandi abbuffate (perché a casa mia, anche in occasione della Befana, si mangiava come se non ci fosse un domani), cartoni animati Disney e naturalmente ore di divertimento videoludico.
Quel Natale non meglio precisato avrei avuto, finalmente, la mia primissima console: un Master System. Lo bramavo da tempo ma non era mai arrivato prima, un po' per il costo, un po' perché c’era sempre la convinzione che avrebbe tirato via spazio ai compiti, anche se all’epoca passavo già del tempo sul mai dimenticato Commodore 16. Finalmente, dopo aver rotto le scatole alla mia famiglia fino all’inverosimile e averli trascinati davanti alla TV ogni volta che Bim Bum Bam lo sponsorizzava nei suoi appositi spazi commerciali, la scatolina nera targata Sega sarebbe arrivata a casa mia, e avevo già fatto spazio sul mobile in legno di noce laccato per sistemarla a fianco di quel gigantesco catodico a marca Nordmende che troneggiava in salotto.
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La mattina di Natale mi ero naturalmente alzato di buon’ora, un po' come fece Bart Simpson in quel famoso episodio de I Simpson in cui beveva dodici bicchieri d’acqua per svegliarsi prima di tutti. Dovetti comunque aspettare che si alzassero tutti gli altri per poter scartare i pacchi, perché non si poteva altrimenti. Ma alla fine, il tanto agognato momento arrivò, e le mie manine sudate scartarono il pacco contenente il Master System. Insieme alla console arrivò quel Golden Axe sul quale avrei speso non so quante ore e innumerevoli tentativi prima di arrivare alla fine.
Per il pranzo di Natale, ci spostammo in blocco a casa dei miei nonni, dove mi aspettava una sorpresa: al posto di qualche orribile maglioncino, i miei nonni mi regalarono un’altra cartuccia, quell’After Burner oggetto di questo pezzo. Il problema di fondo era che a me After Burner non piaceva più di tanto. Ci avevo giocato in sala giochi su quel cabinato rotante (che tra l’altro si vede anche in Terminator 2) tanto divertente quanto nocivo per la mia testa, in quanto quell’immersione totale nel gioco grazie alla rotazione dell’abitacolo e le casse stereo mi provocavano un magnifico mal di testa dopo pochi minuti. Ma era senz’altro un’esperienza da provare, soprattutto in quegli anni in cui Top Gun era così popolare che vedevi in giro praticamente chiunque con gli occhiali da sole a goccia e il giubbotto in pelle Schott (che tra l’atro avevo anch’io, nonostante fossi solo un bimbetto).
Avevo provato a dare una nuova chance ad After Burner, ma proprio non mi convinceva, non tanto come gioco in sé, ma quanto per il contesto. Impersonare il barbaro di Golden Axe, Joe Musashi di Shinobi o quell’irresistibile porcospino blu aveva tutto un altro sapore rispetto a un anonimo aereo da combattimento, seppur supersonico. Quindi After Burner rimase lì a prendere polvere fino a quando le cose, qualche mese dopo, non cambiarono. Mio nonno, che mi aveva regalato After Burner comprandolo praticamente a caso in un negozio di giocattoli, se n’era improvvisamente e tragicamente andato a causa di un incidente stradale. Per un bambino, perdere il nonno è un dramma che non si può spiegare né definire. Quello precedente fu l’ultimo Natale insieme a lui e After Burner fu il suo ultimo regalo.
Così, per tentare di soffocare il dolore di quella perdita, inserii la cartuccia di After Burner nella console, utilizzando al posto del pad il joystick del Commodore 16 con quei tasti arancioni che avevo quasi consumato, e iniziai a giocarci tutti i giorni, con l’obiettivo di arrivare al diciottesimo stage, quello finale, e portarlo a termine.
Sul gioco in sé, nudo e crudo, non è che ci sia poi molto di specifico da dire: uno shooter arcade in cui si pilotava un F-14 Tomcat con l’unico scopo di abbattere tutto l’abbattibile a suon di mitragliatrice e missili, solcando cieli e mari digitali cercando di non essere abbattuti.
Grazie ad una perseveranza che non mettevo nemmeno nel fare i compiti di matematica e a qualche trucchetto recuperato sulle riviste dell’epoca, portai a termine il titolo Sega, dopo aver abbattuto quel gigantesco aereo finale che sembrava più un’astronave madre aliena e aver visto l’alter ego digitale di Tom Cruise nella schermata finale. E mi ci ero anche divertito, perché in fondo, abbattere aerei nemici non era poi molto diverso che eliminare qualche nerboruto guerriero o ninja.
Il gioco fu un grosso successo commerciale e generò alcuni sequel e titoli derivati, nonostante il marchio After Burner non abbia mai sfondato nell’immaginario collettivo come altre serie storiche targate Sega.
Per molto tempo non ho più toccato After Burner, proprio perché legato alla tragicità di quel ricordo, ma negli ultimi anni, complice l’emulazione e qualche fugace partitina all’interno di Shenmue II, l’ho riscoperto insieme a tanti altri grandi classici Sega di quel periodo, ai quali sono visceralmente legato da malinconici ma affettuosi ricordi e sui quali ci faccio sempre un giro nel calmo e un po' morente periodo estivo.
E chissà che con Top Gun: Maverick all’orizzonte, non torni in vita anche After Burner.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle gioie del volo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.