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Al bar dello sport, Banfi, Calà e la Mole Antonelliana

Guardare un film ambientato nella propria città è sempre curioso, perché si notano aspetti che un foresta non coglierebbe. Anche se sono anni che vivo a Milano, Torino rimane la mia città natale dove ho vissuto gran parte della mia vita, ed è sempre un piacere ritrovarla anche al cinema.

A Torino sono state girate molte pellicole famose o, comunque, che sono rimaste nell’immaginario collettivo come The Italian Job (quello del 1969 con Michael Caine, non quella porcata con Edward Norton), Profondo Rosso o Il Gatto a Nove Code.

Un film, però, che guardo sempre con grande piacere appartiene a un genere molto più “popolare” quale la commedia all’italiana; è anche uno di quei lavori che, oggi come oggi, non troverebbero più spazio in via dell’innumerevole quantità di battute sessiste, socialmente fuori luogo e probabilmente anche razziste: sto parlando di Al bar dello sport

Al bar dello sport vede un Lino Banfi probabilmente al top della sua carriera (da lì a poco usciranno Occhio Malocchio Prezzemolo e Finocchio e L’allenatore nel Pallone) alle prese con una vita difficile nella capitale sabauda. Lui, pugliese immigrato a Torino e obbligato a fare lavori umili come “l’animatore di aragoste morte al mercato” per farle sembrare vive, campa a casa della sorella e del cognato che lo odia già solo in quanto meridionale. Lino (anche il personaggio si chiama così) bazzica il Bar dello sport, dove lavorano la sua pseudo fidanzata Rossana - interpretata da una poco più che trentenne Mara Venier - e il suo amico Parola (Jerry Calà), un ragazzo muto ma molto astuto, che ha sempre qualche consiglio azzeccato da elargire

Uno bel giorno, contro ogni sua aspettativa, Lino vince al Totocalcio proprio grazie a un suggerimento di Parola. Da quel momento in poi la sua vita cambia radicalmente: dapprima il nostro cerca di nascondere la vincita (il “moviolone” nel cervello del proprietario del Bar è sempre uno spasso), ma quando la notizia inizia a circolare la sorella e il cognato prendono a venerarlo come un semidio; al bar spuntano “amici” da ogni dove, e persino Rossana diventa molto più disponibile del solito. 

Al Bar dello sport racconta un mondo che ormai non esiste quasi più: dalla febbre domenicale per il Totocalcio a Torino come fulcro dell’economia industriale italiana, passando per la venerazione verso la famiglia Agnelli; eppure, sotto altri punti di vista rimane un film attuale, con il suo racconto di persone semplici travolte da un evento più grande di loro. 

Il film si apre con una carrellata sul mercato all’aperto più grande e importante del capoluogo piemontese, quello di Porta Palazzo, dove vengono presentati in veloce sequenza tutti i comprimari su cui spiccano Sergio Vastano e Pino Amendola, che sbarcano il lunario o vendendo merce rubata o cercando di piazzare robaccia in stile televendita attuale. Io all’epoca non abitavo molto distante da Porta Palazzo, e ogni tanto un salto ce lo facevo anche solo per andare al Balon, mercato delle pulci dove si poteva trovare di tutto, persino la propria autoradio rubata la sera prima; e non posso non sorridere pensando a come sono cambiate le cose, tra localini super fighetti al posto di bettole piene di gentaglia, e il cambio generazionale ai banchetti degli ambulanti.

È proprio sotto uno di questi banchetti che Lino Banfi, nel film, ha l’ingrato compito di soffiare nella vasca delle vongole per convincere i clienti che “stanno quasi respirando”, o dare la scossa con la batteria della macchina alle aragoste in modo da farle muovere, fulminandosi ogni santa volta. Una vita da disperato, la sua, destinata a cambiare drasticamente grazie a un’incredibile - quasi illogica, per l’epoca - vittoria del Catania sulla Juventus.

Come tutti i film dell’era pre-internet è curioso osservare come le notizia ci mettessero giorni a diventare alla portata di tutti. Gli unici modi per sapere qualcosa in tempo reale erano la televisione o la radio, che nei locali pubblici diventavano delle vere e proprie finestre sul mondo. All’epoca, persino l’ammontare delle vincite venivano calcolati e comunicati in un secondo momento: non dimentichiamo che era tutto fatto a mano, con le schedine che venivano separate tra matrice e parte compilata, con una marca da bollo incollata sopra. Un meccanismo che oggi sembra archeologico ma che è sopravvissuto perfettamente fino all’avvento dell'informatizzazione.

Per quanto minore nella sterminata filmografia di Banfi, Al bar dello sport resta valido soprattutto da un punto di vista sociale. Il regista Francesco Massaro giocò parecchio sul contrasto tra i vari personaggi che affollano il bar (dei quali nessuno, chiaramente, è sabaudo), oltre che con la “piemontesità” di alcune situazioni rendendole tanto esilaranti quanto malinconiche di sottofondo, considerata la mediocrità sociale che abita il film. Film che a oggi resta imprescindibile per qualsiasi torinese anche solo per la scena sulla Mole, quando Banfi recita: “Ma che bello, la mole di Antonello”, con il suo mitico accento.

Questo articolo fa parte della Cover Story pallonara, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.